Fiat: razionalità della proposta di nazionalizzazione

La crisi di Fiat auto, in poche settimane, è scivolata dalle prime pagine dei quotidiani in qualche box collocato all’interno delle sezioni economiche degli stessi. Eppure quasi nulla è cambiato rispetto all’ultimo autunno, quando fu squadernato dinnanzi a tutti il profondo stato di difficoltà in cui versava il monopolio privato dell’auto in Italia. Allora la si considerò come notizia esplosiva: i telegiornali si aprivano sulla crisi Fiat, i talk-show si moltiplicavano all’eccesso. Ma, a ben guardare, la notizia non c’era nemmeno allora, perché si era solo reso noto quanto già a precisa conoscenza degli osservatori più attenti che, da tempo, avevano rimarcato l’incredibile sequenza di errori – di prodotto e di processo, di approccio ai mercati, di strategia commerciale- inanellati dal vertice del Lingotto in un decennio1. A tal riguardo sono state scritte pagine molto interessanti anche su questa rivista2. In autunno la diagnosi fu spietata: la Fiat si ritraeva dal mercato liberalizzato che vuole innovazione continua. Fiat non era, non è, all’altezza del mercato liberalizzato. Chiara fu allora (anche) una seconda cosa: che a pagare non sarebbe stata la “famiglia”, e nemmeno quel top management ottuso al quale la stessa aveva consegnato, con le chiavi della fabbrica, anche i destini dell’auto3.Ma, e ancora una volta, a pagare sarebbero stati i soliti noti: i lavoratori, particolarmente quelli di Arese, di Termini Imerese, di Mirafiori e dell’indotto (1460 ditte nella sola Lombardia). Dall’autun-no nulla è cambiato, o quasi: resta la crisi, che è anche di immagine, le vendite restano declassate e Fiat non riesce nemmeno ad utilizzare appieno della “droga leggera” degli incentivi alla rottamazione, fornitagli tuttora dal Ministro Marzano, di cui invece sta beneficiando la concorrenza estera, a partire da Ci-troen. E resta l’accordo Fiat/Go-verno, con GM assisa al tavolo quale “convitato di pietra”, e con le organizzazioni sindacali lasciate fuori dall’uscio. Resta, pertanto, la crisi di Fiat-Auto in tutta la sua ampiezza, e si aggrava la crisi nella crisi: quella, assolutamente inaffrontata, di un modello di mobilità su gomma progredita ben oltre il limite estremo di sostenibilità, in termini di inquinamento e traffico. Di questa seconda crisi, la peggiore, nessuno parla. Affrontare la prima era l’occasione per risolvere la seconda. Nulla è cambiato. O quasi: perché sono apparsi, nel frattempo, tre elementi di relativa novità (dentro la crisi stessa).
1. E’ cambiato il consiglio d’Ammi-nistrazione del gruppo e l’esposizione a Presidente direttamente di Umberto Agnelli, al posto di Paolo Fresco, non solo fa capire che il timone è ritornato saldamente in pugno alla “famiglia”, ma che la “famiglia” ha cambiato, con il timoniere, anche la rotta in quanto, con Umberto (e Morchio), si abbandonano quelle diffidenze con cui il carismatico fratello Gianni aveva sempre guardato alla diversificazione del core business Fiat, spinta sino all’abbandono della missione originaria: fare automobili.
2. Appaiono poi le prime operazioni con cui il nuovo vertice si prova a rendere l’auto appetibile per il cliente americano, in modo che GM eserciti l’anno prossimo il diritto d’opzione per l’acquisto del residuo 80%. Affinché GM lo possa esercitare, è necessario che “la casa non sia gravata da ipoteca” e, quindi, va ridotto drasticamente il debito contratto con le banche. Sintesi: Fiat deve mettere all’asta altre società del gruppo. E, quindi, in offerta speciale – dopo Marelli, Teksid, Comau e prima di Alfa, Ferrari e, forse, del Corriere della Sera – sono esposti sul bancone: Toro Assicurazioni, già aggiudicata a De Agostini (che c’entrano poi i libri con le assicurazioni nessuno lo sa) e Fiat Avio, destinata al fondo americano CARLYLE. Appare perciò del tutto fondato l’apparente paradosso secondo cui Fiat, per vendere l’auto, deve pagare. Un capolavoro: un caso di studio per le Università di mezzo mondo.
3. Sono infine, così almeno pare, depotenziati gli assalti al capezzale dell’auto, portati da Colaninno, reduce dall’aver fracassato Telecom, e da altre cordate di scalatori, reali come quella di Emilio Gnutti o presunte. Ripetiamolo, in campo restano, perciò e solo: la crisi Fiat, l’accordo con GM, i licenziamenti.

