La vittoria delle destre alle ultime elezioni nazionali conserva e consolida, mano a mano che ci si allontana dal 13 maggio 2001, i caratteri della lunga durata. Che quella vittoria abbia tali caratteri non significa che crisi interne al Polo delle Libertà e il costituirsi di una forte opposizione politica e sociale non possano, anche durante la legislatura, metterla in discussione; significa solamente che essa poggia su di una solida base materiale, che difficilmente, nel contesto dato e in tempi brevi, può essere incrinata.
Per quali motivi il successo delle destre sembra avere in sé i segni della lunga durata? Per motivi relativi sia alla debolezza dell’intera sinistra italiana, che per motivi relativi alle capacità proprie delle destre di organizzare attorno ad un progetto conservatore e reazionario un consenso di massa.
Per ciò che riguarda la prima questione, la debolezza della sinistra italiana, appare sempre più chiaro, mano a mano che ci si allontana temporalmente dalle esperienze di governo uliviste, il fallimento strategico del centro sinistra, subordinato alla “centralità dell’impresa” e al primato del profitto in campo nazionale e segnato dalla doppia genuflessione – alla Nato e all’imperialismo Usa, come alle politiche antisociali dell’Europa di Maastricht – in campo internazionale. Un fallimento strategico, quello del centro sinistra, che ha avuto un grande costo sociale, ed è stato pagato a caro prezzo dagli stessi Democratici di Sinistra, che hanno visto il loro rapporto col movimento operaio, con la base sociale e con l’elettorato erodersi profondamente, sino all’inquietante disfatta delle recenti elezioni amministrative siciliane.
Il “disincanto” del popolo di sinistra dopo le grandi speranze di cambiamento nate con la vittoria dell’Ulivo e di Rifondazione Comunista nel ’96; la passivizzazione di massa quale prodotto, in larga misura, dello stesso “tradimento” della sinistra moderata e della scelta concertativa del sindacato confederale; la costruzione, con il contributo essenziale della sinistra moderata, di un senso comune di massa subordinato all’egemonia culturale neoliberista dominante; le difficoltà e persino le incapacità di base dell’intera sinistra italiana – compresa Rifondazione Comunista – di lavorare per un progetto volto sia alla messa in campo di un’opposizione politica e sociale al governo Berlusconi che alla costruzione di un’alternativa sulla base di un programma con al centro la lotta contro la guerra e la difesa degli interessi di massa: tutti questi – in un quadro internazionale certo non favorevole alle forze progressiste e nel quale i rapporti di forza segnati dal dominio imperialista ostacolano fortemente un ritorno delle istanze socialdemocratiche classiche – sono gli elementi che, da sinistra, emergono e danno alla vittoria delle destre i caratteri di lunga durata.
Sul piano soggettivo le destre cercano un’organizzazione del consenso lungo quattro direttrici essenziali.
Primo, con un populismo scientemente cinico che tenta – sinora riuscendoci – di incrociare il senso comune di massa moderato, conservatore e reazionario attraverso l’agitazione di tutti gli spettri che da sempre abitano la parte più oscura della memoria italiana: dal nazionalismo becero e l’odio verso gli immigrati, al desiderio truce di un “ordine” sociale che non può non ricordare, nello spirito, nelle parole d’ordine, nei documenti, nella durezza antioperaia e antipopolare, a prescindere dall’utilizzo o meno del “santo manganello” – sfoderato comunque a Genova senza parsimonia – l’“ordine” politico teorizzato e imposto da un colonnello Magnaghi o da un Cesare Forti nella Lomellina del biennio ‘19-’20; dalla concezione di uno stato autoritario avente al vertice “un capo” (concezione che esclude un’articolazione statuale democratica e abolisce, ad esempio, l’autonomia della Magistratura) alla violenta messa in campo di un integralismo cattolico, che va dal tentativo di abolizione della legge sull’aborto alla denigrazione delle culture diverse da quelle cristiane e occidentali, definite culture di “popoli inferiori “.
Un tentativo generale di evocare e riorganizzare politicamente, sino all’egemonia, la pulsione reazionaria della parte più rozza del senso comune italiano, che per concretizzarsi cerca ogni strada, sino all’ultima proposta di Berlusconi di “riaprire le case chiuse”, proposta che sembra quasi partire “dal basso”, dal lavoro che nottetempo, impunemente, le squadracce leghiste e postfasciste di An fanno di “ripulitura delle vie”.
Su di un versante più prettamente politico ed economico è chiaro l’intento delle destre di costruire – attraverso il progetto di privatizzazione generale e di abbattimento dei residui diritti dei lavoratori – il “nuovo blocco generale dell’impresa”, attraverso il dispiegamento di una politica economica tendente ad esaltare gli interessi del piccolo, medio e grande capitale, una politica approvata e benedetta da Fazio e dalla Banca d’Italia.
