General intellect e legge del valore

Vorrei partecipare con questo mio modesto contributo al dibattito aperto da Francesco Nappo sul numero 2 del marzo di questo anno della vostra rivista.
Lo faccio nella piena convinzione che la rilettura di questo frammento dell’analisi marxiana sia di estrema attualità e di grande interesse nella fase politica che stiamo oggi vivendo.
Gli aspetti su cui vorrei incentrare queste poche righe sono essenzialmente due e rappresentano, a mio avviso, proprio il cuore “dirompente”, ed insieme “inquietante” dei quaderni in questione all’interno dell’intero corpo teorico di Marx.
Nappo li introduce entrambi nel suo saggio critico, ma io vorrei proseguire su quel tracciato e proporre un’ulteriore momento di riflessione.
Da una parte abbiamo la questione del cosiddetto general intellect, dell’intelletto in generale, quindi del sapere sociale, dall’altra la questione che potremo definire della legge del valore, del valore del lavoro.
Innanzi tutto credo sia importante sottolineare che questi due aspetti, ma complessivamente l’intera parte di analisi contenuta in questi due quaderni, tendano a delineare secondo le intenzioni di Marx non un carattere generale ed astratto della natura del capitale e del rapporto tra capitale e lavoro, ma bensì una specifica fase della sua evoluzione e quindi un particolare e definito momento del rapporto tra sviluppo capitalistico e assetto della società.
Si parla infatti di un momento avanzato dello sviluppo del processo di produzione e di valorizzazione, nel quale la macchina diviene “sistema automatico di macchine” il cui “automa è costituito di numerosi organi meccanici ed intellettuali (il grassetto è mio) rispetto alle quali il lavoro vivo diviene semplice accessorio vivente di queste macchine”.
La macchina, questa specifica forma della macchina, non solo non si presenta più “sotto nessun rispetto come mezzo di lavoro dell’operaio singolo” ma essa stessa è frutto di una “Scienza” che “non esiste nella coscienza dell’operaio” e, questa scienza, “agisce, attraverso le macchine, come un potere estraneo su di lui, come potere della macchina stessa”.
Ed approdiamo qui al primo punto della questione: la “Scienza” come conoscenza, come presenza di un sapere in generale della società e lo sviluppo della macchina, letto in questa specifica fase, come scrive lo stesso Nappo, all’interno di un particolare processo di “sussunzione al macchinario del general intellect”.
Ripropongo i due termini di “specifica” e di “particolare” perché non vi è dubbio che il “sapere sociale” non sia certamente un fattore di presenza relativo esclusivamente alla fase attuale, esso è sempre esistito, vuoi nella forma di rapporto dialettico tra lavoro vivo e processo lavorativo, sia nella forma socializzata di produzione e riproduzione di circolazione di informazioni, di cooperazione, quindi di presenza e sviluppo di quello che Marx ha chiamato, appunto, “lavoro storico universale”.
Il problema della specificità, e quindi della rilevanza assoluta e non relativa del sapere sociale, si manifesta quando esso si reifica in General Intellect, in quanto, ad un determinato livello dello sviluppo del sistema capitalistico delle macchine “è l’individuo sociale che si presenta come il grande pilastro di sostegno della produzione e della ricchezza” e quindi, “non è il lavoro immediato eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale”.
Allora, continua Marx “il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa”.
Qui, allora, il concetto di “crescente sussunzione”(Nappo), la capacità da parte del capitale di assumere direttamente valore attraverso un atto di rapina e codificazione del sapere sociale in capitale fisso, si estroflette dalla sua dimensione processuale per divenire, nella forma del general intellect elemento centrale “pilastro” della produzione della ricchezza, principale forza produttiva, relegando il lavoro parcellizzato e ripetitivo in una posizione residuale.
La progressiva preminenza del sapere sociale tende a rendere il tempo di lavoro a quantità miserabile e collocare l’operaio, da agente principale, a figura che sta “accanto” al processo produttivo.
Vi è quindi, pur nella continuità oggettiva dello sviluppo del capitale, che tende per sua natura a “ridurre” progressivamente lavoro vivo, a ridurre fino alla stessa negazione il lavoro necessario, un salto qualitativo che sembra assumere i profondi connotati di una vera e propria rigenerazione degli stessi rapporti di capitale.
Non si tratta neppure di semplici fenomeni relegabili allo sviluppo del lavoro intellettuale o dell’intellettualizzazione progressiva del lavoro in generale, e neppure, se vogliamo, della cosiddetta produzione “immateriale”.
