Euro e modello UE: l’alternativa non abita qui

Dopo una prima fase in cui la crisi ha colpito i centri finanziari mondiali ed una seconda in cui la sovrapproduzione di capitale, latente da anni nei paesi a più alta composizione organica di capitale, è finalmente esplosa, ora si apre una terza fase. Si tratta di una fase caratterizzata dall’estensione degli effetti della crisi ai paesi emergenti, a partire da quelli del Bric (Brasile, Russia, India e Cina). Di seguito, vedremo quali sono gli effetti del perdurare della crisi e della sua generalizzazione sulla mondializzazione e sulle due aree centrali del modo di produzione capitalistico, gli Usa e Eurolandia.

CRISI DELLA MONDIALIZZAZIONE?

Uno degli aspetti più importanti sebbene meno considerati della crisi è costituito dalle sue ripercussioni sulla mondializzazione. Secondo la Banca mondiale, al calo, per la prima volta dal 1945, del Pil mondiale si è associato il maggiore declino del commercio mondiale degli ultimi 80 anni, ovvero dalla grande Depressione degli anni 30. Ne sono sintomo le difficoltà in cui si dibattono i maggiori paesi esportatori, come il Giappone, che, pur vantando il terzo maggiore attivo mondiale della bilancia dei conti correnti, ha fatto registrare a gennaio un disavanzo di 172,8 miliardi di yen, il maggiore da quando nel 1985 iniziò la raccolta di dati comparabili. Oltre alla riduzione dello scambio di merci, il fenomeno più eclatante, attraverso cui si manifesta l’impatto della crisi sulla mondializzazione, è l’inversione del flusso degli investimenti di capitale. Questi, negli ultimi decenni, sono fluiti copiosi dai paesi del centro del sistema capitalistico mondiale – Usa, Giappone e Europa occidentale – verso i paesi della periferia, i cosiddetti paesi emergenti o in via di sviluppo. Ora, il movimento dei capitali assume un andamento contrario, ritornando al centro del sistema, da cui la crisi si è generata. Infatti, gli investimenti all’estero vengono richiamati per poter compensare la penuria di liquidità, determinata dal credit crunch e dal collasso del sistema bancario. Tra gli investimenti più volatili vi sono quelli di portafoglio – azioni, titoli di stato, bond -, ma anche gli investimenti diretti (Ide), rivolti ad attività produttive ed industriali, assumono la medesima tendenza. Gli Usa sono la destinazione privilegiata di tale movimento. I flussi netti privati verso gli Usa hanno superato il primato del 2006, crescendo dai 150 miliardi di dollari del settembre 2008 ai 600 del dicembre 2008, grazie ai massicci acquisti di titoli di stato americani e ai crescenti rientri di capitali dall’estero. Anche l’Europa è diventata destinazione privilegiata del flusso di investimenti, dal momento che, oltre ai titoli di stato Usa, anche quelli europei (soprattutto tedeschi) sono considerati rendimenti sicuri, di tipo “difensivo” rispetto alle incertezze della crisi. I titoli di stato europei sono passati dai -44 miliardi di euro del IV trimestre 2007 ai 189 miliardi del IV trimestre 2008. Di converso, i flussi finan- ziari privati netti (investimenti diretti e di portafoglio) verso i paesi in via di sviluppo sono passati dal record del 2007 (928,6 miliardi di dollari) a un crollo dell’82% (165 miliardi), come stimato per il 2009 dall’Institute of International Finance(1). Le aree più penalizzate saranno l’Europa dell’Est, che precipita dai 392 miliardi del 2007 ai 30,2 miliardi del 2009, e l’Asia, che crolla dai 314 miliardi ai 63,9 miliardi. Anche il deflusso dei crediti netti erogati dalle banche occidentali è notevole: si passa da 410 miliardi del 2007 ad una previsione di -61 per il 2009. Un segnale della particolare gravità di questa crisi è che il crollo degli investimenti è il più accentuato tra quelli avvenuti negli ultimi 30 anni. Infatti, mentre nelle precedenti crisi – quella degli anni 80 e quella tra la fine degli anni 90 e il 2002 – c’era stato un calo del flusso degli investimenti sul Pil dei paesi emergenti rispettivamente di 3,2 e 3,7 punti percentuali, oggi il calo arriva al 5,8%. Per quanto riguarda gli Ide il 2008 ha segnato la fine di un ciclo di crescita durato almeno quattro anni con un calo del flusso in entrata di ben il 21% sul 2007(2). Il calo maggiore dei flussi in entrata è stato registrato principalmente