Vi è poi un terzo versante, quello della politica internazionale, attraverso il quale le destre cercano un ulteriore terreno di organizzazione populistica del consenso.
In questo caso, il disegno del governo Berlusconi di inserirsi a proprio vantaggio nello sviluppo delle contraddizioni interimperialistiche tra Usa ed Unione europea è, quantomeno, segno di una grande e pericolosa lucidità. Non è questa la sede per sviluppare tale analisi, ma l’insieme delle posizione tenute dal governo italiano sulle politiche dell’Ue (Airbus, giustizia, Euro, ecc.) depongono a favore di un “euroscetticismo” delle destre volto, anche in questo caso, ad incrociare quel crescente malessere popolare verso le scelte del “lontano” governo dell’Unione europea.
Il fatto che l’“euroscetticismo” del governo Berlusconi riveli in verità la scelta di legarsi mani e piedi all’imperialismo Usa, non sembra in questa fase nuocere alle destre italiane: nella loro bilancia politica prevale ancora il peso maggiore del consenso ottenibile dalla non adesione esplicita alle politiche antipopolari del costituendo imperialismo europeo. Da questo punto di vista emblematico è il caso del ministro Ruggiero: la sua adesione entusiastica all’Euro non era certo in sintonia con un sentimento popolare preoccupato e fondamentalmente avverso all’Euro, un sentimento oggettivamente cavalcato dalle destre governative.
Vi è un quarto e decisivo strumento attraverso il quale le destre puntano ad una organizzazione del consenso politico: la costruzione del partito di massa.
È nota l’attenzione con la quale Alleanza Nazionale cura la struttura organizzativa del partito e il radicamento sul territorio.
Meno nota è la straordinaria evoluzione organizzativa del partito di Berlusconi, Forza Italia.
Occorrerebbe capire le ragioni profonde per le quali, mentre a sinistra si sono perseguiti nell’ultimo decennio modelli organizzativi “leggeri”, sradicati dal territorio, movimentisti e radical, a destra si è scelta la strada opposta, quella di organizzazioni “pesanti”, disciplinate, strutturate, e radicate. Per far avanzare l’analisi, cosa che non ci proponiamo in questa sede, occorrerebbe probabilmente spingersi sui terreni ideologici di fondo, cercando il nesso che, a destra, si è stabilito tra la ricerca di un nuovo pensiero forte, seppur reazionario, e l’organizzazione “pesante”; e cercando, quindi, il nesso che a sinistra si è stabilito tra “pensiero debole” (caratterizzato, tra l’altro, dalla coniugazione di massimalismo e riformismo subordinato) e organizzazione “leggera”.
Ed è proprio nella nuova esperienza organizzativa di Forza Italia il segno più chiaro dell’attenzione delle destre per la costruzione del partito come strumento centrale per l’egemonia.
Il partito “pesante” di Forza Italia
Il movimento fondato da Berlusconi si è trasformato in questi anni in un partito vero, pesante, radicato, ricco di funzionari severamente selezionati; una forza che abbandona, dopo la sconfitta del ’96, i suoi caratteri movimentisti originari e diviene un partito guidato con mano ferma da Claudio Scajola, uno che, da coordinatore nazionale di Forza Italia, ha fatto dell’organizzazione, della formazione quadri, della disciplina di partito e della trasformazione in prassi del disegno strategico, i perni dell’agire politico.
Il 30% ottenuto da FI non è stato dunque solo un prodotto massmediatico (chi crede ancora che il consenso ottenuto da Forza Italia sia stato ottenuto solo grazie agli amori di “Beautiful” o alle crociate di un Emilio Fede, prende un drammatico abbaglio, fa su sé stesso una pratica autoconsolatoria…).
La verità è che il partito esiste, organizza consensi su scala nazionale, si radica e tende ad essere presente in ogni città e in ogni campanile, mutuando la lezione organizzativa dei grandi partiti di massa europei – conservatori o di ispirazione socialista – che anche nelle ultime elezioni europee hanno ribadito la loro capacità di organizzare consensi sulla base di una forte struttura organizzativa; recuperando la capacità di ottenere consensi tipica di quei partiti di massa dei quali troppo presto la sinistra postmoderna ha celebrato i funerali.