Certamente questi processi, complessivamente, costituiscono le condizioni oggettive sulle quali può costituirsi il processo di sussunzione del sapere sociale; lo sviluppo dei sistemi di tecnologie informatiche hanno, in altre parole, contribuito in modo essenziale a far sì che si sia potuto realizzare il passaggio dall’attività individuale dell’intellettuale ad una attività sociale del pensiero adeguata al capitale, ma qui si tratta di sussunzione, di messa a profitto non solo di tempo di lavoro (manuale ed intellettuale), ma del tempo di vita in generale, dell’individuo e quindi della società in quanto tali, nel loro tempo di lavoro, ma anche di non lavoro.
Questo capitale non si alimenta più del solo lavoro vivo, ma anzi della totalità della esperienza umana.
È in questa capacità pervasiva, totalizzante, universale del capitale nei confronti della società che si compie, o si sta compiendo, nella sua dimensione definitiva ed irreversibile la fase di sussunzione reale.

Ma qui, sulla questione della centralità del sapere sociale all’interno del processo di produzione della ricchezza, si incrocia l’altra faccia del problema, l’altra questione fondamentale introdotta da Marx, estremamente complessa, e, se vogliamo, contraddittoria.
Riprendiamo un attimo Marx; “il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa”, ma ancora “non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura”
In altre parole, se il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro in essa incorporato, quando questo diviene “negligeable”, “miserabile” nel contesto generale del processo di valorizzazione, esso non può più essere misura del valore, d’altra parte o nonostante ciò, il capitale continua perentoriamente a “misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato”.
Ora noi possiamo anche divertirci a svolgere infinite speculazioni filologiche sulle parole di Marx, ma alla fine il nodo tornerà a bloccare il pettine.
Qui Marx pone un’ipotesi emancipativa diversa dalle altre più note espresse in altri testi.
Qui vi è di fatto l’introduzione di un paradigma che riconduce ad una origine della crisi che questa volta viene addotta alla profonda ed inarrestabile contraddizione fra un processo produttivo ed un processo di valorizzazione che riescono ad impiantarsi direttamente e prioritariamente sulla scienza, deflagrando e superando la legge del valore ed una misura della ricchezza ancora coincidente con la quantità di lavoro incorporata nei prodotti.
Il concetto di valore è in origine concepito come misura temporale della produttività. Ma se da una parte il tempo di lavoro immediato diviene così ridotto da non poter più essere metro del valore, dall’altra dobbiamo chiederci in che forma può il tempo divenire misura della produttività del lavoro sociale. Se il lavoro/non lavoro sociale copre tutto il tempo di vita ed investe tutte le sfere della società, come può il tempo misurare la totalità nella quale è implicato? Quando tutto il tempo della vita è divenuto tempo di produzione, chi misura cosa?
La vigenza della legge del valore può essere dunque reintrodotta solo forzosamente come legge di puro dominio e di puro comando del capitale sulla società.
Nel senso che il fatto che la legge del valore non possa più misurare lo sfruttamento non significa che lo sfruttamento sia scomparso; ciò che è scomparso è solo la forma dialettica del valore, la legge del valore permane come legge del plusvalore e quindi come forma giuridica e legge politica, comando, controllo e dominio della società nella sussunzione reale capitalistica. Non a caso, e detto per inciso, l’esistenza e l’irreversibile divaricarsi a forbice tra questi due poli della contraddizione, secondo Marx, avrebbero dovuto condurre al crollo della produzione basata sul valore di scambio e quindi al comunismo.

Il quadro prefigurato da Marx dunque sembra oggi coincidere con lo scenario di fase attuale o almeno sulle sue tendenze in atto.
Con la sola differenza che il capitalismo non è crollato, il tempo liberato dal lavoro non si è trasformato in emancipazione dell’uomo, la scienza e la tecnologia nella loro forma di macchine, per dirla con le parole di Horkheimer, “Invece di rendere superfluo il lavoro, hanno reso superflui i lavoratori”
Il tempo liberato si sta manifestando per il contrario di quello che poteva essere e cioè in progressiva pauperizzazione del mondo, in miseria, in disoccupazione, in precarizazione, in lavoro nero, in intensificazione dello sfruttamento, in diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori, in lavoro interinale.
La contraddizione ha lavorato quindi nella direzione opposta a quella prefigurata da Marx.
Ma la vigenza, diciamo “surrogata”, della legge del valore non significa affatto, provando a rovesciare l’ordine tra soggetto e predicato, che il lavoro salariato di fabbrica continui o ritorni ad essere momento centrale del processo di valorizzazione.
Se i nostri ragionamenti, se l’ipotesi di una prefigurazione in itinere della fase attuale nella direzione disegnata da Marx nel “frammento sulle macchine” è vera, occorre prendere atto che, pur non venendo certamente soppressa tecnologicamente la classe operaia di fabbrica, certamente essa, nella dimensione politica del rapporto tra capitale e lavoro, in prospettiva cessa di essere soggetto centrale o pilastro insieme della produzione della ricchezza ma anche di un progetto antagonista.
