L’avvio del 5° Congresso di Rifondazione ha visto il riaprirsi di un dibattito relativo alla normazione della presenza delle donne negli organismi dirigenti. La questione, ancora una volta purtroppo, è emersa senza un dibattito nel Partito che coinvolgesse la maggior parte possibile di compagne ed anche compagni. È’ vero, ormai sono anni che discutiamo di questi temi, ma non è questione acquisita, come abbiamo visto. Vorrei fare quindi un percorso che porti ad assumere collettivamente una scelta. Scelta che, secondo me, farebbe fare un passo avanti a tutto il Partito, anche se ho assoluto rispetto di una posizione contraria, legittima ed interessante, quando non dogmatica, perché ci costringe a puntualizzare la posizione.
Non è possibile fare qui un excursus storico relativo all’emancipazione e liberazione della donna, ma alcune considerazioni credo vadano fatte per sgombrare il campo da fraintendimenti.
Innanzi tutto, pur se pare ovvio, bisogna considerare che, anche per quanto riguarda la condizione femminile, siamo inseriti in un dato momento storico, sociale e culturale, e quindi dobbiamo sapere che la cultura dominante è anche dentro di noi: perciò è necessario un’ atto cosciente per rimuovere quella cultura ed attivare un pensiero e una pratica che costruisca una realtà diversa a partire da ognuno di noi.
Ho detto questo perché non possiamo dare per scontato che le donne e gli uomini del Partito o comunque comunisti abbiano in mente e pratichino, ancor prima dell’assunzione della differenza di genere, l’uguaglianza tra i generi.
Perché è comunque da qui che dobbiamo partire, dall’uguaglianza, considerando il fatto che le istanze di partecipazione umana hanno avuto inizio con il desiderio di raggiungere delle uguali condizioni nei diritti civili e sociali. Tanto è vero che l’emancipazione femminile, pur con molte contraddizioni, si è accompagnata alla storia dell’emancipazione umana: dalla Rivolu
zione francese ai movimenti dei lavoratori.
È vero però che, nella storia, metre da una parte si cercava e si dichiarava l’uguaglianza, dall’altra si continuava appunto a negarla: dall’antica Grecia, considerata culla della democrazia, nella quale, come si sa, esisteva la schiavitù e le donne erano completamente escluse dalla vita pubblica, alla Rivoluzione francese che manda alla ghigliottina Olim-
pia de Gouges perché proponeva la carta dei diritti della donna e della cittadina. Questa esclusione in modo vario durerà fino al 1900, secolo tanto bistrattato quanto contraddittorio, pieno certo di orrori, ma che ha visto il più alto allargamento della democrazia alla partecipazione delle donne (e non solo ovviamente!).
Tornando alla storia,esiste un percorso nel pensiero occidentale che teorizza, per duemila e più anni, che la donna debba ricoprire un ruolo solamente relativo alla famiglia e quindi alla sfera privata, luogo nel quale (solo per i più illuminati) si può realizzare quella “uguaglianza” di cui parlavo. Tutte le teorie sullo Stato moderno, come le precedenti, partono dalla famiglia come nucleo di base della società; famiglia nella quale la donna, nella migliore delle ipotesi, svolge un ruolo di condivisione appunto nel privato, nella peggiore è una proprietà dell’uomo, uomo che è unico rappresentante della famiglia nella sfera pubblica a tutti i livelli da quello politico a quello economico. La giustificazione ovviamente rimanda ad uno stato di natura: mentre la socie
tà umana ha ormai di naturale ben poco, mentre l’uomo (nel senso di maschio) si è ormai emancipato dallo stato di natura per costruire una società civile, la donna rimane re/legata tramite il suo ruolo riproduttivo e di cura a quello stato “naturale” e quindi incapace di razionalità necessaria alla civiltà.
Mi scuso per la estrema sintesi di pensiero e di storia, ma tant’è dobbiamo arrivare a Marx ed Engels per vedere messo in discussione l’impianto di cui sopra. In particolare tre passaggi nel loro pensiero trasformano quell’approccio:
a) principalmente, come è ovvio, il fatto che il marxismo, ponendo la lotta fra le classi come motore della storia, rompe l’unicità della pretesa universalità borghese, ed al suo interno inserisce la donna, in quanto tale e come lavoratrice, come soggetto sfruttato, che tende, insieme all’uomo nella classe, ma anche come soggetto dominato dall’uomo nel privato, ad un percorso emancipatorio.
b) il secondo passaggio è relativo alla messa in discussione della naturalità della condizione femminile: nel senso che, pur prendendo atto del ruolo riproduttivo, non ne trae conseguenze sociali scontate ma anzi le mette in discussione.
c) infine Marx mette in discussione quell’uguaglianza nel diritto che, di fronte a condizioni disuguali, crea disuguaglianza. Marx non pensa certo alla differenza di genere ma, di fatto, rileva un elemento fondamentale che, su un altro piano, metterà in discussione, per superarla in avanti, la “sola” uguaglianza.