Alcuni esempi della strategia organizzativa, da partito pesante (che coniuga la lezione storica dei grandi partiti di massa alla cultura ferrigna dell’impresa capitalistica) di Forza Italia: i fondi del partito vengono principalmente investiti nell’acquisto di sedi in tutta Italia e nell’assunzione di funzionari dislocati innanzitutto nelle periferie; il lavoro politico dei funzionari viene valutato ogni sei mesi e se i risultati non sono ritenuti all’altezza essi possono essere sollevati dall’incarico; viene introdotta una cultura della disciplina di partito volta a subordinare le problematiche del singolo quadro politico alle esigenze collettive e unitarie del partito (nella precedente legislatura diversi quadri si erano allontanati dal partito per poi pentirsene e cercare un ritorno all’ovile: pochissimi, tra questi, sono stati “riabilitati” e reinseriti nei gruppi dirigenti).
“Comunione e Liberazione”, che nella fase iniziale del “movimento” berlusconiano aveva assunto un peso nelle dinamiche interne a Forza Italia, è stata ridimensionata a vantaggio di una politica volta alla costruzione di un più vasto rapporto con l’intero movimento cattolico di massa; gli stessi “professori” (Vertone e gli altri), entrati per “fare immagine” e produttori di problemi interni, ora sembrano spariti, segno chiaro che le “parate”, ad un partito che cerca ormai scientemente rapporti di massa, non servono più, o meglio si può ricorrere ad esse solo quando il gioco vale la candela.
Di grande interesse, poi, è l’azione che i dirigenti locali di FI vanno dispiegando nelle parrocchie e negli oratori dei paesi e delle città, tessendo legami con le curie, offrendo sostegno economico alle iniziative parrocchiali e tentando, in sintesi, di intrecciare rapporti profondi con la diffusissima organizzazione cattolica di base. Come da valutare attentamente, quali tentativi di allargamento dell’egemonia in senso democristiano e come chiaro disegno di costruire un partito” popolare” e fuoriuscire dall’ originaria rozzezza politica, sono sia il tentativo di organizzarsi nel mondo del lavoro e in quello sindacale, che la politica culturale, cioè il disegno di allargare l’egemonia dal mondo dello spettacolo a quello editoriale e culturale, sino al tentativo di penetrazione, attraverso la già avvenuta conquista di molti “baroni”, nel mondo universitario e accademico.
A tutto ciò va aggiunta la politica che FI va tessendo nel Meridione, una politica “nera”, volta alla riassunzione dell’antica trama di potere democristiano (tra mafia e poteri oscuri) e capace di fortissima organizzazione di consenso di massa.
Se si leggono alcuni documenti organizzativi di FI, segnati dalla linea dell’ex coordinatore Scajola, ci si trova di fronte sia ad una riassunzione di una delle classiche concezione comuniste del partito ( il primato del partito sui gruppi istituzionali) che ad una quasi ossessiva ricerca dei metodi per il radicamento capillare sul territorio, strategia da tempo abbandonata da gran parte della sinistra italiana, molto più massmediatica, paradossalmente, del partito di Berlusconi (è ormai invalsa, a sinistra, la scelta di affidare a pochi leader massmediatici il compito di catalizzare consensi televisivi di massa, e ciò come compensazione dell’assenza del radicamento territoriale).
Nell’insieme, dunque, siamo di fronte al tentativo di costruire – mentre i DS sembrano organizzativamente liquefarsi e la sinistra complessiva sembra inseguire la destrutturazione partitica – una sorta di Democrazia Cristiana di destra e di massa, avente come cardini organizzativi sia il radicamento territoriale di scuola comunista che la “penetrazione sociale” degli oratòri cattolici. Un partito, il disegno di un partito, che mette paura, che su un terreno culturale e sociale particolarmente favorevole potrebbe mettere radici profonde, difficili da estirpare in tempi brevi.
È in questo contesto generale, segnato dalla pericolosa egemonia delle destre sul piano sociale e dalla disperante debolezza organizzativa e strategica delle sinistre, che si colloca la questione del ruolo politico e del conseguente rafforzamento organizzativo del Partito della Rifondazione Comunista.
Rifondazione: per la costruzione di un’organizzazione comunista
La fase assegna oggettivamente a Rifondazione Comunista un ruolo centrale e straordinario, con ogni probabilità superiore alla forza politica generale che il Prc può oggi mettere in campo, un ruolo che però, se si cogliesse nella sua essenza e se si trasformasse in prassi politica, diverrebbe – se intelligentemente praticato – il moltiplicatore stesso delle forze del Prc. Tale ruolo, che non appare oggi essere colto nella sua essenza dal partito e dunque non trasformato in prassi, sarebbe quello di cardine propositivo di una ricostruzione dell’opposizione politica e sociale al governo Berlusconi attraverso la sollecitazione costante all’insieme delle forze della sinistra e dei movimenti (sociali, politici, sindacali) volta alla definizione, su di un programma per gli interessi popolari e contro la guerra, sia ad una strategia di lotta a lungo termine che ad un progetto per l’alternativa politica.
