Partiamo dai risultati.
La destra di Nuova Democrazia (governo uscente) perde in voti e in seggi, ma conserva di misura la maggioranza assoluta (152 seggi su un totale di 300) e continuerà a governare. Passa dal 45,4 delle precedenti elezioni al 41,8 ; da 165 a 152 seggi.
Il PASOK (socialdemocrazia), l’altro polo del sistema bipolare, che ha condotto nei confronti del governo una opposizione di alternanza (tutta interna alla logica neo-liberale ed euro-atlantica dell’Unione europea) non solo non intercetta il diffuso malcontento popolare, ma cala dal 40,6 al 38,1, da 117 a 102 seggi: il peggior risultato della sua storia.
Il calo dei due maggiori partiti (che segnala una difficoltà della dinamica bipolare) viene in minima parte raccolto dal LAOS, formazione xenofoba di estrema destra, che col 3,8% (+1,6) supera lo sbarramento elettorale del 3% ed entra in Parlamento con 10 seggi.
Crescono soprattutto i consensi delle due formazioni a sinistra del PASOK : i comunisti del KKE (+2,3%) e la coalizione di sinistra eco-socialista del SYRIZA, ex Synaspismos (+1,8%).
SYRIZA passa dal 3,2 al 5%, da 6 a 14 seggi. Lo scarto in seggi si spiega anche con una recente modifica della legge elettorale, voluta dal PASOK, che ne accentua il carattere proporzionale. SYRIZA raccoglie anche il malcontento di settori delle classi medie che in passato votavano PASOK, come si vede dal voto dei quartieri più benestanti di Atene, dove il voto a SYRIZA supera di molto la propria media nazionale e dove la presenza del KKE è viceversa a livelli minimi.
Il KKE passa dal 5,9 all’8,2%, da 12 a 22 seggi, e ottiene oggi, in una fase di riflusso, il suo miglior risultato dal 1990, e sfiora i suoi massimi storici anche rispetto alla fase “eroica” seguita alla caduta del regime dei colonnelli (in cui superò il 9%); e ciò nonostante la scissione del 1991, provocata nell’ anno della fine dell’Urss dall’ala post-comunista del partito, da cui si sviluppa l’esperienza del Synaspismos, che sarà poi uno dei partiti fondatori della Sinistra Europea.
Il KKE ottiene i suoi migliori risultati nelle aree metropolitane (Atene, Pireo, Salonicco…) dove in molti casi si colloca tra il 10 e il 15 %, con punte del 15-20% nei quartieri operai e popolari.
Si evidenzia una forte polarizzazione e diversificazione sociale del voto a SYRIZA rispetto al voto KKE, sia pure nel quadro di una comune e complessiva avanzata a sinistra.
Tutto ciò è particolarmente significativo per due ragioni almeno :
1)perché la situazione di oggi, per i comunisti e le forze di sinistra di alternativa europee è sicuramente più sfavorevole che non negli anni ’80. Oggi tutto il contesto UE si è radicalmente spostato più a destra. E ciò fa risaltare doppiamente il valore del risultato elettorale greco di oggi;
2)perché, diversamente da ciò che sta avvenendo in Italia con la “cosa rosa” (dove le prospettive di ricostruzione di un partito comunista autonomo con basi di massa si fanno sempre più incerte), nel contesto greco l’avanzata complessiva delle sinistre avviene senza diluizioni o minacce all’autonomia e all’identità dei diversi soggetti che la compongono. Anzi: essa avviene nel quadro di una forte e preminente avanzata di un Partito comunista e rivoluzionario, fortemente ancorato alla classe operaia, con una grande cura per l’organizzazione ed il radicamento nei conflitti sociali, con una forte caratterizzazione anticapitalista e antimperialista, nettamente avverso alla NATO e all’Unione europea, alternativo sia alla destra che al moderatismo di centro-sinistra (che non lascia spazi ad alcun Beppe Grillo in salsa ellenica). Un partito caratterizzato da una linea di opposizione strategica agli attuali assetti di potere, scevro da suggestioni neo-governiste e di alternanza, fortemente impegnato in un difficile processo di ricostruzione di un coordinamento dei partiti comunisti e operai su scala mondiale.
Si tratta di un partito, il KKE, a cui viene sovente rimproverata, da più parti, una sorta di presunta “ortodossia ideologica” (un concetto in sé assai discutibile) la quale, comunque la si voglia valutare (per taluni un punto di forza e di tenuta, per altri un limite da superare), non gli ha comunque impedito di rafforzare il proprio radicamento sociale e politico nel mondo del lavoro e tra la gioventù del suo Paese, e questo proprio in una fase di riflusso.
Un discorso analogo in ambito UE potrebbe essere fatto, dati alla mano, per un altro partito comunista e rivoluzionario, quello portoghese. Mentre assai diverso ci appare il percorso di altri partiti, che storicamente provengono dal filone eurocomunista (in Spagna, in Italia, in Francia) e che nel corso degli anni – in nome dell’innovazione o della mutazione – hanno via via modificato la loro natura antagonista e rivoluzionaria, hanno diluito la proprio identità e autonomia, hanno assunto nel loro patrimonio strategico e identitario tesi governiste e suggestioni derivanti dal patrimonio della socialdemocrazia; e che non solo sono andati incontro a crolli elettorali e indebolimenti drammatici del loro insediamento sociale e politico di classe, ma si trovano addirittura oggi a rischio di dissoluzione o autodissoluzione.
