Dove va la Russia?

Mentre la situazione politica in Russia, dopo la presentazione di una mozione di sfiducia comunista al governo, sembra evolvere verso sviluppi imprevedibili, proponiamo un primo (certo non esaustivo) giudizio sulla stagione inauguratasi con l’ascesa al potere del successore di Eltsin

Se ci limitassimo ad esaminare le politiche economiche e sociali attuate dal regime al potere in Russia, l’anno che è appena passato non sembrerebbe manifestare segni di sostanziale discontinuità rispetto al decennio precedente (1).
Ha affermato Ghennadij Zjuganov, leader del Partito Comunista della Federazione Russa, all’inizio del nuovo anno: “Il 2000 è stato l’anno delle occasioni sprecate per il potere esecutivo…Coloro che hanno depredato e smembrato una grande potenza, continuano in sostanza a determinare le linee di politica economica…Le entrate derivanti dal patrimonio nazionale, in primo luogo dei settori energetico e delle materie prime, vengono divise tra un pugno di famiglie” (2).
L’elenco delle misure adottate, in linea con l’orientamento perseguito nel precedente decennio, è purtroppo assai lungo e indirizzato, almeno per ora, non certo a rafforzare quel poco che ancora resiste del sistema di controllo pubblico e di garanzie sociali, ereditato dal periodo sovietico.
Le linee portanti della politica economica del governo presieduto da Kasjanov sono state illustrate nei mesi scorsi in un documento elaborato, da uno dei “tecnici” dello staff presidenziale, Gref, con la proposizione di una serie di misure, alcune delle quali hanno già ottenuto l’approvazione della Duma.
Ci basti ricordare, del programma di Gref (uomo molto vicino al tristemente famoso e sempre influente Chubajs, membro del “clan” di Eltsin), le proposte concernenti lo smembramento del sistema energetico nazionale, delle ferrovie e di altri monopoli statali, e la decisione riguardante la compravendita della terra (sempre bloccata, in passato, dall’ostruzionismo dei comunisti) che offre, tra l’altro, nuove possibilità all’intervento straniero nell’economia nazionale.
Le misure finora approvate in materia d’energia hanno determinato, in alcuni casi, addirittura la sospensione dell’erogazione dell’elettricità e del riscaldamento, come è successo nell’Estremo Oriente, suscitando violente reazioni popolari, mentre gli aumenti tariffari originati dalla ristrutturazione del sistema ferroviario hanno provocato, soprattutto tra i pendolari, forme di “disobbedienza civile”, che si esprimono, ad esempio, nel rifiuto a pagare i biglietti dei treni (3).
A indicare il segno dell’attuale corso governativo concorre pure la decisione di sospendere il funzionamento di alcuni “ammortizzatori sociali” a favore di categorie particolarmente disagiate (popolazioni dell’estremo nord e della Siberia, vittime di catastrofi naturali e civili, ecc.).
Tra le “raccomandazioni” del programma di Gref c’e anche quella riguardante la privatizzazione del sistema di istruzione, che ha già avuto come effetto la proclamazione di una giornata nazionale di protesta (27 febbraio 2001) da parte di studenti e professori, “contro la liquidazione della scuola pubblica”, iniziativa che ha ricevuto il sostegno attivo del PCFR.
A dare il segno della gravità della situazione sociale c’è il fatto che tale processo di ristrutturazione economica rischia di perfezionarsi in un quadro di ulteriore restringimento dei diritti nei luoghi di produzione, determinato dalla presentazione di un nuovo “Codice del Lavoro”. Il testo della nuova legge, accolto con preoccupazione nel mondo del lavoro, prevede la trasmissione di poteri discrezionali pressochè assoluti alle direzioni aziendali, (ad esempio, in materia di orario di lavoro, si garantisce la possibilità legale per l’imprenditore di esigere una giornata lavorativa di 12 ore) (4).
Appare evidente, in tal modo, l’affermarsi di una linea di tendenza che si pone agli antipodi rispetto agli orientamenti prevalsi, dopo la grave crisi economica dell’agosto ’98, nei pochi mesi del governo Primakov appoggiato esternamente dai comunisti, che sembravano dare il segnale di una vera e propria inversione di rotta nelle scelte che presiedono la direzione dell’economia della Russia “postsocialista”.
A determinare le attuali condizioni possono aver giocato diversi fattori.
Non ultimo tra tali fattori appare la perdita della maggioranza alla Duma da parte dei comunisti e dei loro alleati, in virtù dei meccanismi elettorali e nonostante la complessiva avanzata del partito nelle elezioni politiche del 1999.
Si è venuto così determinando un contesto in cui l’iniziativa dei ministri e consiglieri (Gref, Illarionov, Kudrin, ecc.) del governo attualmente in carica ha avuto relativo buon gioco nel far passare proposte che in passato avrebbero incontrato l’ostilità e l’ostruzionismo degli organi legislativi.