La difficoltà oggettiva di cogliere immediatamente l’obiettivo, data la condizione politica della maggioranza della sinistra moderata, non dovrebbe scoraggiare il disegno complessivo, poiché nella stessa proposizione di tale disegno vi sono gli elementi, per Rifondazione Comunista, atti all’allargamento del consenso popolare, del consenso tra lo stesso “popolo di sinistra”, atti ad aprire ulteriormente le contraddizioni interne dei Ds e della Cgil, a fornire un referente ed uno sbocco politico ai movimenti di lotta che nascono in seno alla società, atti, infine, a consegnare al partito una linea unitaria da praticare in modo omogeneo, dalle istanze nazionali a quelle locali.
Certo è che il nuovo ruolo che la fase assegna a Rifondazione Comunista chiede, in prima istanza, una svolta decisiva verso il rafforzamento ed il radicamento del partito, delle sue strutture organizzative; chiede una cultura politica che da una parte disponga i quadri e i militanti a bandire ogni residuo settarismo e ad aprirsi alle molteplici relazioni politiche e sociali che la costruzione di un’organizzazione di massa richiede, e nel contempo esige il rilancio dell’autonomia organizzativa, politica, culturale e strategica dei comunisti.
Costruire il Partito Comunista
“Dell’importanza di questo lavoro – afferma la Tesi che vede tra i primi firmatari Grassi, Pegolo, Braccitorsi, Cappelloni e alternativa alla Tesi 56 del documento congressuale del Prc – parla con chiarezza tutta la storia di Rifondazione Comunista. Senza un partito organizzato su tutto il territorio nazionale, strutturato in comitati regionali, federazioni, circoli (che sono il baricentro vitale della nostra organizzazione) non saremmo riusciti a superare le prove durissime che ci siamo trovati di fronte in questi primi dieci anni di vita. Se le ripetute e rovinose scissioni, provocate dalla maggioranza dei gruppi parlamentari e da larghi settori del gruppo dirigente centrale, non ci hanno distrutto, ciò si deve soprattutto alla capacità di tenuta delle nostre organizzazioni di base, a cui va la riconoscenza di tutto il Partito.“
I segni più evidenti della crisi organizzativa del Partito della Rifondazione Comunista (una crisi che richiede sia d’essere indagata più scientemente di quanto si faccia, che una maggiore assunzione di responsabilità dei gruppi dirigenti nazionali) sono innanzitutto rintracciabili nella scarsissima presenza del partito nei luoghi di lavoro, nella debole presenza sul territorio, nella mancata crescita di una cultura organizzativa nei circoli, nel forte calo degli iscritti (una tendenza costante da quattro anni che ha giocoforza ristretto a 6/7 mila l’area totale dei militanti attivi in campo nazionale: un dato drammatico), in un turn-over degli iscritti che in questi anni ha visto passare e andarsene dal partito centinaia di migliaia di compagne e compagni e in una cultura e una coscienza politica media dei militanti e dei quadri non sufficiente e non all’altezza dei compiti.
Prima questione, dunque, l’organizzazione del partito nei luoghi di lavoro e di studio.
Il partito nei luoghi di lavoro
Non è superfluo ricordare che i partiti socialisti della II Internazionale non conoscevano teoricamente, e dunque non praticavano, l’istanza organizzativa nei luoghi di lavoro, e tale istanza – teorizzata e introdotta nel movimento operaio da Lenin e poi assunta come elemento organizzativo portante, in Italia, da Gramsci–avrebbe segnato ( sia nella fase della nascita dei partiti comunisti nel primo dopoguerra che per tutto il ‘900) una delle differenze essenziali tra un partito socialdemocratico
(privo di organizzazione nei luoghi del conflitto capitale/lavoro) ed un partito comunista (che fa di quel tipo di radicamento la prima istanza organizzativa, il proprio segno distintivo).
Come, d’altra parte, non appare superfluo ricordare il fatto che il PCI, dotato sino agli anni ’60 di una forte e capillare presenza organizzata nelle fabbriche e nei luoghi della produzione e dello studio, sembra avviare quel lungo processo di “socialdemocratizzazione” politica e culturale assieme alla lenta ma totale destrutturazione della propria organizzazione nelle fabbriche e nei luoghi del conflitto.
Da questo punto di vista (dal punto di vista cioè dell’innovazione e dell’autoriforma organizzativa), la necessaria rottura che il Prc doveva fare con l’ultimo Pci non è avvenuta, nel senso che il rilancio dell’istanza organizzativa comunista primaria (quella nei luoghi di lavoro, che il Pci aveva cancellato) non è stata né rielaborata, alla luce dei nuovi processi produttivi, né praticata.