Se proviamo, a distanza di oltre 30 anni dalla breve stagione eurocomunista, a valutare con obbiettività i diversi itinerari che hanno contraddistinto la storia dei cinque maggiori partiti comunisti dell’Europa occidentale (la situazione nell’Europa dell’Est, che in parte comprende anche il caso tedesco, richiede un approccio diverso), un elemento risalta. E cioè che, mentre la vicenda del comunismo italiano, spagnolo e francese degli ultimi decenni è stata complessivamente e prevalentemente segnata dalla crisi, dal declino, in taluni casi dall’auto-dissoluzione, nella vicenda del comunismo greco e portoghese – senza indulgere ad alcun trionfalismo acritico o alla proposizione di modelli – prevale comunque un elemento di tenuta strategica e identitaria, di radicamento sociale e di classe, di tenuta dell’organizzazione, di inequivoca collocazione antimperialista, di tenuta o recupero anche elettorale su livelli (8-10%) che oggi sarebbero considerati invidiabili dai partiti che almeno simbolicamente si richiamano al comunismo negli altri tre paesi citati. (°)
E non direi che la spiegazione fondamentale vada ricercata – oggi – nel diverso grado di sviluppo economico e culturale di questi 5 paesi, come se Francia, Italia e Spagna appartenessero al mondo dell’Europa sviluppata, e Grecia e Portogallo fossero paesi da terzo mondo.
Credo che i processi di integrazione europea e di mondializzazione anche culturale e informatica rendono oggi questi 5 paesi assai meno distanti tra loro di quanto non lo fossero 20 o 30 anni fa.
Credo che un giovane operaio o studente di Atene e di Lisbona sia oggi meno dissimile dal suo omologo di Madrid, Roma o Parigi e che sia soggetto alle dinamiche e alla pressioni politiche e culturali di un moderatismo adattativo e omologante alle logiche di alternanza, in modo sempre più simile a come ciò si manifesta in Spagna, in Francia, in Italia.
Credo pertanto, lo dico senza alcuna presunzione di certezza, che la spiegazione essenziale vada ricercata nel diverso profilo politico, strategico e identitario e nelle diverse capacità di tenuta dei gruppi dirigenti che in questi decenni hanno caratterizzato i partiti comunisti di questi diversi Paesi. Il che, lo ripeto a scanso di equivoci, non significa in alcun modo indicare modelli “unici”, validi in ogni tempo e in ogni luogo.
Credo comunque che vi sia materia per tutti su cui riflettere.
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(°) In Francia il PCF ha ottenuto il 4,9% alle ultime elezioni politiche e oggi una parte significativa del gruppo dirigente prospetta la sua dissoluzione in una nuova formazione di sinistra non comunista, sul modello della Linke tedesca. Va ricordato qui che la Linke ha specificità non esportabili, in quanto è l’espressione di un processo di unificazione di due formazioni politiche non comuniste, di ispirazione dichiaratamente socialista e/o socialdemocratica (come la WASG di Lafontaine e la PDS post-comunista), espressioni per giunta di due entità geo-politiche che fino a poco più di 15 anni fa erano addirittura due Stati appartenenti a due blocchi contrapposti. C’è una coerenza in questa fusione socialdemocratica di sinistra, che però ha poco a che vedere con la problematica della rifondazione di un partito comunista, che è altra cosa.
In Spagna Izquierda Unida, che si definisce eco-socialista, è attestata a fatica attorno al 5%, e una buona metà del suo gruppo dirigente è ostile ad un rilancio del PCE ed ha abbandonato ogni riferimento all’autonomia comunista.
In Italia, se i due partiti che si richiamano simbolicamente al comunismo (PRC e PdCI) dovessero unificarsi e rilanciare un progetto di autonomia e unità comunista in un solo partito, su basi programmatiche avanzate e non subalterne a logiche ultra-governiste e di alternanza, potrebbero ancora oggi presumibilmente contare su un potenziale elettorale attorno al 7-8% (comunque al riparo da eventuali sbarramenti elettorali), che non escluderebbe più ampie intese a sinistra, nella reciproca autonomia, anche con forze di sinistra socialista o di altra natura. Se invece dovessero diluire la propria autonomia e identità in una “cosa rosa” di tipo federativo, dai contorni programmatici e identitari di tipo socialdemocratico, primo passo verso processi di maggiore integrazione-dissoluzione (così come prospettano apertamente la Sinistra Democratica di Mussi ed anche alcuni autorevoli esponenti di Rifondazione e dei Verdi), non solo sparirebbe ogni autonomia comunista, ma non è affatto detto che il saldo sarebbe positivo, anche sul piano strettamente elettorale. Il che non può essere, in ogni caso, l’unico metro di misura di un progetto strategico di lungo periodo.