FIOM: dal Congresso alla lotta

CENTRALITÀ DEL LAVORO, DEMOCRAZIA SINDACALE, BATTAGLIA PER I DIRITTI E PER IL SALARIO, RELAZIONI SINDACALI, ALTERNATIVA: INTERVISTA A GIANNI RINALDINI, SEGRETARIO GENERALE DELLA FIOM.

Il 3 giugno, nella tua relazione al Congresso nazionale della Fiom, hai dichiarato: “il voto assumerà inevitabilmente il valore del giudizio sull’attuale compagine governativa”.
Due giorni dopo le elezioni, cosa pensi dell’Italia che esce dalle urne?

I risultati elettorali hanno confermato il giudizio negativo da parte degli elettori nei confronti del governo di Berlusconi e delle scelte che ha compiuto in questi anni, sia per quanto riguarda la politica internazionale, con la partecipazione alla guerra e l’invio delle truppe italiane in Iraq, sia per quanto riguarda la politica economica e sociale.
Il quadro emerso dalle urne indica una sconfitta del centro destra, soprattutto nelle amministrative.
Questo pone alle forze di opposizione, che escono complessivamente rafforzate dalla competizione elettorale, il problema di come mettere in campo una ipotesi programmatica alternativa al governo Berlusconi per voltare pagina rispetto alle vicende politiche di questi anni.

A Livorno avete ribadito la vostra scelta di indipendenza e autonomia dai governi e dai partiti e, contemporaneamente, avete espresso critiche e avanzato richieste alla politica.
Cosa chiede la Fiom alla sinistra e al centro sinistra? Quali sono i vostri “paletti”, cioè i punti irrinunciabili da inserire nel programma di chi si candida a guidare il paese in alternativa al centro destra?

Un programma è composto da tante cose, ma considero punti programmatici decisivi: il rifiuto della guerra come strumento di regolazione dei rapporti internazionali (così come recita la nostra Costituzione) e una diversa politica industriale, intendendo per politica industriale anche la politica del lavoro.
In questo senso chiediamo alle forze politiche oggi all’opposizione di considerare come nodi prioritari del proprio programma la totale abrogazione della legge 30, che ha come fulcro la precarizzazione, e della legge Bossi-Fini.
Il terzo aspetto, assolutamente decisivo, è una legge sulla rappresentanza sindacale che renda validi ed efficaci gli accordi solo quando sono votati dalla maggioranza dei diretti interessati.

Rispetto alla legge sulla rappresentanza si è pronunciato di recente il segretario generale della Cisl: non ci facciamo certo dire da una legge come regolare i nostri rapporti, ha dichiarato.
Pensi sia possibile stabilire con le altre organizzazioni sindacali regole democratiche che possano evitare gli accordi separati?

Noi crediamo che soltanto la certezza sul piano legislativo possa affermare il diritto democratico (perché di diritto democratico si tratta) dei lavoratori di votare su accordi che riguardano il merito della loro condizione. Questo è un obiettivo che continueremo a perseguire.
Nello stesso tempo, è evidente che non possiamo semplicemente aspettare un atto legislativo che apra sul terreno della democrazia.
Per questo al Congresso abbiamo deciso di proporre a Fim e Uilm di definire insieme delle regole che, pur tenendo conto delle differenze, ci permettano di affermare, anche in riferimento alle prossime scadenze nazionali, un percorso democratico che affermi il potere decisionale ai lavoratori.
Sono due le cose che perseguiamo: la legge, che per noi rimane un obiettivo, e un accordo pattizio con le altre organizzazioni sindacali che escluda gli accordi separati e consenta una gestione democratica di questa fase.

Mi pare che la vicenda di Melfi abbia segnato una svolta nei rapporti con le altre organizzazioni sindacali e con la stessa Cgil,.
Ricordo che prima della vittoria dei lavoratori persino all’interno della Cgil non era inusuale sentire il ritornello: “basta con questi della Fiom, stanno tirando un po’ troppo la corda, devono tornare ad essere un po’ più ragionevoli!”.
La musica poi è un po’ cambiata…

Non c’è dubbio che Melfi abbia rappresentato una svolta anche dal punto di vista del rapporto democratico con i lavoratori perché la vertenza si è conclusa con le assemblee e con il referendum tra i lavoratori. La vertenza della Fincantieri si è chiusa, dopo quasi cento ore di sciopero, con lo stesso meccanismo democratico.
Le vicende di Melfi e della Fincantieri hanno visto conclusioni gestite unitariamente.
Proprio per questo credo ci possano essere le condizione per assumere quelle esperienze come metodo di lavoro nel rapporto tra le diverse organizzazioni sindacali e in rapporto con i lavoratori.