Sarebbe invece di importanza centrale costruire il partito nei luoghi di lavoro e di studio, nelle fabbriche, negli uffici, nei cantieri, nelle scuole, nelle campagne. Sarebbe importante per molte questioni: avremmo punti di riferimento in quelle aree decisive per ogni fase delle lotte e delle iniziative politiche, particolari e generali
Se in una città c’è una lotta del partito su di una questione che riguarda la vita di tanti cittadini (un asilo nido da conquistare, lavoratori di un’azienda da difendere, un parco da aprire, un’area ambientale da proteggere dall’inquinamento, ecc.), quella lotta si può far conoscere, e si può costruire, anche attraverso un semplice volantino, in tutte le fabbriche, le scuole, gli uffici in cui il partito, coi suoi militanti nei luoghi di lavoro, è presente.
Se occorre sostenere un’iniziativa di lotta nazionale, sapremmo, con quelle presenze organizzate, come farla crescere all’esterno del partito, tra i lavoratori.
Nella guerra contro la Jugoslavia, nell’odierna guerra contro l’Afghanistan, abbiamo visto come è stato difficile coinvolgere i lavoratori nella lotta per la pace, come è stato profondamente difficile far penetrare le posizioni contro la guerra all’interno delle fabbriche. E occorre dire che proprio rispetto all’esigenza di far crescere il movimento per la pace si è sentita particolarmente l’assenza dell’organizzazione del Prc nei luoghi di lavoro. Come sarebbe stato più facile “penetrare”, se avessimo costruito in questi dieci anni una rete capillare di presenze organizzate!
Ma l’organizzazione nei luoghi di lavoro non serve solamente a far penetrare le ragioni dei comunisti tra i lavoratori. Serve anche a costruire quel rapporto di interscambio vitale tra partito e “classe”, senza il quale il partito rischia di isolarsi dai lavoratori.
Quante volte si è parlato in questi anni della necessità dell’ inchiesta nei luoghi di lavoro, e come è stato difficile farlo! Anche in questo caso, come sarebbe stato importante che il partito avesse avuto nei luoghi della produzione i propri militanti, come “occhi” capaci davvero di raccontare i nuovi processi produttivi, il ruolo del sindacato, lo stesso stato d’animo dei lavoratori, il loro livello di coscienza di classe…
Ma vi è un altro punto decisivo a favore dell’organizzazione nella base produttiva stessa: una presenza diffusa e capillare dei militanti comunisti nella produzione accrescerebbe di molto, in termini qualitativi, il livello del quadro dirigente complessivo del partito, che potrebbe promuovere al suo interno dirigenti operai temprati da un conflitto capitale/lavoro veramente vissuto, che potrebbe così avere una spina dorsale dirigente molto più contrassegnata dalla presenza operaia. Un’organizzazione nei luoghi di lavoro, insomma, anche come fucina di quadri dirigenti complessivi del partito comunista.
Il fatto che il Prc non sia stato capace di organizzare la propria presenza quantomeno nelle sei/settemila grandi aziende italiane e non sia stato in grado di costruire al proprio interno una diffusa cultura capace di interiorizzare la necessità politica e teorica dell’istanza organizzativa di base, rappresenta una delle note più negative della sua decennale esperienza.
Se noi diciamo che costruire il partito nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro non è facile, diciamo una verità. Ma ciò che dobbiamo consapevolmente aggiungere è che lo sforzo necessario per conseguire tale obiettivo, partendo innanzitutto dalla costruzione di una coscienza tra i militanti, non è stato fatto, o non è stato fatto sufficientemente.
Ciò che occorre è spostare energie decisive – politiche, culturali, organizzative, economiche – per invertire la tendenza e lavorare seriamente per il radicamento del partito in quei luoghi.
Da questo punto di vista importante appare la proposta contenuta nella Tesi alternativa (“Partire dalle fondamenta: potenziare il Partito”) alla Tesi 56 del documento congressuale di maggioranza. In tale proposta si afferma infatti: “Occorre perciò costituire un settore specifico, che abbia il compito di contribuire alla costruzione di nuclei organizzati nei luoghi di lavoro, rapportati ai circoli territoriali, e che sia per questo dotato di risorse umane e materiali rilevanti, adeguate alle priorità, così da favorire la crescita di quadri dirigenti espressione diretta del mondo del lavoro”.
Oltre ciò ogni Federazione provinciale del partito dovrebbe dotarsi di una commissione avente il compito di seguire il radicamento nei luoghi della produzione. Il primo compito sarebbe quello di delineare una mappa completa delle fabbriche, delle aziende, dei luoghi di lavoro della provincia, affidando poi ai circoli l’obiettivo di lavorare affinché in ognuna di queste aree si individuassero, o si facessero crescere, i referenti del partito.
