Nei primi anni ‘70 è giunta a termine l’onda lunga del ciclo espansivo costruito sulle rovine della seconda guerra mondiale. L’accumulazione capitalista dei paesi industrializzati ha trovato sempre più difficoltà a procedere nelle condizioni date dalla concorrenza, dai mercati, dalla conflittualità operaia e sociale, dai vincoli politici interni e internazionali. Si è avuta insomma una classica crisi generale di sovrapproduzione di capitale. La sconfitta dell’Urss, l’arretramento dei paesi del terzo mondo, la finanziarizzazione dell’economia e il salto di paradigma produttivo, lo smantellamento dello stato sociale, le trasformazioni istituzionali e della forma stato, dipendono tutti, in maniera più o meno intrecciata, dai processi di adeguamento del capitalismo internazionale e dall’offensiva scatenata dall’imperialismo Usa per ripristinare condizioni strategiche più favorevoli al profitto e definiscono complessivamente l’entità di una sconfitta epocale del movimento operaio e del comunismo.
I processi di crisi/ristrutturazione sul piano mondiale e interno sono sempre in atto generando esiti devastanti, causati dalle trasformazioni tecnologiche e dei rapporti di produzione ma resi possibili da concreti rapporti di forza sociali e politici. Sul piano politico i vari spezzoni di borghesia dominante hanno bisogno di piegare i pubblici poteri alle loro esigenze di accumulazione e di garantirsi stabilità, continuità e rapidità nelle decisioni, per questo devono porsi al riparo dalle tensioni sociali marginalizzando nelle istituzioni la rappresentanza politica del proletariato. Sul piano sociale le contraddizioni del capitalismo suscitano conflitti e movimenti che riescono a operare una critica materiale dell’egemonia liberista su alcuni terreni fondamentali; però, per quanto antagonisti e radicali, non si pongono in genere il problema della trasformazione e restano interni alle dinamiche della società capitalista. Siamo dunque in una fase resistenziale, in cui è prioritario difendere l’agibilità politica e le conquiste sociali realizzate nel periodo precedente, sapendo tuttavia che non si può mantenere a lungo il frutto di un compromesso legato a condizioni storiche superate: alla resistenza va relazionato il progetto.
Dalla resistenza al progetto
Questo poggia certamente su proposte di programma, come la riduzione d’orario a parità di salario, che servono a insinuare esiti diversi nei processi in atto evidenziando le contraddizioni del liberismo, ma complessivamente consiste nell’individuazione di un percorso attraverso il quale ribaltare i rapporti di forza e puntare a un’alternativa complessiva alla situazione attuale, definendone non solo i contenuti generali e le tappe, ma soprattutto attraverso quali alleanze sociali e politiche essa possa divenire egemone e realizzarsi. Teorizzando invece una nostra subalternità alla pratica spontanea del conflitto, espungendo il problema della coscienza e della trasformazione e quindi rimuovendo la questione della lotta teorica, dell’autonomia politica-organizzativa, dell’egemonia, della conquista delle istituzioni, paradossalmente disegneremmo quale scenario-obiettivo dei nostri sforzi esattamente quell’americanizzazione che tanto aborriamo.
Il partito deve operare a livello di elaborazione teorica e proposta politica la ricomposizione di quelle istanze che la trasformazione sociale ha disgregato o addirittura contrapposto, in modo da riconnettere sempre la lotta parziale alla battaglia generale, il presente al futuro, i movimenti di lotta alla conquista di spazi di potere dentro le istituzioni alla più generale battaglia di trasformazione sociale. Esso deve quindi essere dentro le situazioni di massa, ben visibile per programma e progetto, in grado di esercitare attraverso i propri quadri egemonia e direzione politica nel senso di dare una prospettiva alla lotta, guadagnando al punto di vista proletario lo spazio politico di rappresentazione che la borghesia tende a negargli. Laddove, lo dico ora anche per il seguito, quando parlo di spazi istituzionali non intendo necessariamente il governo di esse ma quanto meno l’efficacia e la visibilità della presenza di un’opposizione anticapitalista. Il ruolo della politica infatti non si è esaurito, la chiusura degli spazi riformisti significa che esiste un vincolo a un ipotetico circuito virtuoso e illimitato di crescita tra conquiste sociali e politiche nel quadro della democrazia progressiva, ma niente affatto che è finita la possibilità per le istituzioni di gestire ingenti risorse e di giocare un ruolo determinante nei processi sociali.