nei paesi più sviluppati – principalmente Regno Unito, Germania, Italia – dove la contrazione ha raggiunto il 33%. Nei paesi cosiddetti emergenti gli Ide in entrata hanno continuato a crescere (+4%), sebbene in misura notevolmente inferiore al 2007. Secondo l’Unctad, questo dato non riflette correttamente la situazione, visto che l’impatto della crisi si è trasmesso ai paesi emergenti solo nell’ultimo quarto del 2008. Proprio alla fine dell’anno si è registrata nei paesi del Bric, che sono stati la principale destinazione del flusso di Ide negli ultimi anni, una significativa inversione di tendenza, dovuta alla ridotta disponibilità di capitali a livello mondiale. Secondo alcuni economisti la fase della mondializzazione, caratterizzata da scambi intercontinentali, sta lasciando il campo ad una fase di regionalizzazione, in cui gli scambi avvengono principalmente all’interno delle varie macro-aree in cui si suddivide il mercato mondiale (Asia, Ue, Nafta, Mercosur), come proverebbero i dati forniti da corrieri come Dhl sulla recente maggiore crescita dei trasporti e degli invii domestici e regionali rispetto a quelli intercontinentali. A spingere in direzione contraria alla mondializzazione si aggiungerebbero, inoltre, le tendenze protezioniste che starebbero riemergendo un po’ dappertutto, specialmente sotto la forma di aiuti alle imprese in difficoltà. Tuttavia, preconizzare la fine del mercato mondiale è fuori luogo. Se osserviamo la tendenza di lungo periodo degli Ide, ad esempio, vediamo come il flusso di capitali in entrata sia cresciuto costantemente dal 1991 fino al picco del 2000 per crollare nel periodo di crisi tra 2001 e 2003, mantenendosi però sempre molto al di sopra del livello degli anni 90, e riprendere con forza raggiungendo un nuovo record nel 2007. Del resto, è significativa la differenza tra investimenti di portafoglio e gli Ide che rappresentano la base materiale e produttiva della mondializzazione. Mentre i primi rifluiscono dalla periferia al centro, i secondi calano dappertutto, ma è solo nei paesi centrali che subiscono un vero tracollo. Inoltre, la mondializzazione si è sempre intrecciata dialetticamente con la regionalizzazione e con la competizione tra aree valutarie (dollaro, euro, yen, yuan). Né è mai stata da intendere nel senso di abbattimento di ogni barriera e di eliminazione di qualunque monopolio, come pretendeva l’ideologia neoliberista, e tantomeno nel senso di fine delle contraddizioni e del conflitto, come intendeva il Fukuyama della “fine della storia” preconizzata dopo il crollo del muro di Berlino. Al contrario, la mondializzazione è figlia della crisi e delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, nella misura in cui la sovrapproduzione strisciante di capitali e di merci spinge alla ricerca incessante di nuovi mercati di sbocco, mentre la caduta del saggio di profitto nei paesi in cui più sono sviluppati i rapporti di produzione capitalistici dirige i capitali verso le aree meno sviluppate, dove il saggio di profitto è più alto. Nello stesso tempo, la ricerca di mercati di sbocco e di fonti di materie prime a buon mercato si accompagna ad una lotta incessante tra capitali e imprese in cui, oltre alle aree regionali ed alle entità sovrannazionali, riprendono a svolgere un ruolo decisivo gli stati nazionali, semmai lo avessero abbandonato. L’affermazione del mercato mondiale non è un processo lineare, bensì un processo che procede a balzi, e, quando la sovrapproduzione da latente diviene esplicita e la crisi esplode, anche il processo di mondializzazione ne risente. La crisi, ad ogni modo, non recide i legami di interdipendenza tra aree centrali, tra centro e periferia, tra aree sviluppate e emergenti, bensì li modifica, rivelando la decadenza di alcuni e l’ascesa di altri, come già avvenuto nella prima metà del XX secolo con l’emergere di Usa e Germania prima e del Giappone poi a fronte della precedente leadership britannica, proprio perché una delle caratteristiche dell’accumulazione capitalistica è lo sviluppo ineguale. Sono queste modificazioni e gli inevitabili conflitti cui danno adito che dobbiamo indagare, tenendo conto che oggi, al contrario che nel passato, la realizzazione del mercato mondiale ha moltiplicato gli attori in competizione nell’arena.

