Fallimento della “Bolognina” e centralità del Partito comunista

La chiusura dell’Unità, avvenuta nel mese di agosto, è stato un avvenimento traumatico per migliaia di militanti di sinistra, che tuttavia non può meravigliare gli osservatori più accorti. Non solo è la conseguenza, dieci anni dopo, della Bolognina e dello scioglimento del Pci, ma rappresenta anche il simbolo più evidente della crisi profonda nella quale è caduto il partito dei Ds dopo la sconfitta delle elezioni regionali e la disfatta del referendum maggioritario. La crisi della Quercia è la questione più rilevante su cui concentrare l’attenzione e l’iniziativa dei comunisti, per diverse ragioni. In primo luogo perché sta in questa crisi la causa principale dell’aggravamento radicale della situazione politica e sociale del Paese, dell’avanzata delle destre che rischiano di tornare al governo nonostante siano fra le destre meno affidabili d’Europa, della rinnovata arroganza della Confindustria nonostante sia stata sconfitta nel referendum antisociale per la libertà di licenziare. Oggi non vi sono più capri espiatori. Chi ha riaperto la strada a Berlusconi, Fini, Bossi e alla parte più aggressiva del capitalismo italiano se non la politica suicida del centro-sinistra, guidato dai Ds, incapaci non solo di fare una politica diversa dalle ricette neoliberiste ma persino di sentire gli umori del proprio popolo, di percepire la delusione profonda del proprio elettorato? In secondo luogo la crisi dei Ds è il fenomeno più rilevante a sinistra perché sta determinando un grande malessere e una incertezza di prospettive in migliaia di militanti politici e sindacali che, pur facendo riferimento a questo partito, non hanno completamente rinnegato i valori di una sinistra almeno riformista. È dall’esito della crisi di questo mondo, in cui si ritrova ancora la maggioranza del movimento operaio organizzato, che dipende tanta parte delle sorti della sinistra italiana e dello stesso processo di rifondazione e ricostruzione di un nuovo partito comunista, forte e all’altezza dei tempi. Infine la crisi dei Ds è importante per i comunisti perché siamo di fronte non solo alla crisi di una politica, bensì alla crisi di una strategia, quella sorta con lo stesso atto di nascita del Pds con la Bolognina e lo scioglimento del Pci, da cui prese avvio anche il movimento della rifondazione comunista.