Un altro fattore che emerge con forza è il notevole attivismo mostrato dalle forze più esplicitamente favorevoli a un corso liberista dell’economia – malgrado il loro limitato peso elettorale -, in primo luogo l’”Unione delle forze di destra” (Nemtsov, Chakamada, Gajdar, ecc.), ma anche i “moderati” della “Mela” di Javlinskij, che costituiscono l’”ala marciante” del processo di restaurazione capitalistica in Russia. Tali raggruppamenti hanno dato prova di determinazione e di chiarezza d’intenti – sapendo adattarsi tatticamente al nuovo clima di “risveglio nazionale” e frenando, almeno nelle parole, quegli umori di stupido servilismo verso il modello occidentale, che hanno così irritato in questi anni la maggioranza dell’opinione pubblica -, che hanno fatto da contrappeso, condizionandone i comportamenti in sede parlamentare, alla perdurante assenza di precisi indirizzi programmatici del partito di Putin (“Unità”): questa formazione politica, pur in presenza di alcune contraddizioni (5), si è quasi sempre distinta come un “contenitore” di notabili opportunisti, che hanno legato le loro carriere al corso politico aperto dalla stagione “eltsiniana (6).
Pesa anche gravemente sulle scelte della compagine governativa, il permanente ricatto esercitato dai “poteri forti” dell’economia mondiale, che fanno leva sui livelli raggiunti dall’indebitamento della Russia nei confronti degli organismi finanziari internazionali e dei singoli paesi dell’Occidente. Tali interferenze si sono esplicitate recentemente nei perentori “ultimatum” lanciati, prima dal “Club di Parigi” (che riunisce le 18 nazioni creditrici della Russia), e da Vincenzo Visco, a nome del G-7, che hanno sollecitato il governo russo ad un puntuale adempimento degli obblighi sul debito estero, senza concessione di sconti : tali interventi, che hanno già ricevuto la risposta positiva del ministro delle finanze Kudrin (17 febbraio 2001), agevolano indubbiamente coloro che, nei vertici russi, premono per un’accelerazione delle riforme strutturali (7).
La subalternità dei comportamenti governativi rispetto alle richieste degli ambienti economici e politici occidentali è stata lucidamente evidenziata da G. Zjuganov, nell’intervento da noi prima citato. Afferma Zjuganov: “La politica del governo, per quanto riguarda il debito estero e i condizionamenti che da questo problema derivano alla Russia, rimane poco conseguente…Il potere esecutivo non deve più considerare prioritaria la questione dell’estinzione del debito, nel momento in cui, in sede di approvazione del bilancio, prende decisioni in merito ai programmi sociali ed economici… I nostri responsabili delle finanze devono smetterla di spaventare l’opinione pubblica con le minacce dei creditori, puntando ad accordi sulla ristrutturazione del debito, che porterebbero sicuramente ad un ancora maggiore indebitamento… In condizioni di totale dipendenza finanziaria della Russia dall’Occidente, i possibili fattori di crisi metterebbero il nostro paese in una posizione molto difficile… Purtroppo il nostro governo non è stato ancora capace di varare misure adeguate ad affrontare una situazione di instabilità finanziaria mondiale.”
C’è inoltre, a rendere più agevole il cammino delle iniziative governative, la debolezza della risposta di massa (al contrario di quanto avvenne alla vigilia del mandato di Primakov), accentuata dall’opportunismo delle direzioni sindacali, in gran parte legate al regime. E’ obiettivamente difficile, nella fase attuale, offrire un generale indirizzo di lotta al malessere sociale che investe, in forme drammatiche, decine di milioni di lavoratori, dal momento che vengono abbandonate a sé stesse le iniziative spontanee che si manifestano in diverse realtà dell’immenso paese, dove spesso è il solo Partito comunista a svolgere un ruolo di direzione delle azioni popolari, in virtù dell’egemonia esercitata in molti collettivi di lavoro e dell’intervento di amministrazioni locali “rosse”. Resta il fatto che le iniziative locali, realizzate nel 2000 contro il varo del nuovo “Codice del Lavoro”(sono stati creati una sessantina di comitati di lotta), che hanno mobilitato alcune centinaia di migliaia di lavoratori, non hanno trovato sbocchi in un’iniziativa coordinata nazionalmente.
L’offensiva delle forze liberiste sul fronte dell’economia è affiancata, infine, dal tentativo di assestare colpi ulteriori alla già precaria legalità democratica russa, attraverso la presentazione di ben cinque progetti di legge, elaborati dai partiti di maggioranza e dalla destra di Zhirinovskij e sottoposti all’attenzione del presidente, che si propongono di regolamentare il ruolo dei partiti: il filo unificante di tali proposte (che hanno tutte come premessa la popolare richiesta di frenare la proliferazione dei “partitini” registrati- oggi centinaia ) appare il suggerimento a limitare il ruolo delle formazioni politiche alla sola attività elettorale, con la proibizione del lavoro di massa, a cominciare dall’attività nei luoghi di lavoro e nelle scuole, e dell’esercizio delle iniziative destinate all’autofinanziamento. Si può immaginare quali conseguenze potrebbero derivarne per l’esistenza stessa del PCFR , che rappresenta l’unico vero partito radicato nella società , non ridotto al rango di semplice “club elettorale” e non fruitore di “finanziamenti occulti (8).