Qui uno dei nodi: come mantenere il fondamento dell’uguaglianza pur riconoscendo una differenza di genere? Intanto cosa intendiamo (intendo) per differenza di genere: non possiamo ridurre tutto, ma nemmeno escludere, al livello fisico e alla riproduzione, certo non è poco ma, se il lavoro di cura fosse condiviso, e può esserlo, vi è un’intera vita nella quale uomini e donne possono essere assolutamente equivalenti. Il fondamento non può essere esclusivamente naturale, pena il rientro delle donne nel solo ambito “di natura” e nella condizione storicamente data. La rilevanza vera è la condizione storica e sociale. Una condizione così radicata da parere “naturale” e non, come è, culturale. Una cultura che informa di sé tutta la condizione femminile e maschile, fin nel profondo della psiche fin dai primi giorni di vita.
La differenza di genere è quindi quell’insieme di storia, cultura e natura che danno oggi quella diversa condizione sociale, culturale, psicologica vissuti da donne e uomini. Questo non significa che tutte le donne e gli uomini vivano la stessa condizione, ma che questa permea variamente ognuno, a seconda del suo livello sociale e personale. Importante è cogliere che questo diverso vissuto è un portato esperienziale che informa di sé il proprio agire che ,pur non esaurendo la possibilità di mettere in discussione la realtà data, è spesso elemento fondante per leggerla. Una visione di genere permette di strutturare una analisi complessiva che vede la differente condizione femminile e maschile in ogni ambito della realtà, e ne può costruire un’analisi unica e omogenea dove non ci sia “la” condizione femminile che riguarda esclusivamente l’aspetto di cura e quella “maschile” che riguarda il mondo, la sfera pubblica e quindi la politica nel suo insieme (perché è una posizione subalterna al pensiero moderno borghese); ci sia invece una lettura del mondo che, intrecciando sfera privata e pubblica, come elementi entrambi fondanti della vita umana, intrecciando classe e genere come pensieri e letture del mondo che mettono in discussione la realtà data, critichi lo stato di cose esistente e ne costruisca uno nuovo.
Va da sé che è evidente la necessità di intrecciare la coscienza di genere a quella di classe e che, come si diceva negli anni ’70, “non c’è liberazione (della donna) senza rivoluzione, non c’è rivoluzione senza liberazione”, intendendo che le due cose non possono essere scisse ed allargando l’egemonia comunista ad ambiti più ampi che, partendo proprio dalla condizione di genere, assunsero poi una critica complessiva alla realtà ed al capitalismo. Capitalismo che ha portato tra le sue contraddizioni un percorso che, se per una parte apriva spazi emancipatori per le donne, dall’altra ha mantenuto un’ideologia patriarcale che con le donne non è mai andata per il sottile.
Anche prima del capitalismo, con le dovute eccezioni (certo Elisabetta I non aveva di questi problemi), le donne erano totalmente soggette all’uomo e l’ideologia patriarcale dominava nei suoi sviluppi più tragici tanto che le decine di migliaia di donne bruciate come streghe fa ormai dire ad alcuni storici che si trattò di un vero “genocidio” di genere e per almeno un paio di secoli dopo la rivoluzione industriale, le donne hanno continuato ad essere “proprietà soggette al capofamiglia”.
Voglio anche ricordare che, in realtà, il movimento per l’emancipazione delle donne partì dalle donne borghesi per ottenere il diritto di voto e, ripeto, ha accompagnato in modo più o meno contraddittorio come alleanza forte, tutto il percorso emancipatorio delle masse popolari dalla rivoluzione culturale e lungo tutto il ‘900 e gli anni ’70 in particolare. Da questo percorso hanno guadagnato moltissimo, e forse di più, le donne proletarie che, per esempio, prima della battaglia per legalizzare l’aborto morivano a decine sotto i ferri delle mammane, mentre le borghesi potevano permettersi di andare in svizzera o nelle cliniche private, battaglia che portarono avanti anche le donne borghesi.
Altro punto sostanziale da considerare riguarda le diverse condizioni attraversano i due generi, quindi la differenza di genere va assunta sia dalle donne che dagli uomini: dalle donne come coscienza di un percorso storico e di una condizione sociale e psicologica, che le ha limitate alla sfera privata e le pone nella maggior parte dei casi in una situazione di subalternità al dominio maschile e sue complici; per gli uomini significa assumere la loro parzialità e mettere in discussione la loro pretesa universalità e il loro dominio, sia nella sfera pubblica che in quella privata, entrambi per cercare di ricollocare in un nuovo equilibrio il valore e la reciproca presenza sia nel/del privato che nella/della sfera pubblica.
Questo excursus, scusate ancora la schematicità, mi è servito per dare fondamento alla richiesta, e secondo me necessità per tutti, di presenza femminile nel Partito e negli organismi.