La via italiana dell’auto porta diritta da Torino a Detroit

E resta, con la crisi, la solita domanda: c’è un’alternativa alla svendita di Fiat auto agli americani di GM? O, detto forse meglio, era possibile fare diversamente per salvare l’industria italiana dell’auto investendo però su “ un’altra auto” (intesa come nuovo sistema di mobilità) e, insieme, dare prospettiva ai lavoratori del settore e dell’indotto? Certo, rispondo, c’era e c’è un’alternativa, c’era e c’è un altro progetto. Quale?
Davanti al fallimento di Fiat auto – che, si badi, non va visto solo come la chiusura di Arese, Termini Imerese, Mirafiori e delle cento e cento piccole e medie industrie dell’indotto che non fanno notizia, ma si traduce anche nella trasformazione dei restanti siti italiani Fiat in “stabilimenti-cacciavite”, di solo montaggio nel lavoro e “melfizzati” nei diritti4 – la via d’uscita alternativa da imboccare era un’altra, modernissima, sensata, europea se proprio vogliamo: programmare il cambiamento, investire in innovazione, governare i processi, presidiarli con la “mano pubblica”. Si era chiamato questo processo, forse con una terminologia datata e un po’ spigolosa, ma efficace se non altro per fare colpo, “nazionalizzazione della Fiat”. Al colpo, quando fu battuto, qualcuno aveva storto il naso. Non lo avevano fatto però né i lavoratori, né la FIOM che, vivendo nei processi reali, avevano considerato la nazionalizzazione per quello che era: l’unica proposta saggia da mettere in campo. Solo per chi aveva storto il naso, magari esclamando inorridito “ecco il vetero-statalismo che ritorna!”, ricordiamo il risaputo, ossia che: la Fiat è, di fatto, una grande azienda dello Stato, solo che lo Stato le ha sempre dato i quattrini, e tanti, per funzionare ma non ha mai controllato né gli obiettivi, né la gestione. Ancor più concretamente: nel dopoguerra, la Fiat è già stata comperata ben tre volte da questo Stato. E gli 11.000 miliardi passati negli ultimi 10 anni dallo Stato per gli investimenti sono stati traslati (tutti) in dividendi, come ci spiega Giavazzi5. Fosse un “comodato”sarebbe bene che la proprietà reale, lo Stato, ne imponesse la restituzione alla proprietà fittizia, gli Agnelli, che ne ha tratto vantaggio per decenni e, ora, vende e se ne va. Fosse un’officinetta, dovrebbe portare i libri in tribunale. Si sappia ancora e infine che la Fiat non sta vendendo “del suo”, e uno Stato serio dovrebbe almeno impedirlo. Che fa invece questo Stato? Consegna addirittura a Fiat la “buonuscita” con i decreti Marzano di incentivo alla rottamazione. Una cialtroneria da cortigiani!
