Il Sulcis-Iglesiente, per storia e cultura, è la regione della Sardegna con la più antica tradizione operaia. Essa trae origini dalla presenza dei bacini metalliferi e carboniferi: i primi, situati nell’area dell’iglesiente e compresi prevalentemente nei comuni di Buggerru, Fluminimaggiore ed Iglesias, hanno visto la chiusura degli ultimi pozzi minerari nel decennio appena trascorso, nonostante il sottosuolo sia ricco di minerali, in particolare piombo e zinco. La cessazione definitiva di questa attività mineraria non è stata indolore. Le popolazioni dell’intero territorio si sollevarono contro lo smantellamento degli ultimi pozzi e a sostegno dei minatori e dei loro familiari. Il nostro partito, seppur molto giovane, fu molto attivo in quella vicenda e non solo a livello locale. Avevamo superato da poco la difficile prova elettorale del marzo 1992 e l’allora Segretario Garavini ed il Presidente dei Senatori Libertini, non tardarono ad essere presenti nei momenti più difficili e disperati di quella vertenza, quando i minatori si asserragliarono nei pozzi per ben 75 giorni.
Purtroppo, nonostante la tenacia dei minatori, dei loro familiari e dell’intera cittadinanza di Iglesias, quella battaglia si perse. Delle miniere rimangono i caseggiati, i pozzi allagati dall’acqua, le enormi montagne di materiale di scarto delle lavorazioni ma soprattutto resta la delusione di quegli uomini che tanto avevano dato e tanto potevano ancora dare, non solo nel lavoro ma soprattutto nella vita. La maggior parte di loro oggi si trova in pensione, una pensione anticipata che è arrivata passando attraverso la mobilità lunga, disperdendo così un patrimonio umano e professionale di valore inestimabile. Con loro si è perso anche la cultura importante della solidarietà e della lotta per il riscatto sociale che affondava le sue radici nei tragici eccidi del settembre del 1904 di Buggerru e dell’undici maggio 1920 ad Iglesias, quando le guardie regie non esitarono a sparare contro i minatori in sciopero per il pane e per una migliore condizione di lavoro.
Alla chiusura delle miniere metallifere doveva seguire un intervento compensativo di nuovo sviluppo e sul piano occupazionale attraverso l’insediamento nella zona industriale di Iglesias di un numero considerevole di piccole e medie attività industriali, finanziate, ovviamente, da un’apposita legge dello Stato. Molte delle attività previste non sono mai decollate, altre hanno trovato enormi difficoltà per insediarsi, altre ancore, pur avendo ottenuto i finanziamenti, sono finite in mano ad imprenditori “spregiudicati”. Il risultato è che oggi l’azienda più importante della zona è la ASL; Iglesias (29.000 abitanti) è una cittadina che vive di servizi ed il quotidiano La Nuova Sardegna di martedì 5 settembre u.s., titolava nella pagina della cronaca di Iglesias che nello scorso anno sono stati ben quattrocento i giovani che hanno lasciato la città per recarsi nel nord Italia in cerca di un lavoro.
Gli ex minatori del bacino metallifero si sono costituiti in associazione (AMI – Associazione Minatoti Iglesienti) il cui scopo è salvaguardare e favorire attività culturali, turistiche, ricreative e scientifiche concernenti appunto le attività minerarie, affinché ciò che resta dei complessi minerari possa essere utilizzato anche in chiave di archeologia industriale. Le vicende del bacino carbonifero traggono anch’esse la loro storia in un passato assai lontano. Le prime estrazioni, cosiddette “a cielo aperto”, del carbone, allora definito “lignite eocenica”, avvennero per un breve periodo nel 1854, in un vasto territorio dove i centri abitati erano pochissimi, Gonnesa e Portoscuso, pochi gli abitanti e le attività economiche che erano prevalentemente agro-pastorali.
Ci volle poco tempo perché questa nuova attività industriale forgiasse una nuova ed inedita classe proletaria, permettendo inoltre il sorgere di nuovi centri abitati. Già alla fine dell’Ottocento i minatori erano quasi settecento unità. Il loro incremento fu costante e legato alle nuove tecniche di estrazione. Infatti, nel 1915 si abbandonò definitivamente l’estrazione a cielo aperto per passare alla coltivazione del minerale dall’interno. L’impulso all’attività estrattiva avvenne con l’avvento della guerra; il combustibile, ricco di zolfo con una forte capacità calorifica, era di fatto uno dei migliori reperibili nel mercato. La qualità del carbone sulcitano favorì l’intervento del governo e quindi investimenti per una rapida espansione dell’attività estrattiva. Infatti, nonostante che dai primi del ‘900 il carbone fosse utilizzato nelle centrali termo-elettriche, la vera svolta avvenne nel 1935 con la costituzione dell’Azienda Carboni Italiani. La produzione superò 1.200.000 tonnellate annue (punta mai più raggiunta) ed i minatori nel 1939 erano oltre 15.000.