È evidente che questo tipo di lavoro non potrebbe partire se i quadri e i militanti del partito non fossero coscienti e convinti , ad ogni livello dirigenziale, dell’estrema utilità di questa operazione politica.
Ed il convincimento e la presa di coscienza non possono essere dati per scontati, poiché sui militanti del nostro partiti gravano, rispetto alla cultura dell’organizzazione gramsciana e leninista, due fatti negativi: primo, il fatto che gran parte dei quadri provenienti dal Pci non hanno, rispetto a ciò, piena memoria storica (poiché il Pci aveva rinunciato da almeno vent’anni a dedicare la giusta attenzione all’organizzazione nella produzione); secondo, il fatto che l’assoluta maggioranza dei militanti che nel Prc ha fatto la loro prima esperienza politica non ha potuto, in questa stessa esperienza, dotarsi di una coscienza dell’organizzazione.
Dunque, in ogni Federazione la Commissione per il radicamento nei luoghi di lavoro dovrebbe innanzitutto aprire in tutti i circoli una discussione rispetto alla storia – con le sue implicazioni teoriche – della forme organizzative del movimento operaio, da quelle socialiste e socialdemocratiche a quelle di concezione comunista.
Ma ciò rinvia ad un altro punto decisivo: ad una politica di formazione quadri.
La politica di “formazione quadri”
Il “partito” che ha la più lunga storia politica – la Chiesa, con i suoi due millenni di vita – dedica alla “formazione quadri” un’attenzione ossessiva. Nelle scuole di teologia non si studia solo teologia morale, liturgia, o storia biblica. I futuri “quadri” della Chiesa sono sottoposti a studi severi della filosofia antica e moderna, compreso il marxismo ed il leninismo. Famose sono divenute, negli ultimi anni, le lezioni che nelle scuole di teologia hanno tenuto il cardinal Tettamanzi – Presidente della Conferenza episcopale italiana ed ora un “papabile – ed i suoi teologi : erano lezioni sull’esistenzialismo e sul marxismo (con una chiara preferenza , sul piano prettamente filosfico, per la concezione marxista della totalità, più vicina della cultura radical alla totalità cattolica) che pochi dei dirigenti e degli intellettuali comunisti attuali potrebbero tenere.
Nei corsi di teologia, va detto, i futuri “quadri” della Chiesa studiano anche, in corsi severi, la scienza generale dell’organizzazione, per applicarla poi nella pratica degli oratori e più in generale nell’organizzazione sociale del consenso attorno alle istanze cattoliche (e Forza Italia si insinua nell’esperienza).
Nel Partito della Rifondazione Comunista una politica seria di formazione quadri non è mai partita, e ciò è uno dei segni più emblematici della scarsa attenzione alla costruzione e allo sviluppo del partito.
In un partito come il Prc, infatti, in cui la cultura politica media è alquanto bassa possono determinarsi – e si determinano – due elementi fortemente negativi: primo, la scarsa efficienza e capacità politica generale del partito; secondo – e tale fenomeno è particolarmente grave – la scarsa coscienza media impedisce alla base militante, al “corpo” del partito, di essere protagonista consapevole, lasciando il partito stesso in mano alle aree ristrette di ceti colti, in un quadro di grave degenerazione democratica.
Su questioni di grande rilievo – tattico, strategico, teorico –, una base con bassa cultura politica e teorica corre il rischio di non partecipare oggettivamente alle scelte dirimenti del partito, lasciando ai gruppi dirigenti ristretti un ruolo decisionale assoluto.
Nel V Congresso del Prc che stiamo celebrando si corre, ad esempio, un tale rischio. Sulla difficile questione dell’imperialismo – difficile sul piano teorico e politico – la base di Rifondazione Comunista è chiamata a ratificare o respingere l’analisi avanzata dal documento congressuale di maggioranza, che definisce la nozione di imperialismo non più adeguata.
Ebbene, siamo tutti consapevoli che la nostra base e l’intero corpo del partito non è stato mai coinvolto in una discussione seria e profonda su tale questione; siamo tutti consapevoli che la stragrande maggioranza dei quadri e dei militanti non è stata messa nella condizione teorica di poter discutere e scegliere. Si profila dunque, attorno ad un tema centrale della stessa identità comunista, il rischio di una oggettiva e grave assenza del grosso del partito nella decisione finale, fenomeno che sarebbe particolarmente degenerativo sul piano democratico e non deporrebbe a favore della piena consapevolezza dell’eventuale ratifica della proposta del documento congressuale di maggioranza relativa alla “ inadeguatezza della nozione di imperialismo”.