Che si fa di converso in Europa? In Europa, e particolarmente in Francia e Germania, i settori non maturi (e l’auto, se innovata, non lo è) rispondono tutti al controllo pubblico. Verifichiamolo appunto sull’auto e sull’energia, settore strategico questo. La tedesca Wolkswa-gen vede la presenza, nella proprietà, e con il 13,7%, del lander della Bassa Sassonia che, però, possedendo la golden-share, è assolutamente decisivo del determinare gli indirizzi aziendali. Sempre in Germania, ma nel settore energia, la RWE è un possente consorzio controllato da 33 aziende pubbliche dei servizi della Whestfalia, ed è un consorzio assai dinamico che si aggiudica committenze in tutto il mondo e, curiosità, compera a man bassa anche in Italia, facendo shopping in quella proprietà pubblica di cui Stato e Regioni si liberano, oltretutto vantandosene: “esce lo Stato, entra il mercato”. Questi sciagurati dicono il falso: “esce lo Stato italiano e subentra quello tedesco!”
Questa è la verità. E ancora, è pubblica l’auto Renault in Francia. E’ dello Stato il colosso EdF, energia, ancora in Francia, e EdF ha già una sua centrale elettrica a metano in Mirafiori e vuole allargarsi. Si potrebbe proseguire. Sintesi: chi regge oggi nel mercato liberalizzato sono,pur tra tante contraddizioni, le aziende della vasta gamma in cui si manifesta la presenza ed il controllo pubblico. E, oltretutto, non esiste alcun vincolo UE che vieti questa presenza pubblica ed imponga le privatizzazioni. Ci sono, è vero, “tetti di possesso” che la Francia nemmeno rispetta e l’Italia, all’opposto, ha sfondato con un approccio stolto e fondamentalista al mercato liberalizzato. Oggi la tenuta su questo mercato, anche per l’auto, in realtà, è data da una somma di fattori e da un denominatore. I fattori di tenuta sono: la massa critica (il piccolo può operare solo in nicchia o interstizio), la ricerca di partnership compatibili, la capacità di innovare e concorrere sulla qualità, la ricerca a monte, la formazione delle maestranze a valle, il saldo rapporto con le istituzioni per le infrastrutture. Il denominatore è dato dalla programmazione economica, generale e di settore, e dal controllo pubblico con partecipazione diretta nelle proprietà. I paesi che non rispondono né ai fattori di tenuta né al denominatore, sono esposti, come l’Italia, a un doppio rischio: il rischio di una “secessione economica”, secondo cui talune regioni del nostro Paese possono diventare (già al Nord vi assomigliano) i “lander deboli”, il Sud, di un’altra economia, quella che impugna il rubinetto della committenza; il rischio parallelo è quello di una perdita totale di autonomia economica che, non contrastata o peggio assecondata, spiega poi quei processi di sudditanza politica (e militare) dell’Italia, proprio quelli che abbiamo misurato anche nella guerra all’IRAQ. Questa è la cruda realtà. Per chiudere il cerchio tornando alla penetrazione di GM nel settore auto italiano (ma lo stesso si potrebbe dire per il credito e l’informatica): la presenza del capitale USA nella nostra economia è del tutto organica alla presenza militare USA nel nostro territorio, e viceversa. Nazionalizzare la Fiat è una delle strade oggi disponibili per riconquistare l’autonomia perduta. Sostenerla (la nazionalizzazione) ha un valore simbolico fortissimo. Strapparla, avrebbe ricadute concrete e positive sul lavoro.
Dall’episodio al processo. Contestualizziamo l’episodio in un processo. Quale?