In quegli anni, per ospitare questa enorme quantità di manodopera, venne decisa la costruzione di una nuova città: Carbonia. La sua costruzione iniziò nel 1937 e già il 18 dicembre del 1938 Mussolini la tenne a battesimo. L’edificazione del nuovo centro abitato, seppur concepito con una urbanizzazione moderna, non ebbe influenza sulle pessime condizioni di lavoro dei suoi abitanti. Infatti, queste erano a dir poco disumane. Chi dal Continente, in quegli anni, visitò la città rilasciava in seguito testimonianze terribili. Giuseppe Saragat visitò Carbonia nel 1944 e scrisse di quel viaggio: Ciò che non ci saremo mai aspettati di trovare a Carbonia, e in genere in tutta la zona sarda delle miniere carbonifere e metallifere, è un proletariato che per le tragiche condizioni in cui versa, non ha nulla del proletariato moderno dei Paesi democratici, ma ricorda piuttosto gli schiavi delle piantagioni di caffè brasiliano o i servi della gleba dell’evo di mezzo europeo ….
A quei tempi le paghe giornaliere erano attorno alle 90/100 lire e il prezzo del pane al mercato nero veniva anche 70 lire al chilogrammo. Ma è proprio in quel periodo che si sviluppano le prime dure vertenze: la lotta contro le prepotenze e lo strapotere della direzione mineraria si rafforzò grazie all’intreccio con quella antifascista. Tant’è che nel febbraio del 1945, in risposta agli attentati fascisti contro i dirigenti socialisti e comunisti, venne proclamato con successo il primo sciopero generale dell’intero bacino minerale.
La storia da narrare è lunga, ma è certo che fu fortemente segnata da quelle battaglie; il Pci fu per anni, fino al suo scioglimento, il primo partito della città con percentuali che oggi definiremo bulgare. Ma è soprattutto grazie al partito e al forte sindacato, la Cgil, che rappresentava la maggioranza dei minatori, che fu possibile il riscatto di quelle gente; una miriade di uomini e donne giunta nel Sulcis dalle campagne sarde, venete, siciliane, toscane, etc., senza nessun bene materiale ma solo con la forza delle proprie braccia. In virtù di quelle lotte molti dei figli di quei minatori hanno potuto avere un’istruzione adeguata ed elevare la propria condizione sociale diventando ingegneri, professori, avvocati, etc. Quella generazione di pionieri del carbone è in parte ancora presente nonostante la silicosi che colpì quasi la totalità dei minatori. Delle miniere poco è rimasto, l’apertura di qualche pozzo si è alternata con la chiusura degli altri. La gestione delle miniere passò dall’Enel (tra il 1965 e il 1966), per effetto della nazionalizzazione delle fonti di energia, all’Eni nel 1978 attraverso il controllo della società Carbosulcis costituita nel 1976.
Oggi la Carbosulcis non fa più parte dell’Eni, gestisce provvisoriamente le miniere in attesa della definitiva privatizzazione che dovrebbe avvenire con la realizzazione di un impianto per la gassificazione del carbone il cui gas andrebbe a sua volta bruciato in una nuova centrale termoelettrica. Nelle gallerie di Seruci, a pochi chilometri da Carbonia e Portoscuso, alcune centinaia di minatori continuano ad estrarre carbone, che in grossa parte viene utilizzato dall’Enel.
Certo, le condizioni di lavoro non sono quelle di cinquant’anni fa, ma la sua durezza non è cambiata. Dopo le battaglie per difendere il posto di lavoro contro la definitiva chiusura, oggi un minatore percepisce un salario che si aggira attorno ad 1,5/1,7 milioni mensili; i turni di lavoro sono massacranti: cinque giornate dalle 7 alle 15, altre cinque dalle 15 alle 23 e di seguito altre cinque dalle 23 alle 7 del mattino per un totale di 40 ore settimanali.
