Genova: “il porto dei miracoli”

Lo hanno ribattezzato “Porto dei Miracoli”. Effettivamente lo scalo genovese fa venire in mente la storia del pane e dei pesci attribuita a Cristo. Con la precisazione che i miracolati sono quei pochissimi signori beneficiati dalla privatizzazione dei noli, a spese dei lavoratori e dell’ambiente.
Per decenni i padroni hanno condotto una campagna denigratoria contro i “camalli”, raffigurati come la corporazione che impediva lo sviluppo dei traffici.
Pochi anni di privatizzazione hanno poi sconvolto il Porto.
È cessata la riserva di lavoro per la Compagnia unica dei portuali. I 17 “terminalisti” ( così si chiamano gli imprenditori accorsi a ricevere la concessione di pezzi di scalo, con la facoltà di assumere personale proprio, usando i residui “camalli” solo per i picchi di lavoro eccedenti la normalità) hanno visto da vicino il miracolo.
Organici ridotti, salari dimezzati, ritmi di lavoro aumentati, organizzazione del lavoro flessibile, con lavoratori disponibili 24 ore su 24. E poi canoni di concessione spesso irrisori rispetto alle spese enormi sostenute dalla mano pubblica, cui competono tutti gli oneri di realizzazione delle infrastrutture ferroviarie e autostradali. Il noto teorema che il successo dell’impresa corrisponde agli interessi più generali, non trova conferma nella realtà.
Scendiamo sotto la Lanterna, dove i portuali si ritrovano ogni giorno nella loro casa “la sala chiamata” .
In verità di giovani “camalli” se ne vedono pochi. I 1200 portuali della nuova generazione, piccola pattuglia rispetto al tetto di 40 anni or sono, sono alle prese con i turni, disponibili in caso di pluriarrivi di navi a coprire 2/3 turni consecutivi. Più numerosi i “vecchi”, restati “camalli” sin nelle midolla.
Molti di loro hanno visto i figli entrare come “soci”: Giorgio, 56 anni, racconta un fatto comune: il padre percepisce una pensione del valore doppio rispetto al salario del figlio. Pensioni dignitose ma non stratosferiche. Passa Andrea, il figlio, che risponde male alla domanda su il miracolo portuale. “Mio padre – racconta – faceva parte della cosiddetta aristocrazia operaia”.
Buon salario, turni decenti, reddito garantito anche nei periodi di scarso lavoro, in base al principio che il lavoratore sempre disponibile deve avere la paga garantita. Il Porto funzionava perché il “camallo” garantiva, sempre, carico e scarico in ogni condizione con una professionalità eccezionale. Oggi funziona bene solo il profitto dei privati, garantito da un tipo di lavoro flessibile, mal retribuito.
Arrivano due giovani delegati, pronti a snocciolare dati incontrovertibili.
Ecco Leo. “Altro che miracoli. Nel 2001 la merce movimentata è stata esattamente quella del 1978. Allora si imbarcava o scaricava con il lavoro manuale. Oggi è arrivata l’era del container; basta il 20% del personale di un tempo. Il costo del lavoro per ogni tonnellata è sceso dell’80%, il salario dimezzato, gli infortuni cresciuti”.
Rincara la dose Marco. “L’era del container riduce i costi, i salari; non incrementa i traffici. Aumenta solo l’uso improddutivo delle calate, diventate un insieme di magazzini all’aperto di container vuoti, grattacieli di scatoloni vuoti. Non è proprio uno spettacolo di armonia con l’ambiente”.
Reinterviene Leo. “La mobilità del container crea problemi immensi alla città, ai quartieri vicini al porto per il traffico, l’inquinamento acustico, atmosferico, per i blocchi stradali”.
Il vecchio “camallo” Giorgio osserva: “Anche noi da giovani avevamo, nel periodo di apprendistato da “occasionali”, trattamenti pessimi. Però che lotte con i comitati, con l’attiva presenza polemica nel sindacato. Tocca a voi svegliarvi. Non basta andare a Roma per l’articolo 18”.
Leo e Marco, punti sul vivo, reagiscono. “Il 23 marzo è stata una lezione per tutti. Ovunque sulle calate, nelle stive se ne parla. Difendiamo sì l’articolo 18, ma prima di tutto riprendiamoci il perduto, a cominciare dal salario garantito allorché siamo disponibili”.
Leo è preciso: “La privatizzazione l’abbiamo subita,anche per la subalternità culturale dei DS. Gli effetti bruciano sulla nostra pelle, la privatizzazione non è obbligatoria. Sono in contatto con i compagni di Barcellona, dove la gestione è pubblica, i salari doppi. Siamo o no in Europa?”
Nasce dai discorsi di giovani e anziani l’idea del “dopo 23 marzo”.
Il grande appuntamento è suggestivo, esaltante. Il piccolo, continuo susseguirsi di appuntamenti è forse banale, ma assai concreto.
Nel porto di Genova si costruisce una vertenza che parte dall’inchiesta. Conoscere e far conoscere gli effetti della privatizzazione, il miracolo dei profitti per i nuovi padroni, con la descrizione capitolo per capitolo, dei vantaggi. L’inferno della malaportualità per i “camalli”, per i precari, da descrivere voce per voce: salario, numero dei containers movimentati ogni turno, ritmi di lavoro di giorno e di notte, con ogni tempo, con i mille infortuni in agguato, le ore di attesa a casa non retribuite per la chiamata che non arriva o se capita ti tocca correre a precipizio sotto nave, composizione ridotta delle squadre, la corsa a finire presto l’inferno di quel lavoro, con il rischio di farsi male o fare male ai compagni vicini.
L’inchiesta come premessa al “Libro Nero della privatizzazione” e come avvio di una vertenza. L’inchiesta sui dati del traffico per smentire il miracolo della moltiplicazione dei containers. Erano 1.500.000 nel 1999; sono allo stesso livello nel 2002. Anzi, nel trimestre gennaio/marzo 2002 i volumi sbarco/imbarco sono diminuiti del 2%.
L’inchiesta su quanto avviene all’estero, da Barcellona a Rotterdam ad Anversa. Il coordinamento dei lavoratori sparsi nei 17 terminals, il ritrovamento della speranza di potercela fare, ritrovarsi, tanti, nei cortei del 16 aprile, l’avvertimento alla CGIL che la manifestazione di Roma non è un episodio.
Sulle calate a Genova nasce qualcosa di nuovo.