GLI USA ED IL FINANZIAMENTO INTERNAZIONALE DEL LORO DEBITO

Il primo atto importante di Hillary Clinton, come nuovo ministro degli esteri Usa, è stato quello di andare in Cina. L’obiettivo del viaggio era preciso: assicurarsi che la Cina continuasse ad acquistare i Treasury bond americani. Il Dragone, infatti, investe in titoli del debito pubblico Usa un terzo del totale delle sue riserve in valuta pregiata, per circa 700 miliardi di dollari. È nella sua qualità di principale finanziatore mondiale del debito Usa, che la Cina ha potuto replicare alle consuete critiche del Rapporto del Dipartimento di Stato sul rispetto dei diritti umani in Tibet, facendo notare alla Clinton, questa volta molto meno interessata ai guai del Dalai Lama, che “gli Usa hanno i loro problemi, si concentrino su quelli”. Del resto, il finanziamento del debito pubblico è vitale per gli Usa nel momento attuale. Infatti, a fronte di una recessione sempre più dura, l’amministrazione Obama punta tutto su di un intervento statale massiccio che, aumentando l’entità della spesa pubblica, accresce la necessità di ricorrere ai prestiti internazionali mediante l’emissione di titoli di Stato. Il Tesoro Usa ha aumentato le aste dei T-bill, che, solo nella settimana centrale di febbraio, hanno raggiunto la cifra di 187 miliardi di dollari. Il ricorso all’emissione di titoli del debito pubblico è così alto che lo stesso Wall Street Journal se è preoccupato, avvertendo che in questo modo ci si espone al rialzo dei rendimenti per i possibili aumenti dei tassi d’interesse, che oggi sono tenuti a livelli eccezionalmente bassi allo scopo di stimolare la ripresa economica. Ma si tratta di preoccupazioni per il futuro che svaniscono dinanzi alla pressante drammaticità del presente, che è peggiore persino delle più fosche previsioni. Nell’ultimo trimestre del 2008 l’economia Usa si è contratta del 6,8%, molto più del 3,8% stimato inizialmente e del 5,4% previsto dal mercato. Una revisione di tale entità non si era mai vista dal 1976. Del resto, il sistema finanziario non ha tratto giovamento dai molti miliardi già profusi nella fornace provocata dallo scoppio della bolla dei derivati. La più grande banca del mondo, Citigroup, nonostante gli aiuti già erogati, è crollata di nuovo ed il governo è dovuto intervenire ancora, entrando nel controllo del 40% del capitale, una quota otto volte superiore a quella del principale azionista privato. Sorte simile attende la seconda banca Usa, Bank of America, mentre Aig, la più grande società assicurativa Usa, già beneficiata di 125 miliardi, è di nuovo al collasso, come Fannie Mae, che, dopo la ristatalizzazione, ha perso altri 25,2 miliardi e chiede nuovi stanziamenti per 15,2 miliardi.

Per ogni pezza che si mette su una crepa dell’edificio economico-finanziario degli Usa se ne riaprono altre due. Del resto, la massa dei “derivati” il cui valore è ridotto a carta straccia aumenta continuamente, superando quella iniziale dei subprime. Il governo Usa, nel tentativo di risolvere l’incertezza che domina sul mercato, si offre come garante degli acquisti di titoli da parte degli investitori privati. In questo modo gli investitori possono pagare un prezzo per i titoli vicino al valore di bilancio, evitando alle banche grosse perdite. Ma, se lo Stato Usa fosse tenuto alle stesse regole contabili delle imprese private, il costo che dovrebbe riportare per operazioni di questo tipo sarebbe molto più alto e, comunque, il livello di perdite che rischia di accumulare come assicuratore di ultima istanza è enorme, col rischio di minare la propria solvibilità e innescare una crisi valutaria. Intanto, con i maxiinterventi statali debito e deficit pubblico Usa, già portati ai massimi livelli con Bush, tendono ora ad esplodere. Obama, rendendosi conto della gravità della situazione, ha promesso di ridurre in quattro anni il deficit pubblico dal 12,3% sul Pil, previsto per il 2009, al 3%, dimezzandolo. Non si capisce, però, come possa riuscirci. Fra l’altro, le previsioni del bilancio 2009 appaiono viziate da “trucchi di bilancio”, senza i quali il deficit reale supererebbe i 2mila miliardi di dollari, toccando il 14% del Pil. C’è poi da notare la “miracolosa” assenza contabile dal bilancio di altri 8mila miliardi già stanziati o erogati. Inoltre, il debito pubblico Usa, che secondo l’amministrazione Obama sarebbe nel 2009 il 58,7% del Pil, ammontando ufficialmente a 10,85 trilioni di dollari, equivale in realtà al 78% del Pil (14 trilioni)( 3). Senza contare che le ottimistiche previsioni di bilancio di Obama per i prossimi anni presuppongono un calo dell’economia inferiore a quello stimato dal Parlamento ed addirittura una crescita nel 2010 del 3,2%. Stime quantomeno dubbie.