Scala mobile e sistema proporzionale

Agli inizi del 1991, sulla base della proposta di “una costituente di una nuova formazione politica” avanzata da Achille Occhetto un anno prima alla Bolognina, si scioglieva il Pci e nasceva il Pds. Sappiamo che ciò non accadeva da un giorno all’altro. Era un evento, sì traumatico per masse di iscritti ed elettori, ma preparato da un lungo processo di snaturamento dell’identità comunista di quel partito, particolarmente evidente nella deriva degli anni ‘80. Tuttavia, con la fine del Pci, assieme al Pds sorgevano i guai peggiori per la sinistra italiana e per il movimento dei lavoratori. Guardandole oggi, a distanza di dieci anni, con maggiore serenità e distacco, le vicende di quei primi anni ‘90 ci appaiono più comprensibilmente intrecciate fra di loro. Ci appare meno casuale, per esempio, che proprio negli anni immediatamente successivi allo scioglimento del Pci vengano contemporaneamente abbattuti, pressoché nello stesso periodo, il sistema elettorale proporzionale e la principale conquista sociale del movimento operaio sin dai primi anni del dopoguerra, cioè la scala mobile. Scioglimento del Pci, sistema maggioritario e cancellazione della scala mobile sono tre questioni strettamente intrecciate. Lo erano ieri, lo sono ancora oggi. L’esito del referendum del 16 maggio dimostra il fallimento del sistema maggioritario. L’inflazione che aumenta anche senza la scala mobile e la perdita del potere d’acquisto, oggi sotto gli occhi di tutti, dimostrano il fallimento dell’accordo sindacale del luglio ‘92 (la concertazione) con il quale si cancellò la scala mobile. Le sconfitte elettorali dei Ds e del centro-sinistra dimostrano il fallimento dell’operazione di scioglimento del Pci. Questi tre fallimenti ci dicono della chiusura di un ciclo, quello avviato dalla Bolognina e dell’approssimarsi dell’apertura di una nuova fase – sul piano istituzionale, sociale e politico – su cui lavorare. Chi poteva immaginare, solo qualche anno fa, la possibilità di un cambiamento in senso proporzionale del sistema elettorale? Già era considerato irrealistico, anche a sinistra e fra i comunisti, resistere sul sistema attuale di fronte alle spinte maggioritarie e bipolaristiche. Oggi, invece, dopo aver resistito controcorrente per tutti questi anni, è all’ordine del giorno per la prima volta dopo il ‘93 la possibilità di superare il sistema maggioritario in direzione di un sistema simile a quello tedesco. Si tratta di qualcosa di straordinariamente positivo. È quasi incredibile che gli esponenti più in vista del partito di Cossutta siano diventati le sentinelle del sistema maggioritario, ma siamo sicuri che un voltafaccia così aberrante e insostenibile non sia condiviso dalla maggioranza dei militanti di quel partito (1). Così come è stato possibile riaprire una possibilità, oggi realistica, di cambiamento in senso proporzionalistico della legge elettorale, è oggi possibile, oltre che necessario, aprire una nuova fase sul piano sociale per superare la concertazione avviata con gli accordi di luglio del ’92 e ’93 verso un nuovo sistema di adeguamento dei salari all’inflazione reale e verso la ripresa del conflitto sociale. Un bel segnale in questa direzione è venuto dall’esito del referendum negli stabilimenti della Zanussi, dove ben il 72% dei lavoratori ha bocciato l’accordo sottoscritto da Cisl e Uil su una nuova forma di flessibilità della forza lavoro, nonostante la forsennata campagna fatta dal gruppo multinazionale e dai sindacati subalterni.