Torno sul prima e dopo Melfi, perché una cosa mi ha impressionato: nel giro di poche ore, le pesanti critiche (anche in casa Cgil) su come la Fiom stava gestendo quella lotta si sono trasformate in una sorta di ode a Melfi, alla democrazia, alla Fiom.
Eppure si continuano serenamente a firmare accordi (come quello degli artigiani, dei call center e, ultimo in ordine di tempo, quello del settore della gomma plastica) che in sintonia con la legge 30 (quella che la Cgil tutta considera una sciagura) aumentano la precarietà, la flessibilità, gli orari di lavoro e cancellano i diritti.
Come giudichi questo scarto tra parole e prassi?

Non esprimo giudizi sul comportamento e sulle scelte delle altre categorie.
Però ribadisco che quella della democrazia non è una specificità di categoria, ma assume un valore universale, segna l’identità del sindacato. Noi meccanici la pratichiamo, come peraltro è stato deciso dall’ultimo congresso della Cgil, basta leggere il documento conclusivo unitario di quel congresso, la dove si afferma: “la Cgil continua a non considerare come pratica democratica l’idea che siano le organizzazioni a decidere per conto di tutti e quindi a sottrarre ai lavoratori il giudizio su una attività loro destinata” e, ancora, “per la Cgil la valutazione certificata è elemento costitutivo dell’identità democratica dell’organizzazione”.
Tra la lotta contro la precarizzazione e la pura e semplice attuazione della legge 30 noi crediamo sia necessaria una coerenza contrattuale, perché un sindacato non può permettersi di chiedere alle forze politiche di abrogare o comunque modificare sostanzialmente la legge e contemporaneamente attuare una prassi contrattuale che va in direzione opposta.
Per un soggetto sindacale la identità si definisce a partire dalla prassi contrattuale .

Confindustria ha un nuovo leader. La relazione di investitura di Montezemolo è stata accolta positivamente anche dai vertici sindacali e sulle bocche di molti è tornata la paro la “concertazione”.
Io ho trovato francamente eccessiva l’apertura di credito verso un presidente degli industriali che ha comunque scelto tra i suoi collaboratori più stretti proprio il sostenitore degli accordi separati dei metalmeccanici.
Tu che ne pensi e, soprattutto, su cosa dovrebbero essere improntati i rapporti tra le organizzazioni sindacali e il mondo dell’impresa per essere positivi?

Sugli aspetti che attengono al gruppo dirigente di Confindustria, ovviamente, non esprimo un parere, dal momento che riterrei improprio che Confindustria o Federmeccanica lo facessero nei confronti della Fiom.
Mi sento invece di dire che Montezemolo si è presentato con una lettura che rappresenta una discontinuità rispetto alla gestione D’Amato.
Dopo di che, le verifiche staranno nei fatti. E’ sulla base degli atti concreti che giudicheremo i nuovi vertici confindustriali.
A breve avremo un incontro sulla Fiat, e dal momento che Montezemolo è anche presidente di Fiat, vedremo con quali proposte di presenterà.
Vorremmo poi capire se Confindustria considera conclusa oppure no la fase degli accordi separati. Perché è evidente che qualsiasi confronto per stabilire relazioni sindacali normali non può che partire dal dato che la strada degli accordi separati non venga considerata percorribile neppure dagli industriali.

Nel vostro congresso avete rilanciato la proposta del contratto dell’industria, che nasce dalla necessità di ricostruire la catena del lavoro per combattere frammentazione e precarietà.
Ci sono però vicende come quelle dei lavoratori di Omnitel che avevano il contratto dei metalmeccanici e che, contro la volontà dei delegati, vengono spostati in un’altra categoria. Non trovi che tra le due cose ci sia una certa contraddizione?

La contraddizione c’è ed è evidente. Noi abbiamo posto la questione della necessità, a fronte dei processi di trasformazione in atto, di ridefinire la struttura sindacale, cioè i confini delle stesse categorie ed i contratti.
Si tratta di decidere, in sintesi, se accettare la frantumazione del ciclo lavorativo imposta dall’impresa, oppure se muoversi con l’obiettivo della riunificazione del lavoro nella sua filiera produttiva.
Quello che non si può fare è procedere senza una adeguata direzione cui devono corrispondere chiare scelte, perché le scelte organizzative discendono dalla linea contrattuale che si intende perseguire.
Questo è il nodo che abbiamo sottolineato, proponendo il contratto dell’industria con la precisa volontà di aprire una discussione ed un confronto con le altre categorie e la confederazione.
La cosa peggiore che si possa fare è procedere, peraltro secondo criteri abbastanza confusi, a processi di accorpamento ed a passaggi dall’una all’altra categoria senza avere un disegno complessivo e generale per quanto riguarda il futuro del sindacato, perchè a quel punto le scelte vengono compiute secondo logiche perlomeno oscure.