Ritornare al futuro dell’economia mista

Non sempre l’Italia è stata nella condizione che abbiamo or ora descritta. L’Italia attraversò un periodo, non breve e molto interessante della sua storia, quando puntò sull’”economia mista”: Allora taluno si azzardò a sostenere si trattasse addirittura di una “terza via” tra la pianificazione sovietica e il capitalismo USA. In ogni caso era una via originale che, molto più concretamente, “si fondava sulla convinzione che mercato ed impresa privata non potevano garantire obiettivi di stabile, equilibrato e sostenuto sviluppo”6 e si inserì così un potente correttivo costituito da una rete di “grandi imprese pubbliche nei settori strategici dello sviluppo, sia per garantire lo sviluppo stesso che per evitare distorsioni o favoreggiamenti che potevano manifestarsi se tali settori fossero stati gestiti da aziende private”7.
Quella scelta, collocata a cavallo degli anni ‘60 e che resse per almeno un decennio, fu accompagnata da una politica economica attiva sul terreno della ricerca, del fisco, del lavoro.
Oggi, quando anche la vicenda Fiat racconta della crisi del modello liberista, quel modello del tempo, che ebbe in sé cento limiti, torna di attualità.
Torna di attualità, e andrebbe rivisitato, se l’Italia scegliesse di dotarsi di una sua politica economica, non subordinata pertanto a quella di paesi vicini come la Germania, né colonizzata da paesi lontani come gli USA. Un paese di soli servizi, logistica, commercio, turismo, moda e micro imprese. L’Italia, alla quale invece rivolgiamo lo sguardo, ricercava l’autonomia possibile. Era l’Italia dei Mattei, degli Olivetti, dei Vanoni e di una leva di manager che, su grandi esempi e su una grande idea (l’autonomia possibile), avevano scelto di lavorare per il “bene pubblico” piuttosto che per il tornaconto di un padrone. Ricchissime sono le riflessioni critiche su questo periodo che elaborò Antonio Pesenti in “Capitalismo monopolistico di Stato e impresa pubblica”8. Era quella l’Italia in cui l’Enel, nazionalizzata dal ’63, fece quel che i “baroni della luce”9 mai avrebbero fatto: il completamento dell’elettrificazione del Paese. Era l’Italia in cui l’ENI ebbe il coraggio di sfidare le “7 sorelle” sull’approvvigionamento dei combustibili (e Mattei pagò la scelta con la vita). Era l’Italia dell’Ansaldo che, in elettromeccanica pesante, si provava a fare sistema con i privati di Breda, Marelli e Tosi. L’Italia dell’Italsider delle PPSS che, in siderurgia, si componeva con Falck e, con il suo lamierino a basso costo ed alta qualità, consentì che Fiat producesse il fenomeno popolare della 600. L’Italia del CNEL di Felice Ippolito. E anche della Fiat che doveva confrontarsi con l’Alfa e competere sulla qualità. Ripeto, quell’Italia aveva cento limiti ma un gran pregio contenuto in una intuizione fondatissima: non si fidava del mercato. Sin qui il positivo di quel caso italiano, che fu caso di successo. Da qui però decolla il negativo, alla lunga devastante. Il negativo fu dato dalla interpretazione che, del modello, fornì nel tempo parte del personale politico dominante – della DC in particolare, che poi fu affiancata dal PSI – che caricarono il sistema misto di missioni largamente improprie: quale luogo di salvataggio di tutte le aziende private in difficoltà 10 che, via via, divenne anche luogo di clientela, di potere politico, sino a trasformarsi in cassaforte cui attingevano quei partiti (e altri). Vennero allora a cadere gli obiettivi ideali anche per quella leva di manager pubblici la cui selezione fu da allora filtrata attraverso criteri, non più di competenza, ma di fedeltà alle missioni improprie, o peggio, ai capi corrente di quei partiti che si erano impossessati del modello.
Sintesi: l’economia mista portò l’Italia ad assumere una collocazione industriale di eccellenza che, anzi, assunse lo spessore di vera e propria leadership europea particolarmente nel campo dell’auto (sì proprio dell’auto), dell’informatica, della ricerca energetica.. Ma la sua implosione – che avviene dopo decenni di incubazione e con responsabilità gravi di quei partiti e, gravissime, di quella impresa privata che, ottenendo la garanzia della committenza, trascurò l’innovazione per appunto due decenni, trovandosi in seguito impreparata dinanzi alla liberalizzazione dell’UE e, quindi, non adeguata per il mercato non più protetto – la sua implosione scagliò l’economia italiana verso la condizione attuale o ne creò i presupposti. Con le ricadute sociali che anche il caso Fiat, azienda che più di altre scelse di non innovare, rende evidenti. Che fare? Ripensiamo al modello. Ripartiamo dal positivo dello stesso e ragioniamo sul come garantirci che non ci siano, nel praticarlo, le degenerazioni del negativo. L’alternativa è la colonizzazione.