Le due famiglie principali della sinistra

In modo simile sul piano politico. Chi ha resistito in questi dieci anni alla cancellazione di una forza politica organizzata dei comunisti può essere il perno della rinascita di un nuovo forte partito comunista che può trovare nuova linfa vitale nel fallimento della Bolognina e dei Ds. Ma la questione è più generale e riguarda l’intero sistema politico italiano e tutta la sinistra. Si può finalmente chiudere la lunga transizione italiana. Così come le forze politiche del centro moderato vanno, volenti o nolenti, verso una riunificazione nell’ambito della grande famiglia europea del Ppe, la crisi strategica dei Ds ci dice che è necessario e possibile giungere, non in tempi lunghi, ad un chiarimento e ad una razionalizzazione anche a sinistra, dopo l’impazzimento di questi dieci anni durante i quali comunisti, riformisti e democratici si sono confusi e sovrapposti senza più alcuna distinzione di ruoli e di partiti, senza alcuna chiarezza politica e teorica. È necessario e possibile che le due famiglie principali della storia del movimento operaio, quella riformista e quella comunista, si diano le due formazioni politiche corrispondenti. Certo si tratterà di due partiti nuovi e rifondati dopo il terremoto di questi dieci anni (è impensabile rifare il Psi e il Pci). Si tratterà inevitabilmente di una rifondazione/ricostruzione di nuovi partiti, in grado di una rilettura critica sia del movimento socialista e che di quello comunista del ventesimo secolo (2). Ma è auspicabile, oltre che logico, che dalla crisi strategica dei Ds emerga finalmente un nuovo partito socialista e socialdemocratico, così come avviene negli altri principali paesi europei, dove anche le socialdemocrazie più moderate non fanno confusione con il partito democratico americano, completamente altra cosa ed estraneo alla cultura europea della sinistra e del movimento dei lavoratori. Così sul nostro versante, la famiglia comunista, sia pure con le note pluralità al suo interno, ha una origine comune (nella rivoluzione d’ottobre), una storia comune (la storia del movimento comunista mondiale, sia pure attraversato dalle sue diversità e divisioni), una base culturale fondamentale (quella marxista), un obbiettivo strategico comune (il superamento del capitalismo), una dimensione internazionale. Cosa simile per la famiglia socialista e socialdemocratica. Queste basi comuni fondamentali e identitarie possono portare le due famiglie a due distinte formazioni politiche. Non sempre questo avviene, come si vede dalla frammentazione e dalle divisioni esistenti nel nostro paese sia per la famiglia riformista che per quella comunista. Ma l’assenza di queste basi comuni identitarie sono la causa fondamentale delle difficoltà a costituire nuovi soggetti politici fuori da queste famiglie principali. Perché fallisce il progetto di costruire il Partito Democratico, nonostante i numerosi e potenti sostenitori, nonostante i diversi tentativi di forzare il processo addirittura per via istituzionale e con le leggi elettorali maggioritarie? Perché non decolla il progetto di partito unico della sinistra, sostenuto dalla sinistra Ds e verso cui vorrebbe al fondo andare, sia pure gradualmente, la proposta di confederazione della sinistra avanzata da Diliberto? Perché non decolla il progetto di fondere in una unica forza politica la sinistra di alternativa, come ha proposto Pintor con l’ipotesi della federazione (3)? La ragione principale, di fondo, ben più forte delle resistenze soggettive che possono manifestarsi nei partiti e nei raggruppamenti esistenti, sta nel fatto che si tratta di proposte che pur animate da nobili intenti unitari – vista la dannosa frammentazione esistente a sinistra – sono basate su forzature soggettivistiche e organizzativistiche, non hanno quelle basi oggettive comuni, ideali e internazionali, che invece hanno le famiglie socialista e comunista che tuttora, nonostante i terremoti e le sconfitte di questi anni, non hanno ancora esaurito il loro ruolo storico. Per questo sarebbe molto meglio, piuttosto che sprecare tempo ed energie per progetti fusionistici che non decollano perché non ne hanno le basi oggettive, dedicare maggiore tempo a costruire il partito, a contribuire alla ripresa di lotte sociali e alla ricostruzione di un sindacato di classe e a far crescere una più costante e concreta iniziativa unitaria e di lotta delle sinistre (sia con la sinistra antagonista che con quella riformista), cosa che avrebbe grandi potenzialità oggettive di crescita perché se ne sente grandemente l’esigenza e contemporaneamente non avrebbe bisogno delle basi comuni identitarie di cui ha bisogno invece la fondazione di una nuova forza politica. Per esempio, per fare come a Seattle non serve una nuova formazione politica della sinistra di alternativa, basterebbe molto meno per non lasciare soli i centri sociali, per impegnare le varie forze della sinistra di alternativa e le parti più avanzate della sinistra che governa a mobilitare a fianco dei giovani il movimento dei lavoratori. Questo è per esempio un obbiettivo concreto realizzabile su cui concentrare il lavoro comune e unitario delle forze di sinistra disponibili.

Per un nuovo e forte Partito comunista in Italia

La fine del ciclo aperto dalla Bolognina e il possibile cambiamento della legge elettorale verso il modello tedesco chiuderebbero la lunga transizione italiana e potrebbero portare ad una riorganizzazione razionale del sistema politico e della sinistra. Si accrescerebbero le possibilità, ed è ciò che più ci interessa, di avviare un processo di ricostruzione di un nuovo forte partito comunista all’altezza dei tempi, che è la base necessaria per rilanciare un movimento di sinistra di alternativa più consistente di quello attuale, per realizzare un minimo di unità d’azione con la sinistra riformista e per la ripresa di un sindacalismo di classe con maggiori basi di massa. Il motore fondamentale di questo processo di ricostruzione è il Partito della Rifondazione comunista che perciò va difeso strenuamente da tutti i tentativi di cancellarlo o di ridurne la forza e il ruolo. Dall’esito di questo processo dipendono i destini di tutta la sinistra e persino della democrazia del nostro paese.