Democrazia, autonomia e indipendenza, improponibilità dell’accordo del 23 luglio, obiettivi rivendicativi chiari, una pratica contrattuale senza sbavature: è con questo patrimonio comune che la Fiom si presenta all’esterno. Con quali strumenti intendete portare avanti la vostra azione?

Con il Congresso abbiamo messo a punto anche la strumentazione di cui la Fiom si dovrà dotare per affrontare una fase tanto difficile.
Abbiamo sentito la necessità di dotarci di nuove strutture per adeguare la nostra lettura dei processi in atto e rendere più efficace la nostra azione: dalla scuola sindacale come momento di formazione per i delegati e i gruppi dirigenti; alla consulta giuridica con il compito di approfondire le questioni poste dalla nuova legislazione sul lavoro, fino alla consulta economico-sociale che si avvarrà del contributo di persone esterne alla Fiom che hanno comunque un interesse a lavorare con la nostra organizzazione. Queste sono scelte interne alla vita dell’organizzazione.
Contemporaneamente nelle prossime settimane apriremo un confronto con le altre organizzazioni sindacali per verificare la possibilità di definire delle regole democratiche.

Spesso siete stati dipinti come la categoria più “vetero” della Cgil. Eppure siete stati i primi ad entrare in rapporto con i movimenti che rifiutano la guerra e la globalizzazione liberista e lottano contro la precarietà.
Eravate a Genova, quando non c’era ancora la Cgil. Avete detto no alla guerra del Kossovo, mentre tanta parte del movimento sindacale la considerava “una contingente necessità”. I giovani metalmeccanici, determinati e combattivi, sono stati i protagonisti delle mobilitazioni degli ultimi anni.
In sintesi: le vostre scelte hanno creato un legame tra la Fiom e un universo giovanile che spesso si è sentito un po’ respinto dal sindacato. Non pensi che una parte di questi giovani debba essere coinvolta maggiormente nell’organizzazione?

Questa è una delle scelte che abbiamo compiuto quando abbiamo parlato di rinnovamento.
Anche se bisognerebbe sfatare l’idea che la Fiom e i movimenti siano corpi in qualche modo estranei: alla Fincantieri di Monfalcone, se uno ci fa un giro, scopre che la stragrande maggioranza dei lavoratori sono giovani. Intendo dire che i giovani lavoratori protagonisti delle lotte, spesso fanno parte del movimento contro la guerra e il liberismo e viceversa.
In realtà noi della Fiom abbiamo fatto parte della costruzione del movimento contro questa globalizzazione fin dall’inizio, dal primo appuntamento di Porto Allegre.
Questo non elimina però il problema più generale di come il sindacato, che come qualsiasi organizzazione contiene elementi di burocrazia e autoconservazione molto forti e potenti (al di là di quello che si afferma), sia in grado di operare effettivamente un rinnovamento che liberi spazio e dia possibilità di crescita all’espressione delle nuove soggettività che abbiamo coltivato in questi ultimi anni di lotta.
Rispetto al fatto che alcuni ci considerano vetero, massimalisti, e tutte le cose belle che dicono di noi: è un segno dei tempi che attraversiamo. Nel senso che a chi considera estremista la richiesta che i lavoratori possano votare sui contratti che parlano della loro condizione, del loro orario, del loro salario rispondo che me questo pare banalmente un diritto democratico. Prendo atto che per alcuni esprimere un diritto democratico significa essere massimalisti. Anche questo è un segno dei tempi.

Poco fa individuavi l’ autoconservazione e la burocrazia come ostacoli ad un auspicato rinnovamento del gruppo dirigente della Fiom. Nella tua relazione al Congresso declini come caratteristiche indispensabili per fare il sindacalista il senso di militanza e la passione.
Quanto le vostre scelte degli ultimi anni hanno inciso sui meccanismi burocratici della Fiom, immettendo un po’ di quella passione che era andata scemando?