Inoltre, la riduzione del deficit dovrebbe avvenire anche a seguito del tanto atteso taglio alle spese militari, che in effetti, guardando al budget del Pentagono, non ci sarà. Dunque, il meccanismo dell’ indebitamento,(soprattutto con l’estero) su cui gli Usa da tempo si fondano, non accenna a risolversi con Obama, ma tende anzi ad accentuarsi a causa della crisi. L’assicurazione della Cina a mantenere inalterata la composizione del suo paniere delle valute di riserva può tranquillizzare momentaneamente gli Usa. Di certo, però, non risolve la questione di una economia mondiale fortemente squilibrata e condizionata dalla presenza di una economia gigantesca, quella Usa, che vive a credito e che ha già fortemente contribuito a portarci alla crisi attuale. Per ora, Cina e Usa sono strettamente interdipendenti ed hanno bisogno l’uno dell’altro. La Cina ha interesse a sostenere gli Usa per tre ragioni: perché un crollo del dollaro ridurrebbe il valore delle sue riserve (in un momento in cui anche il Dragone ha bisogno di sostenere la sua economia e i partner dei paesi ricchi di materie prime, perché gli Usa sono lo sbocco privilegiato delle sue esportazioni e perché vuole evitare che le multinazionali Usa rimpatrino i capitali investiti in joint venture con imprese cinesi. Nello stesso tempo, però, la Cina si rende conto che il mantenimento del dollaro come moneta internazionale di scambio e di riserva consentirà agli Usa di continuare a farsi finanziare il debito dal resto del mondo. È per questo che la Cina ha fatto la proposta di una nuova moneta internazionale, al posto del dollaro, che, sebbene per ora inattuabile, ha lo scopo di indicare dove sta e come risolvere il problema.

I CONTRACCOLPI DEI PAESI EMERGENTI SU EUROLANDIA

Due i fatti significativi della situazione in cui versa la Ue ed in particolare il suo nocciolo duro, l’eurozona. Il primo è il calo dell’euro sul dollaro del 22% tra il picco raggiunto nel luglio del 2008, dopo un lungo periodo di crescita, ed il febbraio 2009. Il secondo è l’approvazione da parte del governo tedesco di una legge che consente allo Stato l’espropriazione delle banche che sono in grave difficoltà. Si tratta di una svolta epocale, perché la Costituzione tedesca prevede limiti specifici all’esproprio, e perché in questo modo si vengono a negare i principi di economia liberista su cui la Repubblica Federale Tedesca si è fondata sin dagli anni 50 in contrapposizione alla socialista Repubblica Democratica Tedesca. La ragione di tali eventi è da rintracciarsi nell’apertura di una nuova fase nella crisi mondiale, che si scarica con violenza proprio su Eurolandia. La crisi si trasferisce dal centro del sistema economico mondiale ai paesi della periferia, le cosiddette economie emergenti, che si ritrovano senza sbocchi per le loro merci nei mercati ricchi. Viene così allo scoperto la fragilità della recente ed enorme crescita di questi paesi, basata su di un esagerato indebitamento. È questa la situazione degli ex Paesi socialisti dell’Europa centro- orientale, che, attuando drastiche campagne di privatizzazioni, hanno costituito il terreno della applicazione più sconsiderata del neoliberismo e, accogliendo massicci investimenti esteri, sono divenuti di fatto il prolungamento dell’industria europea occidentale. Al momento questi paesi sono indebitati con le banche estere per 1656 miliardi di dollari (di cui 1511 con le banche dell’Europa occidentale), tre volte più che nel 2005. Un debito insostenibile in presenza della recessione, che determina il crollo delle valute locali e l’aumento dei deficit commerciali e statali. Ad esempio, il Pil dell’Ucraina è calato del 10%, mentre il deficit commerciale estero della Romania è passato dal 3,3% del Pil nel 2002 ad un insostenibile 12,2% nel 2008, cui si aggiunge un deficit pubblico del 5,2%.