Note

(1) Tornare indietro, su una proposta di legge elettorale basata sul modello tedesco senza indicazione del premier, senza vincolo di coalizione, non farebbe altro che cancellare definitivamente la possibilità di avere governi stabili e sistemi bipolari in Italia. Lo afferma, in una nota, il coordinatore nazionale dei Comunisti italiani Marco Rizzo, secondo il quale “chi si fa oggi paladino del sistema tedesco intende, di fatto, riportare il Paese indietro, ai tempi della democrazia bloccata. In tal senso, i Comunisti italiani, per un dovere di lealtà verso l’alleanza di centrosinistra, non sarebbero più disponibili a partecipare al varo di alcuna riforma” (Adnkronos, 28 agosto 2000).

(2) Per affrontare una vera rifondazione comunista è indispensabile non rimuovere più, come si è purtroppo fatto finora nel nostro paese, il problema strategico delle cause della crisi e della sconfitta dell’esperienza sovietica, perché è dalla nascita di quella esperienza che sorgono i partiti comunisti di tutto il mondo e il movimento comunista internazionale. Solo analizzando criticamente quell’esperienza, distinguendo le sue luci che ne hanno fatto la grandezza e capendo le cause della sua tragedia e della sua sconfitta, può rinascere un nuovo movimento comunista all’altezza di tempi.

(3) Che la proposta di Pintor sia quella di costruire una nuova forza politica della sinistra di alternativa nella quale sciogliere il Partito della Rifondazione comunista è ormai cosa assodata nei vertici della sinistra di alternativa. Tuttalpiù la discussione, che appare oggi in parte sospesa e rinviata a dopo le elezioni politiche, verte sui modi e sui tempi di questo processo non sul suo sbocco. Del resto la “federazione”, ancor più della “confederazione” proposta da Diliberto, si fonda, per definizione, su cessioni di sovranità dei soggetti che la compongono ad un soggetto superiore. Il primo articolo che interpreta la proposta di Pintor come un nuova formazione politica che superi il Prc appare sullo stesso Manifesto. Ida Dominijanni, nel fare la cronaca dell’assemblea nazionale dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra, scrive: No quindi ad un altro partito da aggiungere a quelli esistenti e no ad una aggregazione che trovi la sua ragione fondante nella rottura delle forze esistenti. Non si incontra dunque, l’ottica dell’associazione con la proposta, avanzata da Luigi Pintor sulla Rivista del Manifesto, di una nuova formazione politica della sinistra anticapitalistica che comprenda e superi il Prc (Il Manifesto 28 maggio 2000). Il secondo intervento autorevole che interpreta la proposta di Pintor, con grande e apprezzabile franchezza, come una proposta di scioglimento del Prc per una costituente di una nuova forza politica è di Valentino Parlato sulla stessa Rivista del Manifesto. Della proposta di Pintor – scrive Parlato – mi sembra importante, anzi essenziale, l’indicazione di un processo costituente…. Mi rendo conto, capisco benissimo che la proposta di una costituente pone problemi seri soprattutto a chi è già costituito in forza organizzata, cioè Rifondazione comunista, che non può autosciogliersi all’enunciazione di una proposta di esito ancora assai incerto. Ma se la costituente è un processo penso che si debba mettere in conto questo autoscioglimento che non sarebbe affatto un’abdicazione, bensì un’audacissima sfida all’egemonia della sinistra e al suo rilancio, che presto o tardi (forse non troppo presto) comunque ci sarà…. Insomma si tratta di preparare il terreno proprio a una audace iniziativa di Rifondazione (La rivista del Manifesto, luglio-agosto 2000). Infine Lucio Magri sull’ultimo numero della Rivista del Manifesto sostiene la proposta di aprire un vero processo costituente, nel quale ciascuno manifesti la disponibilità a mettere in discussione qualcosa di sé, che via via produca una discussione permanente, cresca su esperienze reali e continuative, coinvolga forze diverse, organizzate in varia forma o non organizzate affatto: ma con l’obiettivo esplicito di approdare, come dice Pintor, ad una nuova e vera forza politica. Una operazione più fulminea non è possibile, ma un obbiettivo meno esplicito e meno ambizioso non muove gran che. (La rivista del Manifesto, settembre 2000).