La mano pubblica, il quadro di comando, la programmazione e la regionalizzazione dell’economia mista

Rispetto ad allora è cambiato radicalmente il quadro: c’è l’Unione Europea (UE); il mercato si è liberalizzato, anche se con Tremonti appare la tentazione dei dazi; l’economia si è finanziarizzata, si è teso non a costruire valore aggiunto ma ad accaparrarsi dell’esistente (in Borsa e con le armi). Non c’è più la DC (conosco l’obiezione….). Sono esplose, l’abbiamo richiamato, proprio quelle distorsioni e quei favoreggiamenti che la prima fase di economia mista si provò a contenere. Ma non è ancora questo il limite più grande che grava sull’economia italiana. Quel che oggi manca vistosamente in Italia (e non in Francia e non in Germania) è il “quadro di comando di tutta l’economia”.
Il governo dell’economia che, per scelta, non è in questo Governo del Paese che risponde solo agli interessi dell’impresa: offrendo, al grande imprenditore che scappa dal mercato, riparo dentro le utilities pubbliche che si privatizzano solo per questo; offrendo al piccolo imprenditore, costretto ad arrangiarsi, non il credito, non prospettive produttive, ma l’illusione che i suoi successi siano legati alla precarizzazione più selvaggia del mercato del lavoro (con la Legge Delega 848 e 848 bis). Due i risultati, e si perde sui due fronti: primo fronte, al grande imprenditore che non compete (gli Agnelli) subentrerà un altro grande imprenditore che arriva da lontano e che (GM) riverserà lontano i profitti che, per almeno qualche anno, rastrellerà in Italia; al piccolo imprenditore, secondo fronte, che sceglie di sopravvivere arrangiandosi e schiacciando lavoro e diritti, subentrerà un altro piccolo imprenditore che gli sottrarrà la committenza perché proviene (il nuovo) da paesi in cui il lavoro costa venti volte meno e i diritti sono azzerati. Se questo è il limite, il punto diviene uno solo: va conquistato il governo dell’economia che abbia in sé quel “quadro (autorevole) di comando” che dia quelle risposte che oggi latitano. Risposte a domande come: cosa resta in Italia se anche l’auto se ne va? Su che settori chiave deve investire oggi il Paese? Quali le produzioni innovative che oggi possono reggere? Con che strumenti sostenerle, a partire dal fisco? Con chi saldare alleanze in Europa per reggere alla competizione di larga scala? Queste sono le domande che oggi restano senza risposte perché manca appunto il “quadro di comando”: che non può che essere pubblico. Non lo può dare, il quadro, la destra politica. Ci provi, almeno si cimenti, una sinistra saggia che si proponga di “spingere lo sguardo oltre l’immediato e a pensare forse non impossibile il superamento di quella sorta di fondamentalismo economico di cui oggi l’intera società è in ostaggio”11.Se si alza lo sguardo, almeno oltre il cauto riformismo emendativo in cui il centro sinistra si è imprigionato da sé, e se l’approccio all’economia è almeno Keynesiano, ebbene, concetti quali “economia mista” e “nazionalizzazione della Fiat” appaiono, oltrechè credibili, anche fattibili. E si possono anche tradurre in episodi sperimentali che, ancora non farebbero il disegno di economia mista e controllo pubblico, ma lo potrebbero annunciare. Se, ad esempio, ad Arese e senza la Fiat, decolla con l’intervento pubblico della Regione, un progetto di auto eco compatibile (oggi a metano, domani ad idrogeno) che richiami la ricerca e quell’industria manifatturiera che percepisce i nuovi spazi e non rincorre l’abbattimento fasullo dell’art. 18, e appare l’alleanza con partner forti interessati all’impresa e, quindi, si crea un polo di lavoro certo, non precario e di qualità, ecco rappresentato un piccolo episodio, ancora da conquistare nei fatti, ma che va nella direzione di una “piccola economia mista su base regionale”. Ad Arese l’accordo c’è già: va tradotto in fatti e può diventare, per davvero, un “manifesto della nuova auto”. E un episodio anche di regionalizzazione dell’economia mista. Quale il senso dell’episodio, che dovrebbe essere esteso alle Regioni che ospitano siti Fiat? Se la Fiat-Auto se ne va dall’Italia, resti l’auto ( e un’”altra auto”) senza la Fiat. Quale il messaggio che si vuole diffondere? Che questo è il momento di costruire episodi in periferia e costruire un “programma minimo” al centro.
Dall’auto oltre l’auto verso l’economia mista, con episodi periferici come: un distretto pubblico/privato dell’industria dell’abbigliamento ad esempio nella Provincia di Barletta; un progetto pubblico/privato sull’area dell’acciaieria di Trieste; un piano pubblico/privato per il porto di La Spezia o il porto ed il cantiere di Livorno. E cento altri. Costelliamo il paese di episodi. Rovesciamo nel positivo di questa economia il negativo che è nella devolution; traduciamola in regionalizzazione dell’economia costruendo anche distretti leader12. Ma il tutto deve rispondere a un piano, che può essere già abbozzato ora, e a un governo del piano che dobbiamo conquistare. E’ la critica al modello di sviluppo: come insegnano i movimenti anche dal FSE. Ma poi, per una sinistra – antagonista, neo-riformista, moderata che sia – c’è un’alternativa? Se è sinistra non c’è che questa. Assumiamo per l’ultima volta il caso Fiat: perché è in arrivo GM, che considera gli stabilimenti Fiat solo quale discarica delle proprie eccedenze e con i lavoratori restanti visti come manovalanza “usa e getta”. E Mirafiori che sarà sede di incenerimento rifiuti e forse polo logistico. Situazione, quella di Fiat, grave in sé e metafora di una situazione economica in cui ci ha condotti non certo l’economia mista, non certo il sistema pubblico, ma la loro assenza. E ci ha condotti la presenza di un Governo subalterno e da cacciare al più presto e di un padronato in fuga. Avanti allora un altro modello sospinto da un’altra sinistra.