Quindi, allargando e integrando le paure paventate da Nappo di fughe teoriche nella direzione di tesi post-marxiste sulla fine del lavoro, ad esse andrebbero immediatamente aggiunte quelle relative agli altrettanto sterili arroccamenti teorici sulla continuità e quindi sulla centralità del lavoro salariato di fabbrica in una prospettiva di ricostruzione di un conflitto di classe aperto.
Mi riferisco soprattutto proprio a quella parte del movimento operaio organizzato e a quei partiti della sinistra che ancora oggi fanno della centralità del lavoro salariato la propria solida ragione d’essere, reintroducendo essi stessi, surrettiziamente, a loro modo, forzosamente la legge del valore.
E deve essere subito chiaro che con ciò non si intende determinare cesure, rimozioni, nuovismi teorici post-marxisti, anzi si intende proprio recuperare semmai, fuori dalle teorie continuiste, dalle false ortodossie della storia, una valenza del movimento operaio come patrimonio di classe, della sua capacità di trasmettersi nel tempo come forza rigeneratrice, come codice genetico, come cultura, organizzazione e quadri, all’interno di figure e soggetti sempre diversi: dall’operaio artigiano delle prime manifatture, all’operaio professionale, all’operaio massa della rivoluzione fordista-taylorista ed ora progressivamente e presumibilmente nell’individuo produttore del general intellect.

Ma tutto questo significa assumere il quadro della fase, i caratteri della crisi così come oggettivamente si presentano.
Significa entrare direttamente nella carne dei due poli della contraddizione, essendo tra l’altro coscienti che essi non ripresentano così schematicamente delineati come dall’impianto teorico. La nostra è una fase di transizione in cui gli agenti generatori del cosiddetto post fordismo si intersecano con i caratteri e le presenze dell’organizzazione preesistenti.
Ma, fuori da ogni elemento di ambiguità, sembra emergere la necessità di entrare profondamente nel merito del processo in atto.
Se il capitale oggi è capace di trasformare la vita sociale in momento di produzione di valore, di sussumere il sapere, la conoscenza, i rapporti, i linguaggi che complessivamente rappresentano lavoro vivo indipendentemente dal fatto che sia o meno costretto all’interno di un rapporto salariale, e trasformarli gratuitamente in capitale fisso, occorre predisporre gli strumenti, le capacità interpretative per capire come ciò avvenga, e questo non solamente, per quanto abbiamo affermato precedentemente, sul piano dei processi di messa a profitto e quindi di espropriazione delle capacità di lavoro intellettuali dei nuovi lavoratori informatici, dei produttori della New Economy, ma delle reti di relazioni, di comunicazioni, di cooperazioni, di attività di vita che l’intera società metropolitana oggi esprime.
Indagine conoscitiva di meccanismi, di leggi, ma anche immediatamente strumentazione critica, punto di vista di classe.
Il Marx, soprattutto nei Grundrisse, è immediatamente sovversione delle priorità storiche tra capitale e lavoro, è capitale messo in funzione della classe operaia. Indagare, decifrare i processi reali di sussunzione diviene allora anche prassi politica di ridefinizione di nuove centralità soggettive, di nuove possibili fasi di conflitto di classe.
Il capitale per esistere, per essere rapporto di produzione, deve presupporre la forza lavoro, così come la forza lavoro deve presupporre le condizioni di lavoro; il general intellect di per sé non produce valore, il lavoro stesso non produce nessun valore se non all’interno dei rapporti capitalistici di produzione, e questo indipendentemente dalle figure storicamente determinate che posso rappresentarsi di volta in volta come classe dei capitalisti e classe dei lavoratori.
Questo reciproco presupporsi è l’inevitabilità storica del conflitto tra capitale e lavoro, e questo con buona pace di tutti i Blair che dichiarano la fine della lotta di classe, ma anche di tutti coloro che nella crisi progressiva della forma del rapporto di lavoro salariato salutano il trionfo dell’autovalorizzazione e la liberazione dal giogo del capitale.
Queste mie riflessioni ovviamente sono solo una interpretazione, un tentativo di lettura dei caratteri della fase attuale operata attraverso questi importanti quaderni dei Grundrisse di Marx.
Un parzialissimo contributo nella direzione di una comprensione della natura della crisi che oggi investe la sinistra di classe, ma anche e soprattutto il conflitto tra capitale e lavoro, il rarefarsi della domanda di comunismo, i processi disgregativi in atto, le difficoltà evidenti del ricostituirsi di nuove soggettività politiche antagoniste.