Credo che gli ultimi due anni, quando la posta in gioco era fare fuori i meccanici e la Fiom, abbiano in qualche modo costretto tutta l’organizzazione, non solo una sua parte, a fare i conti con la logica dei rapporti di forza. E, quindi, con la necessità di costruire la nostra verifica nel rapporto diretto con i lavoratori.
Questo è stato l’elemento che ha maggiormente messo in crisi la burocrazia tradizionale, quella che considera il ruolo di dirigente della Fiom come un mestiere qualunque.
Io continuo a pensare che quello del sindacalista non possa essere un lavoro qualsiasi ma una forma di militanza a tempo pieno, sorretta da forti motivazioni e passione nel rapporto con i lavoratori.
Altrimenti si possono verificare le sorprese di sindacalisti che, dall’oggi al domani, passano da un mestiere all’altro, dalla parte opposta. Rinnovamento per me vuol dire anche questo: aver ben chiaro cosa significa essere un sindacalista della Fiom.
La scelta di agire sempre in rapporto stretto con i lavoratori ha avuto ripercussioni positive anche rispetto al Congresso: 210.000 i lavoratori metalmeccanici hanno discusso e scelto con il voto tra le due tesi su cui ci siamo confrontati. Se penso a tutte le titubanze che c’e-rano nel fare il congresso! Il fatto che la partecipazione sia stata maggiore che nei precedenti appuntamenti dimostra la giustezza della nostra scelta.
Alla fine il passaggio più faticoso è stato quello di convincere l’insieme del gruppo dirigente che era necessario andare ad una discussione esplicita con i lavoratori.
Credo che oggi la giustezza di quella decisione sia diventata il sentire comune della grande maggioranza dell’organizzazione. Anche perché quelli che pensavano fosse un errore impegnare l’organizzazione semplicemente a fare le assemblee congressuali mentre c’erano le lotte sono stati smentiti dai fatti.
E’ successo l’opposto di quanto alcuni temevano: in realtà il congresso ha incrociato vicende come quelle di Terni, di Melfi, della Fincantieri e la nostra discussione ha tratto linfa dal rapporto con quelle lotte.

Radicalità e durata delle lotte: mi viene da pensare che il rapporto di fiducia tra sindacato e lavoratori non sia un elemento irrilevante.
Mi spiego. Ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali, mobilità, licenziamenti sono all’ordine del giorno in quasi tutti i settori.
E allora come mai le resistenze più determinate, gli scioperi e le mobilitazioni che si protraggono per giorni avvengono solo nel settore metalmeccanico?
Cosa c’è di diverso?

Parlo solo dei meccanici. I meccanici sono fatti così. Non sono un problema facilmente risolvibile per nessuno.

Cioè tu sostieni che i metalmeccanici hanno una sorta di dna particolare….?

No, ma parlo solo dei metalmeccanici.
E’ vero, la Fiom ha appoggiato le mobilitazioni dei lavoratori, ma guarda che l’elemento fondamentale di queste lotte è l’emergere di un pesante disagio sociale: Terni o in Melfi sono diventate un simbolo proprio perché hanno incrociato un malessere diffuso.
Questo ha prodotto risvolti inaspettati, come dimostra la vicenda della Polti Sud di Cosenza ad esempio. In una realtà dove il sindacato era debolissimo, dove abbiamo sempre avuto difficoltà ad organizzare le mobilitazioni, 200 lavoratori hanno scioperato per 15 giorni consecutivi contro la decisione dell’azienda di licenziare un delegato sindacale e due iscritti alla Fiom che si battevano per condizioni di lavoro più umane.
Hanno bloccato lo stabilimento giorno e notte ed alla fine hanno ottenuto il ritiro dei licenziamenti.
Come vedi, c’è un elemento di disagio diffuso e, comunque, lotte di questo genere le possono deciderle solo i lavoratori, non le può decidere la Fiom.

Le lotte dei lavoratori, quando non sono eclatanti, vengono sistematicamente oscurate dai media.
Dipende da una vostra incapacità di comunicazione, oppure il non parlare dei lavoratori e della Fiom è una scelta dei mezzi di informazione?

Forse c’è anche la nostra incapacità, ma certo i mezzi di informazione hanno compiuto una scelta. Basta pensare alla vicenda relativa all’accordo separato sul contratto nazionale: attraverso i mezzi di informazione nessuno ha capito che la posizione della Fiom alla fine si riduceva alla richiesta che i lavoratori votassero sull’accordo. L’immagine che hanno dato è stata quella di un sindacato massimalista che non firmava mentre le altre organizzazioni, più ragionevoli e realistiche siglavano l’intesa.

E’ chiaro che c’è un utilizzo tutto politico dei mezzi di informazione.