La “formazione quadri”, dunque, è un segmento decisivo dell’intera politica di costruzione di un partito comunista. Una “formazione” che naturalmente in nessun modo deve somigliare al catechismo cattolico, ad una dogmatica “teologia” comunista, ma che punti, attraverso un metodo aperto e volto alla circolazione delle idee, alla attualizzazione dei grandi dibattiti e nodi teorici del movimento comunista complessivo, al dibattito sui grandi temi del presente, alla costruzione di una coscienza di classe e internazionalista dei nostri militanti.
La discussione, invece di essere – come accade – soffocata, va scientemente sollecitata ed organizzata dagli stessi gruppi dirigenti e tutti i compagni e le compagne vanno coinvolti: sulla ricca e diversa storia del movimento operaio e comunista, sui nodi teorici di fondo (socialismo realizzato, odierno sviluppo capitalistico, imperialismo, transizione, “classe”, partito…), sulle questioni internazionali come sulle questioni di cultura organizzativa e istituzionale .
E proprio quest’ultimo punto merita una riflessione: la battaglia istituzionale – nei comuni, nelle province, nelle regioni – è tanto importante quanto difficile. Su di un bilancio, su di un Piano regolatore, sulla politica sociale, tante sono le nozioni tecniche da imparare, tanta è l’esperienza politica da accumulare per sviluppare una lotta a favore dei ceti popolari. E, spesso, i quadri comunisti nelle istituzioni non sono all’altezza del compito. Anche qui, dunque, occorre che il partito organizzi seminari di studio mirati ( bilancio, piano regolatore, politica sociale…) e volti alla costruzione quadri. Un passaggio, questo della formazione dei comunisti nelle istituzioni, che avrebbe anche il merito di stabilire un vincolo maggiore tra partito ed eletti, come ulteriore via per ripristinare il necessario primato del partito sui gruppi istituzionali.
Nello sviluppare una politica generale di formazione quadri ciò che conta è che non vi siano censure ed “omissioni”, che non vi sia il primato del dogma. Ciò che conta è che sia sconfitta quella concezione, brutale e irriguardosa verso i militanti e troppo spesso praticata nel nostro partito, secondo la quale vi sono cose di cui non si può parlare e sulle quali non può essere aperta una discussione “perché il partito si dividerebbe”, “non reggerebbe”. Seppure ogni scelta abbia il suo lato difficile, nulla è tanto nefasto come la censura e l’emarginazione del corpo del partito dalla discussione e dalla ricerca.
Tra i motivi della varie scissioni di cui il nostro partito ha sofferto, ne spicca uno per importanza: il fatto che in dieci anni di vita non siamo stati capaci di sviluppare una ricerca politica e teorica in grado di portare a sintesi le varie tendenze culturali che attraversano sin dalla nascita Rifondazione Comunista. Questa grave deficienza si è offerta come base materiale per il permanere di aree cristallizzate all’interno del partito, come base oggettiva per la mancata unità di fondo.
È tempo che la questione si ponga, che attraverso un vasto dibattito ed una vasta ricerca – che non possono esaurirsi in una breve fase congressuale e che puntino al coinvolgimento pieno dell’intero corpo militante – il partito giunga a dotarsi di una identità comunista e di un progetto a livello dello scontro di classe e della fase politica quale unica base materiale per il superamento delle aree cristallizzate e per una unità interna non burocraticamente imposta ma sinceramente vissuta.
La centralità dei circoli territoriali
I circoli dovrebbero essere l’anima organizzativa del partito, il vero “braccio politico” per il radicamento sul territorio e nel sociale. Ma oggi molti circoli sono in crisi, palesando una grande fragilità, una scarsissima capacità di chiamare gli iscritti alla militanza ed un isolamento ed una estraneità dalla vita sociale che ruota attorno ai circoli stessi. Una crisi di molti circoli che trova drammatici segni, come già detto, nel forte calo delle tessere e in un elevatissimo turn-over delle iscrizioni.
Rispetto a questo grave fenomeno complessivo non appare vi sia la giusta attenzione da parte dei gruppi dirigenti nazionali; nei circoli non si sente “il polso” del nazionale; non si sente che qualcosa si sta tentando per risolvere i problemi.
Occorre invece che la Segreteria nazionale, la Direzione, il CPN si pongano concretamente il problema generale dell’organizzazione, troppo sottovalutato, e ciò vuol dire, ad esempio, che i dirigenti nazionali “visitino” molto più spesso di quanto accade le Federazioni e i circoli territoriali, e non solo per discutere di “grandi temi”, ma anche per spingere e orientare l’insieme del partito al lavoro minuto e certosino di costruzione del partito. Verificando, dunque, se il quotidiano del partito ha la necessaria diffusione e se le “Feste di Liberazione” – esperienze centrali sia per l’autofinanziamento che per il radicamento sociale – si fanno o meno (questa verifica sulle “Feste” è importante poiché può avanzare nel partito una critica di tipo piccolo borghese che giudica l’esperienza stessa delle “Feste” superata…); verificando l’esistenza o meno, nelle Federazioni, di una politica generale per l’autofinanziamento del partito e come essa viene portata avanti (un dirigente, avendo il privilegio di conoscere molte esperienze di carattere nazionale, potrebbe divulgarne le più efficaci); verificando se la Federazione porta o meno avanti quella decisiva politica, per il futuro del partito, di acquisto delle sedi, delle Federazioni e dei circoli.