Ebbi già occasione di esprimere alcune considerazioni che, per finire, riprenderò.
– L’abitudine, legata a 2000 anni di storia, di delega agli uomini e il riconoscersi in essi per quanto riguarda la sfera pubblica dell’esistenza, l’incapacità di riconoscere autorevolezza alle donne, anche da parte delle stesse donne che hanno interiorizzato un modello femminile subalterno, le difficoltà concrete legate all’attività politica mettono spesso le donne che fanno politica in una situazione che ha un di più di difficoltà rispetto agli uomini e necessita quindi sia di fattiva collaborazione e strumenti per superare gli ostacoli oggettivi, che di un “sostegno” nella formazione e nelle possibilità date perché le donne li superino.
– Dobbiamo essere coscienti che la norma antidiscriminatoria o le quote non sono la soluzione di tutto questo bensì un mezzo, per niente perfetto, una prova per cercare di iniziare un percorso positivo rispetto ad una presenza femminile che possa portare a permeare di sé le politiche del partito, per cambiare in modo complessivo la società, per ampliare il consenso femminile al nostro progetto e al nostro partito, per cambiare il mondo.
– Gli uomini non rappresentano “solo” gli uomini e le donne non rappresentano “solo” le donne, uomini e donne rappresentano posizioni politiche nelle quali possono riconoscersi uomini e donne, non necessariamente meglio espressi dal loro genere di appartenenza.
– Bisogna sapere comunque che non basta essere donne, troppe volte nemiche di se stesse e subalterne al pensiero maschile per attuare politiche che diano valore alle donne e alla politica di genere. La coscienza di genere, con le dovute diversità è un po’ come la coscienza di classe: non basta essere lavoratori per averla e non sappiamo come si forma e perché alcuni la acquisiscano ed altri siano subalterni ai padroni.
D’altra parte non è che in fabbrica si fanno le lotte solo con quelli che hanno già una “perfetta e completa” coscienza di classe, si fanno con tutti quelli che condividono determinate piattaforme e si costruisce coscienza attraverso le lotte portate avanti insieme. Certo non si può pensare ad una “lotta tra i generi”, perché ne andrebbe in discussione l’esistenza dell’umanità, ma già questo deve farci pensare che certo un conflitto è necessario, ma anche una condivisione, nonché un’ assunzione dei propri limiti da parte degli uomini.
– È evidente che il problema di linee politiche moderate riguarda sia uomini che donne, le quali appunto lo ripeto ancora, hanno posizioni politiche che possono essere giuste o sbagliate tanto quanto quelle degli uomini e ciò non ha nulla a che fare con la differenza di genere.
– Esiste una scuola di pensiero più che apprezzabile (molto presente nel movimento) che critica le quo
te, perché ritiene sia fondamentale che le donne lottino per conquistare gli spazi e che si debbano valorizzare solo quelle donne che esprimano indipendenza ed autonomia ed abbiano assunto una cultura di genere.
– Non possiamo continuare a pensare – tutte – che sia vero che passano le donne più “capaci” perché, anche qui mi ripeto, vorrebbe dire che tutti gli uomini che entrano negli organismi dirigenti sono veramente i migliori, ( sappiamo che non è così e spesso vengono cooptati solo quelli più “fedeli”), vorrebbe dire anche che sono veramente capaci solo una piccolissima minoranza di donne e tutte le altre non lo sono, considerazione che esprimerebbe una grande presunzione e non farebbe luce sulla realtà, anche perché le pur poche donne, come gli uomini, non è detto che entrino perché sono le migliori.
La norma è quindi solo un tentativo per inserire il portato esperienziale delle donne e permeare di politica delle donne tutta la politica del partito, per costruire un percorso virtuoso che coinvolga all’attività del Partito ed al consenso un maggior numero di donne, soggetto che fino ad oggi continua a non ritenerci un’interlotore credibile.
La verità è che nessuna area del nostro partito ha assunto fino in fondo le analisi e l’assunto di base della differenza di genere, anche perché i nostri dirigenti appartengono per lo più a generazioni che sono state formate nel fase emancipatoria del movimento delle donne, fase pur fondamentale ma non sufficiente, e continuano a pensare in due tempi o a due ambiti separati.
Ciò non toglie la necessità, come sostengo da tempo, di un momento e spazio di incontro tra le sole compagne, ma anche di momenti nei quali condividere con i compagni le elaborazioni e le proposte emerse.
È evidente, altresì, che nessuno vuole “obbligare” le donne ad entrare nella sfera pubblica, bensì rendere possibile che ciò avvenga senza che le cordate di maschi autotutelantisi ritengano appunto un “obbligo” condividere gli spazi con la loro presenza, ma invece una normale coesistenza e l’occasione per un apporto in più di esperienza e di visione del mondo.