Lo Stato insomma non si è estinto nonostante i suoi molti becchini. La concentrazione e centralizzazione dei capitali ha determinato la necessità di aree economiche integrate e organismi sopranazionali di programmazione e governo dei meccanismi produttivi, finanziari e commerciali. Questo non abolisce le contraddizioni tra aree economiche, settori produttivi e imprese, né tra gli stati, in quanto tutti i capitali hanno un polo nazionale ben riconoscibile. Questi organismi cercano di assumere una razionalità capitalista superiore agli interessi particolari che li compongono sublimandoli nella apparente neutralità del tecnicismo economico, ma in realtà dietro la pretesa d’incarnare l’interesse generale essi sono, sia pure in maniera non lineare, espressioni dei rapporti di forza sottostanti e in particolare di quelli tra gli stati che ne fanno parte, a loro volta attraversati da contraddizioni e mediazioni di diverso genere. Per cui se è corretto operare per una politicizzazione di questi organismi che li sottragga alla mistica del libero mercato per sottoporli al giudizio e al controllo democratico, per incidere compiutamente sul loro operato, anche solo nel senso di boicottarli, è necessario farlo attraverso gli stati e non a prescindere da essi. Pertanto lo slittamento di funzioni statali verso l’alto mentre determina un nuovo livello al quale rapportare l’analisi, l’intervento, la mobilitazione, consegna alla politica nazionale anche il compito d’incidere in maniera più diretta e immediata sugli equilibri di livello superiore. Al tempo stesso lo Stato conosce un’altra marcata linea di ridislocazione di poteri verso il basso, in senso federalista e autonomista. Questo movimento non dipende solo dai mutamenti dell’organizzazione economica e produttiva, per cui la dimensione dello stato nazione non sarebbe più ideale, ma è quasi un contrappeso allo slittamento verso l’alto dei poteri reali, un nuovo modello d’integrazione sociale e costruzione del consenso. Esso consiste in una diversa articolazione delle funzioni proprie dello stato e non in una loro scomparsa: qualcuno pensa che gli Usa o la Germania non esprimano un potere statuale per il fatto di avere una organizzazione federale? Il potere istituzionale si è distribuito su diversi livelli, una sorta di continuum con salti e rotture che va dagli enti locali minori, alle regioni, agli stati nazionali sino alle associazioni sopranazionali come l’Unione Europea, intorno ai quali si possono formare nuovi blocchi neo-corporativi o neo-clientelari, oppure si può riannodare la pressione degli interessi sociali e delle culture che si organizzano contro i processi capitalistici in atto, portando lo scontro dal livello delle rivendicazioni disperse e frammentate nei mille conflitti sociali al livello dello scontro per il potere.
Per l’egemonia della classe operaia
Non possiamo dunque affidarci a una immaginaria trasformazione molecolare del mondo che traghetti i soggetti antagonisti verso un altrove dal capitalismo che non esiste, ma dobbiamo lavorare per costruire l’egemonia della classe operaia sulla società, tenendo conto di tutte le trasformazioni che l’una e l’altra hanno subito, sfruttando le contraddizioni dello sviluppo capitalistico per tessere le necessarie alleanze sociali, politiche e culturali sino a costituire una forza maggioritaria. Il partito per questo è necessario ma non sufficiente, perché non dispone della massa critica indispensabile per dare uno sbocco istituzionale alle tensioni sociali né per fare da elemento egemone di un processo di riaggregazione di un’area politica più vasta. Esso incontra in questo limiti quasi oggettivi dati dall’esistenza di una sinistra che è plurale perché composta da diverse culture e gruppi sociali che si dislocano su piani diversi della resistenza e dell’offensiva, sia nelle istituzioni che nel sociale e non si possono ridurre a uno. Per quanto insomma un processo di crescita del nostro insediamento sociale e del nostro peso elettorale sia ovviamente un risultato auspicabile da perseguire, è difficile ipotizzare nel breve-medio periodo sconvolgimenti strutturali e duraturi degli equilibri politici a nostro favore. Inoltre il partito deve fare i conti con i propri deficit di analisi, strategia, competenze, attività e interlocuzione so cia le, che impattano una realtà in cui solo fasce ristrette sono disponibili all’impegno politico militante.