In una parola occorre, intanto, ridurre le distanze tra Roma e la periferia del partito.
Interessante, da questo punto di vista, è la proposta contenuta nella Tesi alternativa (“Partire dalle fondamenta: potenziare il Partito”) alla Tesi 56 del documento congressuale di maggioranza: “Mentre va evitato il cumulo di incarichi e ruoli dirigenti e politici e istituzionali, una parte significativa dell’apparato centrale e del gruppo dirigente nazionale va “riportata sul campo”, in periferia; anche la collocazione dei dipartimenti nazionali va ripensata e collocata non solo a Roma, ma anche in altre realtà metropolitane. A loro volta, le Federazioni, partendo dal territorio, dai luoghi di lavoro e di studio potrebbero decentrare il lavoro politico, aggregando i circoli territoriali e di lavoro in coordinamenti zonali sulla base di progetti di iniziativa sociale.
Si tratta di una scelta che ha forti implicazioni democratiche. Essa rafforza il rapporto continuo tra centro e periferia; potenzia il radicamento sociale del Partito; contribuisce a snellire e a sburocratizzare le funzioni dell’apparato centrale (oltre a renderle meno costose); trasferisce strumenti e risorse sul territorio; limita i rischi – sempre presenti nella storia del movimento operaio – di irrigidimento autoritario dei gruppi dirigenti e di formazione di un ceto politico-istituzionale privilegiato e separato dal corpo del Partito, riduce i margini per carrierismi e personalismi oggi largamente diffusi…. ”.
Certo è che diversi vizi e limiti politici sono alla base della crisi dei circoli: la difficoltà estrema, che troppo spesso si verifica, di non riuscire a rendere protagonista il circolo nei conflitti sociali e di classe che si aprono nel quartiere (la difesa dell’occupazione in una fabbrica; la lotta per l’apertura di un Poliambulatorio…). Spesso non è il circolo ad iniziare o ad essere il fulcro della lotta: quando va bene è a rimorchio, segno più tangibile della nostra assenza di organizzazione e di “antenne” nei luoghi del lavoro e del conflitto…
Un altro vizio è il perpetuarsi di gruppi dirigenti ristretti, che non si pongono il problema né della costruzione di nuovi quadri né di tesaurizzare politicamente tutti gli iscritti; e ancora un altro è l’incapacità di “accogliere” e legare al partito i nuovi iscritti (il problema del turn-over dovrebbe costringerci ad una riflessione: perché molti giovani vengono ad “annusarci” e poi spariscono? Abbiamo una vita interna troppo burocratica? Non troviamo subito, per i nuovi iscritti, un compito giusto? E, sul piano più generale: i nuovi iscritti sono forse attratti dall’istanza comunista che vorremmo rappresentare e una volta al nostro interno si accorgono che non riusciamo a farlo, per debolezza politica, culturale, organizzativa, progettuale ? Su ciò dobbiamo davvero riflettere, perché se fosse verosimile quest’ultima analisi del turn-over significherebbe che forse, nella società, “l’idea” comunista è molto più vasta di quanto noi siamo capaci di organizzarla e riproporla in termini politici).
Un impedimento serio al radicamento sul territorio è poi l’autoreferenzialità del circolo, del dibattito chiuso tra comunisti, mentre la strada per la costruzione del partito sul territorio non può che essere quella, da una parte, di “popolare” e aprire il circolo, la sue sede fisica (attraverso la discussione aperta su temi di rilevanza nazionale ma anche sull’impianto fognario che nel quartiere non funziona; l’aiuto in sede, nelle mille forme possibili, ai cittadini; le iniziative culturali e le feste popolari), ai giovani, agli anziani, alle donne, ai lavoratori, alle forze politiche democratiche e ai movimenti; e, d’altra parte, di “estendere” il circolo nel territorio, trasformandolo in un soggetto di lotta (e primo costruttore di unità sul campo tra le forze politiche e sociali locali più avanzate) volto alla risoluzione dei mille problemi della vita politica e sociale di quartiere.
Se il partito è l’anticipazione del progetto per cui lotta – il progetto di un socialismo non separato, ma legato alle masse – tale partito non può che avere un obiettivo primario: stringere i legami coi lavoratori, con i cittadini, dentro le fabbriche, negli uffici, nelle scuole, sul territorio.