Dopo tante disquisizioni, il governo ha fatto chiarezza sull’esito del referendum per l’estensione dell’articolo 18. Si è scelta la data del 15 giugno, infatti, mettendo da parte le affrettate dichiarazioni bellicose di Maroni, che si diceva certo, con questa consultazione, di chiudere la partita sull’articolo 18. La destra governativa e confindustriale, avendo colto come il consenso a quest’iniziativa referendaria sia largamente maggioritaria nel paese, tenta ora di salvarsi puntando ad annullare la consultazione attraverso il mancato raggiungimento del quorum. Chiamando i cittadini a votare tre domeniche nell’arco di un mese, è ovvio che si spera nella stanchezza. Tutto ciò fa giustizia di chi, dalla raccolta delle firme ad oggi, paventava la sconfitta e ci accusava di fare il gioco delle destre. Oggi ci pare che a sostegno del governo vanno ascritti quegli atteggiamenti attendisti, che non consentono di mettere in campo tutto lo sforzo politico ed organizzativo che politica e sindacato dovrebbero utilizzare per assegnare la prima forte sconfitta politica del governo Berlusconi.
Nel direttivo confederale del 24 febbraio abbiamo sollecitato la CGIL a prendere posizione a sostegno del SI, ma ancora una volta si è voluto prendere tempo. Ma il tempo stringe, e quest’ambiguità del sindacato che più d’ogni altra organizzazione ha coagulato grandi attese in milioni di lavoratori e lavoratrici, soprattutto giovani, in direzione di una rinata dignità al lavoro, rischia di appannarsi.
Siamo, infatti, tutti consapevoli che nella nuova deregolamentazione del mercato del lavoro l’articolo 18 non rappresenta la complessità delle tutele e dei diritti che sarebbero necessari, ma la sua estensione rappresenta un forte elemento di controtendenza rispetto alla strategia della destra politica e sociale e soprattutto sancisce il concetto dell’universalità della norma, cancellando un’anomalia della giurisprudenza per cui a decidere l’esigibilità o meno di un diritto è l’impresa, che definisce unilateralmente la sua base occupazionale. Per questo al direttivo della Cgil abbiamo giudicato negativa quella legge d’iniziativa popolare che, intervenendo proprio sulla materia dell’estensione, seppur in forma diversa, lasciava ancora nelle mani del datore di lavoro la concretizzazione del reintegro sul posto di lavoro, o al contrario la scelta della monetizzazione del danno subito a causa di un licenziamento illegittimo. Inoltre ci pare francamente insostenibile l’idea che la legge possa avere una benché minima possibilità di successo senza essere sostenuta dalla vittoria del referendum. La credibilità di qualsiasi ipotesi innovativa, nell’attuale quadro politico, passa esclusivamente attraverso la sconfitta del progetto berlusconiano con la creazione di una sinergia tra un conflitto sociale ampio e articolato ed una consultazione referendaria popolare.
Lo scontro che è in atto non riguarda aspetti, seppur importanti, attinenti alla sola sfera sindacale. La partita che si sta giocando investe il modello democratico del nostro paese. La filosofia contenuta nella legge delega 848, ora approvata con la legge 30/2003, va alla radice della rappresentanza sociale, introducendo da un lato la selezione privata della forza lavoro attraverso forme moderne di caporalato, colpendo in tal modo sin prima dell’assunzione la dignità del lavoro, e dall’altro legalizzando la contrattazione individuale anche peggiorativa del contratto nazionale e in alcuni casi persino della legge. Il contratto di lavoro individuale sappiamo bene che produce la totale subalternità del lavoratore e della lavoratrice all’impresa, con la conseguente cancellazione della rappresentanza collettiva nella tutela della forza lavoro.
Appare evidente che un modello così radicale sperimentato nel mondo del lavoro, come sempre è accaduto nella storia del movimento operaio, è l’embrione di un ben più ambizioso modello di società, figlia di quel neocorporativismo, insito nel neoliberismo, già ampiamente sperimentato nel capitalismo anglosassone.
L’impegno referendario riveste in questo quadro un ruolo fondamentale nel fermare questo progetto.
Come abbiamo visto dai sondaggi e dalle scelte del governo non vi è nessun rischio di andare contro una sconfitta.
Ma anche quei margini di rischio cha la nostra iniziativa poteva avere al momento della sua promozione, erano pericoli necessari, che occorreva comunque correre, perché, come dimostra l’attività parlamentare di queste settimane, il governo è intenzionato a realizzare in toto il progetto di devastazione delle regole e dei diritti in materia di lavoro, come dimostrano anche i provvedimenti relativi al sistema previdenziale, sui regimi d’orario e così via.
Sarebbe inoltre opportuno che, alla luce del dibattito apertosi su questo tema, si chiarisse anche la questione “dell’alleanza con i ceti medi” che sarebbero terrorizzati dall’estensione dell’articolo 18.
Chi come me opera in un settore come quello del Terziario, dove più dei due terzi delle imprese sono sotto la soglia dei quindici dipendenti, sa che i problemi di questo settore non risiedono nel livello dei diritti, ma da un’incapacità intrinseca delle imprese di stare autonomamente sul mercato. Da sempre il “nanismo” del nostro sistema d’imprese è figlio di una tolleranza dello Stato, che ne ha sostenuto l’esistenza attraverso la protezione accordata ad una diffusa illegalità fatta di lavoro nero, d’evasione contributiva e fiscale, di negazione di diritti ben più pesante del solo articolo 18.
È stupefacente che lo Stato dichiari candidamente che sei lavoratori su 10 sono irregolari. Il dato è emerso dagli accertamenti effettuati tra luglio e ottobre dell’anno scorso dalla guardia di finanza: al Sud sono il 76% gli irregolari, il 61% nel mitico Nord Est, e sono “solo” il 50% nel Nord Ovest
Nel decennio passato i lavoratori e le lavoratrici hanno pagato un prezzo altissimo al risanamento del nostro paese. In una fase d’evidente declino del nostro sistema industriale, sarà opportuno che anche questo tema del livello di competitività che hanno (o non hanno) larghi settori dell’economia italiana sia affrontato. Una cosa deve iniziare ad essere chiara, e cioè che questa competitività non può reggere su una discriminazione nei confronti di chi quella ricchezza produce. È questo un tema che la vittoria del referendum per l’estensione a tutti del reintegro in caso di licenziamento arbitrario imporrà al dibattito economico e politico.
Tornare a vincere impone a tutti anche qualche compito impegnativo.