Peraltro in settori a noi contigui si sono messi in movimento processi che non possono lasciarci indifferenti, ma rispetto ai quali dobbiamo avere la capacità di fare da sponda per valorizzare energie preziose e al tempo stesso arricchirci. Il quadro politico successivo ai referendum, alle regionali, alla caduta del governo D’Alema sino al controribaltone siciliano mostra con chiarezza il fallimento della strategia egemonica Ds. La linea di tendenza più plausibile è uno scenario multipolare governato dall’alleanza tra polo delle libertà ed ex democratico-craxiani, in cui il risorgere di un centro autonomo dovrebbe favorire processi di ricomposizione di un’opposizione di sinistra. Però i tempi di costruzione di un polo di sinistra sono lunghi e l’esito incerto perché la deriva moderata della sinistra di governo riflette processi profondi di deriva sociale e culturale difficilmente recuperabili a un discorso unitario anche solo in chiave difensiva. Se l’obiettivo è costruire una massa critica che vada oltre rifondazione per allargare le divaricazioni interne ai Ds non credo che operare forzature organizzative diluendoci in una sinistra di alternativa tanto composita quanto indefinita serva allo scopo. La diversità di peso e natura dei soggetti potenzialmente interessati è tale che non è possibile parlare realisticamente di una federazione che necessariamente metterebbe in crisi le varie identità costitutive sino a depotenziarle.
Autonomia comunista, delle forze anticapitaliste e soggetto terzo
Nelle condizioni date sarebbe più produttivo un soggetto terzo che funga da contenitore elastico per quanti si riconoscono su alcuni minimi denominatori comuni e siano disponibili a ragionare insieme su tematiche e campagne da portare avanti congiuntamente, ma soprattutto ritengo che sarebbe da privilegiare la sperimentazione sul piano locale di aggregazioni orizzontali a “geometria variabile” quali associazioni, forum, consulte, comitati, giornali, ecc., un grande laboratorio diffuso che senza mettere in discussione ruolo, autonomia e caratteristiche di ogni singola forza, potrebbe consentire alla sinistra di superare gradualmente le proprie divaricazioni, imparare a lavorare insieme e costruire sinergie tra sociale e politica, stabilendo un nesso tra vertenzialità e progetto, tra lotta alle destre e qualità della democrazia, valorizzazione del territorio e tutela dell’occupazione, difesa dei servizi sociali e interlocuzione con le forze dell’associazionismo e del volontariato. Rispetto al governo degli enti locali infatti le divergenze si stemperano ed è possibile la costruzione di una sponda politica per la sinistra alternativa che porrebbe a quest’ultima il problema dell’agire politico e quindi della trasformazione, d’altro canto la pressione dei soggetti sociali costringerebbe la sinistra moderata, ma anche spezzoni del centro cattolico, a fare i conti con le proprie contraddizioni interne tra vertici e base, tra diversi interessi sociali, tra diverse culture. A questo livello si potrebbe quindi collegare la resistenza all’offensiva con un progetto graduale di traduzione della pressione sociale in trasformazione degli equilibri politici.
Gli enti locali, nella loro diversità tra regioni, province e comuni, grandi e piccoli centri, per aree territoriali e caratteristiche sociali e politiche, diversità che richiede un’analisi e un progetto articolato, sarebbero quindi da individuare come nodi strategici di contraddizioni capitaliste conquistabili a esiti di sinistra, reti di casematte su cui poggiare per sostenere l’attività del partito e dei movimenti sia nell’organizzazione delle lotte che nella conquista di livelli istituzionali superiori. La loro natura strategica deriva proprio dalle nuove funzioni cui sono chiamati, per cui su di essi infatti da un lato tendono a focalizzarsi il bisogno di potere e la richiesta di una vita dignitosa delle masse, dall’altro scontano gli effetti dello smantellamento dello stato sociale che taglia i fondi disponibili e impatta negativamente la qualità della vita reale. Possono essere connettore della comu nità ed elemento di resistenza contro alcuni dei processi capitalistici, terreno di confronto per il nostro partito con i soggetti so ciali sul piano delle proposte di mo delli di gestione e programma.
Se quanto detto sinora coglie qualche elemento di verità dovremmo forse rendere più flessibile e articolata la nostra visione istituzionale, cogliendo dialetticamente anche le potenzialità, oltre ai rischi, di un reale trasferimento di risorse e funzioni verso quei livelli più esposti alla pressione del territorio e che ci darebbero il massimo di agibilità politica nella costruzione di un legame tra lotta sociale e politica, tra resistenza e trasformazione. Sempre però avendo la capacità di collocare qualsiasi battaglia, ogni risultato, in un’ottica nazionale e internazionale nel collegamento tra i diversi livelli del conflitto.
Tutto questo richiederebbe a un partito come il nostro una forte capacità centrale di direzione politica e una distribuzione sul territorio di risorse e competenze sino a costruire un apparato leggero di militanti a tempo pieno, ossatura necessaria per dare continuità alla nostra azione e incardinare quel volontariato politico che registra un grande gap di conoscenze e relazioni rispetto ai rappresentanti istituzionali. Ma questa è un’altra storia…