Il restringimento del credito bancario, seguito allo scoppio della bolla dei subprime, fa così emergere la vulnerabilità di molti paesi dell’Est Europa, che ora avrebbero bisogno di 200 miliardi di dollari di rifinanziamento e di 150 miliardi per ricapitalizzare le banche. Per fronteggiare questa situazione, Ungheria, Lettonia ed Ucraina si sono assicurate prestiti d’emergenza presso il Fondo Monetario Internazionale, mentre Serbia e Romania stanno per fare lo stesso. In ogni caso, dinanzi al pericolo di insolvenza e di bancarotta statale di questi Paesi, i più esposti sono i paesi creditori dell’Europa Occidentale. I maggiori fra questi sono l’Austria con 277,9 miliardi di dollari (il 75% del suo Pil), la Germania con 219,9 miliardi, l’Italia con 219,6 miliardi e la Francia con 155,1 miliardi. La finanza e le banche di Eurolandia, dopo lo shock dei “titoli tossici” provenienti dagli Usa, potrebbero, quindi, subire un durissimo contraccolpo proveniente da Est. Si tratta di un pericolo da cui sono tutt’altro che esenti le due principali banche italiane, tra quelle occidentali le più attive nell’Europa orientale, Banca Intesa ed in particolare Unicredit, che è esposta anche attraverso le sue consociate in Austria, dove è il primo gruppo bancario, ed in Germania, dove è il secondo gruppo. Ne risulta tutta la superficialità delle dichiarazioni di Berlusconi sulla situazione di sicurezza delle banche italiane rispetto alle altre banche europee.

Ma per Eurolandia, l’Europa centro- orientale, il suo “giardino di casa”, è solo una parte del problema. Infatti, secondo la Banca dei regolamenti internazionali, la zona dell’euro, oltre a fornire il 90% del prestito dell’Est Europa, eroga quasi i tre quarti dei prestiti bancari ai paesi emergenti su scala mondiale. Su un totale di 4593 miliardi di dollari di prestiti globali, l’eurozona contribuisce con 3369 miliardi (il 73,4%), gli Usa con 475 miliardi (10,3%) ed il Giappone con 218 miliardi (4,8%). L’esposizione dell’eurozona verso i paesi emergenti raggiunge il 18,8% del suo Pil, quella degli Usa il 3,4% e quella del Giappone il 5%. Solo la Spagna, ad esempio, fornisce un terzo dei prestiti totali all’America latina. E’ per queste ragioni che le difficoltà del mercato mondiale possono danneggiare l’Europa più delle banche Usa e giapponesi. Di conseguenza, l’euro, essendo la valuta più esposta sui mercati emergenti, è a rischio di svalutazione. Infatti, dall’inizio del deterioramento della situazione nell’Est Europa, attorno all’8 di ottobre, l’euro è calato del 10%. L’aggravarsi della situazione economica europea è dimostrato anche dall’aumento del costo delle assicurazioni sui titoli del debito statale non solo dei paesi dell’Est Europa, ma anche dei paesi più deboli dell’eurozona, come Grecia e Irlanda, e persino di quelli più forti, come Francia e Germania. Se la crisi è insieme conseguenza ed acceleratore della disgregazione dell’ordine economico e finanziario mondiale basato sul dollaro e sugli Usa, è al contempo anche la dimostrazione della incapacità dell’euro e della Ue di soppiantare o quantomeno di condividere il ruolo egemonico del dollaro e degli Usa. Del resto, anche l’Europa negli ultimi decenni ha seguito la stessa strada degli Usa nell’eliminazione neoliberista delle briglie imposte agli animal spirits del capitale e nello sviluppo di una economia basata sull’indebitamento. Inoltre, dinanzi ai gravi pericoli che minacciano le banche Ue, l’esistenza dell’euro e persino l’integrità di Eurolandia, i vari governi stentano ancora a trovare posizioni unitarie. Infatti, un ulteriore vulnus alla possibilità di un maggiore ruolo internazionale dell’euro rimane l’inconsistenza della Ue come soggetto politico, specialmente in una fase di inasprimento della concorrenza e delle contraddizioni internazionali.

Note

(1) Per i dati sui flussi finanziari vedi sul sito IIF: Capital Flows to Emerging Market Economies, January 27, 2009.

(2) Per i dati sugli Ide vedi sul sito dell’Unctad: Investment Brief, number 1, Global FDI in decline due to the financial crisis, and a further drop expected.

(3) Secondo il Congressional Budget Office (l’ufficio per il bilancio del Parlamento Usa) il debito Usa, contabilizzato correttamente, sarebbe in realtà pari a cinque volte il Pil (vedi anche di M. Dolfini, “Debito e impero”, Limes n.1, 2005).