Note

1 Gli errori del Lingotto così come la selezione dei suoi gruppi dirigenti, che li hanno gestiti,sono stati analizzati con spietata lucidità da Mario Rosso- già capo del personale di Fiat componenti e, oggi, vicepresidente di Tiscali – in un lungo articolo apparso il 10 marzo di quest’anno sul Corriere della Sera.
2 Di particolare interesse sono gli articoli di Wladimiro Giacchè e di Maurizio Zipponi.

3 E’ una considerazione che svolge ancora Mario Rosso nel citato articolo.

4 Gli accordi separati, oggi, di Cassino e Mirafiori vanno in questa direzione e spiegano il perché, ieri, il sindacato sia stato escluso dal tavolo delle trattative Fiat/Governo.

5 Corriere della Sera del 14.10.2002

6 Francesco Indovina ”Economia meglio mista”, articolo apparso sul manifesto il 29 gennaio di quest’anno.
7 Id.

8 Fondamentale il citato scritto di Antonio Pesenti presentato quale relazione al Congresso del CESPE “Imprese pubbliche e programmazione economica” gennaio 1973, pubblicato allora nei Quaderni di Politica ed economia e ripresentato nell’84 nei Quaderni dell’editrice Aurora.

9 Così Ernesto Rossi chiamava i signori delle bollette, dalla Edison alla Sade.

10 A questa politica si oppose il PCI che, scrive Pesenti nella già citata relazione del ’73 “…non ha mai fatto un mito della statalizzazione, non ha accettato i ricatti dei vari salvataggi e anche ora non è del parere che lo Stato debba accogliere tutte le imprese che la cattiva gestione privata ha reso malate……e ha sempre attuato una politica di sostegno critico dell’impresa già in mano pubblica” in quanto, ora sintetizzo arbitrariamente, questa impresa è sottratta al dominio del capitale e forma uno staff di tecnici che, un domani, è disposto ad accettare un “nuovo Stato” diretto dalla classe operaia e dalle masse popolari sue alleate, Queste parole sono musica.

11 Carla Ravajoli, sempre sul manifesto del 29 gennaio, di quest’anno.

12 Bruno Trentin, sull’Unità del 2 gennaio 2003, così risponde ad una domanda in cui gli si chiede se è ancora importante, per l’Italia, avere un’industria: “ Io penso (dice Trentin) che uno degli impegni di un possibile futuro governo di centro sinistra sia la ricostruzione di un sistema industriale posto sul fronte delle nuove tecnologie anche attraverso processi di concentrazione industriale. Quindi un ruolo necessario della grande industria, anche attraverso una nuova vocazione dei distretti industriali delle piccole e medie imprese”. Sono d’accordo pur non ritenendomi di centro sinistra. Lo sarà ( d’accordo) il centro sinistra?