Agli inizi degli anni ’70, nella fase ormai di declino del bacino carbonifero nell’area industriale di Portoscuso, denominata Portovesme, sorgeva il nuovo miraggio industriale con la costruzione di grandi fabbriche per la produzione di base di prodotti metalliferi: la Samim, piombo e zinco, l’Alsar per la produzione di alluminio che, per avere un ciclo produttivo completo, viene affiancata dall’Eurallumina che, trattando la bauxite produce l’ossido d’alluminio, componente essenziale nel processo elettrolitico. Tutte queste aziende avevano un controllo pubblico attraverso le partecipazioni statali; la Samim dell’Eni, le restanti dell’Efim.
L’Alsar, per le sue capacità produttive, circa 125 mila tonnellate annue di alluminio, diviene la più importante azienda del metallo dell’intero Paese e tra le prime in Europa. Nel 1985 viene completata anche la Nuova Samim: produce sempre piombo e zinco ma ha nuove e più efficienti tecnologie. Le aziende tutt’oggi esistono ed operano ma tutte sono state privatizzate. Le condizioni di lavoro, già difficili, sono sensibilmente peggiorate; l’Alsar oggi si chiama Alcoa Italia, un colosso multinazionale dell’alluminio di proprietà americana. Si produce la stessa quantità di alluminio degli anni passati, ma la manodopera è quasi dimezzata. I carichi di lavoro per addetto sono quasi raddoppiati; se un lavoratore si ammala tre giorni nell’arco dell’anno viene cortesemente richiamato con una lettera dalla direzione. L’agibilità politica interna allo stabilimento è uguale a zero; Cgil, Cisl e Uil applicano in maniera forsennata la politica della concertazione con le direzioni aziendali: queste ultime prima assumono provvedimenti unilaterali, perfino la messa in Cig dei lavoratori, poi concertano con il sindacato. Questo modo di agire ha gettato nell’inerzia e quasi nella rassegnazione quei lavoratori che fino alla metà degli anni ottanta erano un soggetto sociale in grado di condizionare le controparti ed aggregare anche fuori dalla fabbrica vasti settori di popolazione.
I benefici di questa avventura industriale sono pochi: le industrie a valle delle prime lavorazioni non sono mai sorte; la trasformazione del metallo in manufatto avviene fuori dalla Sardegna; è dal 1986 che i sindacati non riescono a mettere in campo una piattaforma di sviluppo per il territorio ed inseguono proposte parziali e non definitive, quali contratti d’area o i patti territoriali. Mancano di un progetto forte di ammodernamento e di potenziamento delle infrastrutture: costi energetici elevati e strutture per i trasporti insufficienti e arretrati sono un handicap per creare le precondizioni per lo sviluppo e l’insediamento di una nuova e più sana impresa. Inoltre l’intera zona, dagli inizi degli anni ’90, è stata dichiarata dal governo zona ad alto rischio ambientale.
L’area interessata è vasta e comprende tutti i comuni dell’interland, comprese località lontane anche venti chilometri dall’agglomerato industriale. Le discariche, le montagne di rifiuti e i gas tossici delle fabbriche la fanno da padroni in un territorio ormai compromesso.
Le risorse stanziate per la bonifica ed il ripristino ambientale sono ferme mentre le aziende continuano nella loro opera utilizzando anche il ricatto dal punto di vista occupazionale.
Le centinaia di lavoratori che negli anni ’80 hanno realizzato gli impianti della Nuova Samim o del terzo gruppo della centrale Enel di Portovesme, dopo anni di cassa integrazione straordinaria, si trovano oggi a svolgere, per 850.000 al mese, lavori socialmente utili presso i comuni del Sulcis, senza un concreto sostegno da parte del sindacato. Sono carpentieri, saldatori, tubisti, elettricisti, etc., che si sono dovuti riciclare in giardinieri, imbianchini e quant’altro gli viene ordinato di fare.
Dopo l’approvazione del decreto legislativo numero 81 del febbraio di quest’anno, il loro futuro è quanto mai incerto e la possibilità di ritrovarsi sulla strada rischia di concretizzarsi.
Queste note sono solo uno spaccato sintetico della realtà lavorativa del Sulcis. Sarebbe interessante indagare le condizioni dei lavoratori nei servizi oppure nel commercio, comprendere i motivi del basso tasso di sindacalizzazione, conoscere la reale entità dei loro salari, quante sono le ore lavorative e di quali diritti usufruiscono. Ma anche le risposte a queste domande forse stanno nella caduta politica e culturale del sindacato, nella sua istituzionalizzazione e perdita di qualsiasi connotazione di classe che in questo territorio era chiara ai padroni così come ai governanti.