Una delle caratteristiche singolari del dibattito sul crollo dell’URSS è il basso livello intellettuale degli interventi, e la ripetitività delle tesi interpretative avanzate. Per leggere qualcosa di interessante o illuminante bisogna andare a ripescare analisi, testi, ricostruzioni che risalgono a decenni addietro, in certi casi a prima della rivoluzione del ’17. La sintesi critica più brillante, Il passato di un’illusione (Mondadori, 1995) di François Furet è costruita su una letteratura di sinistra e di destra che lungo il Novecento ha polemizzato con il comunismo boslcevico, ma la novità non da poco della sua caduta non viene tematizzata; è inevitabile che succedesse, quindi non c’è nulla da spiegare. Si ha come l’estensione su scala planetaria e per un’intera epoca storica della tesi crociana della parentesi fascista. La rivoluzione in Russia e tutto quel che ne è seguito sono stati una sorta di errore colossale, un tentativo di deviare il corso normale della storia, con il crollo la corrente ritorna nel suo alveo normale: fine della storia. Lo studio delle tracce lasciate è un lavoro da archeologi, mentre non sembra degno di riflessione e tale da produrre un salto di qualità nell’elaborazione teorica e nella conoscenza storica un fenomeno della portata del comunismo sovietico, con le sue proiezioni su scala mondiale, le vicende del suo crollo e quel che ne è seguito. Questa sorta di impasse totale fa sì che coesistano due forme di negazionismo: quella di gran parte della sinistra che cerca di cancellare ogni rapporto con il comunismo e ricordo dell’URSS, a cui fa da contraltare il blocco della ricerca e della riflessione da parte di chi, per motivi opposti, è interessato a fissare una sorta di comunismo eterno, sempre uguale a se stesso, sovrastorico, principio di ogni male o ideale da riproporre.
Ovviamente nel clima politico-culturale italiano prevalgono gli anatemi, anche in sede storiografica. Così Ettore Cinnella in La tragedia della rivoluzione russa (Luni 2000) sostiene che “il maggior risultato storico della rivoluzione bolscevica fu l’imbalsazione del mummificato impero zarista che nel 1917 si stava decomponendo”, e che il risultato ottenuto da Lenin fu di ridare “vita a un ingombrante e olezzante cadavere, imbellettandolo con una nuova ideologia e consentendogli di marciare alla conquista di nuovi territori”. Faccio notare che queste tesi non presiedono ad un pamphlet ma ad una ponderosa opera di 800 pagine, aggiornata storiograficamente e frutto di un lungo lavoro specialistico. Il problema è che la visione della rivoluzione bolscevica proposta da Cinnella era disponibile da decenni, in forma molto più brillante, breve ed incisiva. Non stupisce in questo avanzare regressivo della ricerca che lo studioso italiano riscopra l’opera di William Henry Chamberlin, risalente agli anni ’30, mentre non faccia alcuna menzione, nemmeno polemica, all’imponente lavoro di Edward H. Carr (entrambe le opere vennero tradotte per tempo dall’allora editore comunista Einaudi).
Ciò non vuol dire che la ricerca storica in questi anni, grazie anche all’accesso ad una quantità di nuovi documenti, non si sia sviluppata conseguendo risultati fortemente innovativi, soprattutto sugli anni della rivoluzione e della guerra civile. Il problema del tutto aperto è quello di integrare le conoscenze storiche che si stanno acquisendo, riempiendo molte pagine bianche della storia russo-sovietica, in una interpretazione complessiva dell’URSS, a partire dalla rivoluzione russa nella sua ampia accezione storica, rispetto a cui l’Ottobre segnò una svolta, certo non riducibile ad un colpo di mano. È un lavoro che per il revisionismo storico, così attivo sul fascismo e il nazismo, risulta privo di interesse: da un lato la questione è stata risolta con il crollo dell’URSS, dall’altro gli conviene fissare la storia del comunismo novecentesco in uno stereotipo utilizzabile a fini di battaglia politica. Al contrario lo studio storico e l’approfondimento dell’interpretazione della specifica vicenda russo-sovietica, nel contesto più generale del comunismo novecentesco, è un compito ineludibile per la sinistra, altrimenti costretta ad una condizione di minorità insuperabile ovvero indotta a dissolversi a partire dalla cancellazione della propria storia.
Il lavoro da intraprendere è abbastanza chiaro ma tutt’altro che indolore, tutta una serie di certezze verranno messe in discussione e dovranno essere abbandonate.
Si ripropone su una scala molto più grande e in una situazione molto più difficile la problematica che Marx decise di affrontare negli ultimi anni della sua vita, quando lo studio della questione russa, vale a dire della rivoluzione in Russia, lo portò a conclusioni e scelte che non furono mai capite né accettate dai marxisti della sua epoca, tanto meno da quelli successivi. D’altro canto se i marxisti avevano ragione e Marx torto, allora effettivamente la rivoluzione russa non è stata altro che un grande errore, un percorso antistorico (una rivoluzione contro “Il Capitale” come diceva il giovane Gramsci) che ha causato unicamente un disastro per la sua volontà di saltare le tappe necessarie sulla strada del progresso.
La tesi che qui si può solo enunciare è che gli esiti indifendibili del comunismo sovietico non furono il risultato di una violazione di leggi storiche, in realtà sovrastoriche o “naturali”, né la realizzazione pratica di una ideologia diabolica, e nemmeno, più banalmente, la riedizione tecnicizzata dello zarismo, dell’asiatismo, ecc.
Lo studio storico della rivoluzione russa, prima dell’URSS e dopo la sua costruzione, ci dice che il problema è tutto interno alla sinistra, anche per l’inconsistenza della borghesia russa. In un arco di tempo che va dalla fase populista ottocentesca a quella staliniana e oltre, una lotta a tratti spietata si sviluppò tra quelle che Marx, in quella specifica formazione storico-sociale (ma non bisogna esagerare le peculiarità russe perché sono estendibili ad altri contesti), considerava componenti interne della rivoluzione. In realtà ciò che avvenne fu una scissione completa ed una contrapposizione armata tra città e campagna, operai e contadini, comunismo e anarchismo. Questo è il panorama che ci restituiscono gli studi sul ’17 e la guerra civile, ma le dimensioni del problema sono anche più vaste e arrivano sino a noi; credo che esse debbano essere affrontate apertamente evitando facili liquidazioni e inconsistenti dogmatismi.