Ma quale è stato il ruolo assunto da Putin, di fronte all’iniziativa delle forze liberali? E’ evidente che lo scenario istituzionale, in cui egli si muove, a differenza di quello che si presentava al suo predecessore, gli permette, almeno in una certa misura, di scaricare sul governo l’assunzione di responsabilità diretta nel varo di misure a rischio di impopolarità, evitando il ricorso alla pratica di permanente scontro con il potere legislativo, a cui era stato costretto Eltsin, quando i comunisti e le sinistre disponevano della maggioranza parlamentare.
Le sue posizioni, in materia di politica economica, appaiono tuttora incerte e oscillano tra il generico riferimento al mantenimento del corso delle “riforme”, nell’ambito dell’economia di mercato, e la richiesta di forme di regolazione statale dell’economia e di rilancio dell’apparato produttivo nazionale – da lui invocate durante le campagne elettorali e nel discorso di insediamento di fronte alla Duma (9) – nel solco tracciato, a suo tempo, da Primakov.
In effetti una prima proposta di indirizzo della politica economica, presentata al “Consiglio di Stato”, dal gruppo di lavoro, diretto da uno dei suoi collaboratori, Ishajev, sembrava muoversi in tale direzione, accogliendo molti dei suggerimenti che erano venuti dagli stessi comunisti.
Ma la controffensiva lanciata dal settore, di cui si è fatto portavoce Gref, ha, in pochissimo tempo e attraverso un vero e proprio colpo di mano, cambiato radicalmente, in senso marcatamente liberista, l’impostazione del programma dell’esecutivo, senza che Putin desse l’impressione di volere o avere la possibilità di prendere direttamente in mano la situazione, uscendo dalla vaghezza e dalla genericità dei suoi approcci alle questioni economiche.
Così, mentre di fatto, consegnava la concreta responsabilità delle più impegnative scelte economiche allo “staff” dei ministri e consiglieri di orientamento liberale, il presidente, apparentemente in contraddizione con le linee portanti della politica economica nazionale (sempre più rispondenti alle raccomandazioni del FMI) (10), ha dispiegato la sua personale iniziativa, facendo leva su elementi di richiamo all’orgoglio nazionale e all’affermazione di un ruolo importante della Russia nel contesto mondiale, in particolare sul terreno della politica estera (su cui torneremo più avanti), in cui ha dimostrato un attivismo senza precedenti nella storia della Russia “postsocialista” e in cui si sono manifestate le più significative novità.
Il presidente ha mostrato, come già avvenne durante le campagne elettorali, notevoli doti di “comunicatore”, mantenendosi in piena sintonia con gli umori prevalenti nell’opinione pubblica del paese. Fin dall’inizio del suo mandato, Putin è stato indubbiamente capace di presentarsi al suo popolo, nella veste di garante degli interessi generali del paese, dando sovente l’impressione al “cittadino medio” di sapersi porre “al di sopra delle parti”.
Per la verità gli si deve certamente dare atto di aver evitato toni aspri e di aver dimostrato, almeno sul piano formale, rispetto per il dialogo con tutte le parti politiche, comunque collocate. In tutti questi mesi egli ha saputo abilmente assumere toni interlocutori anche con i comunisti, a cui ha finalmente, e in più di un’occasione, riconosciuto il ruolo di grande e legittimata forza di opposizione. Ed ha anche esplicitamente manifestato l’intenzione (per la verità rimasta tale, come abbiamo visto per il programma economico) di voler tener conto anche di suggerimenti provenienti dagli esperti vicini al Partito Comunista.
C’è certamente da ascrivere a suo favore l’apertura di un fronte di lotta contro l’invadenza di alcuni potentati economici, che avevano costruito la loro fortuna sotto la protezione della cerchia di Eltsin: questi tentativi, particolarmente rivolti contro Gusinskij e Berezovskij, trascinati in vicende giudiziarie, gli sono finora costati l’aperta ostilità di alcuni giornali e reti radiotelevisive “democratiche” controllate da questi signori (manifestatasi in occasione soprattutto di alcune iniziative di politica estera, definite di “stampo sovietico”, oppure attraverso il tentativo di metterlo in difficoltà ai tempi della tragedia del sommergibile “Kursk”), e la levata di scudi, in nome della “libertà di espressione”, di ambienti occidentali ad essi vicini. Questa battaglia, che peraltro potrebbe rispondere a rimescolamenti in atto tra i gruppi dirigenti economici e finanziari del paese (astri nascenti, come Abramovitch, Mamuts , Deripaskas e altri, appaiono all’orizzonte) ed anche ad esigenze di assestamento e razionalizzazione dei nuovi assetti capitalistici, deve comunque fare i conti con i solidi legami che i “magnati” mantengono nel governo e nella cerchia presidenziale: lo stesso Chubajs – l’uomo più screditato del paese, secondo i più recenti sondaggi -, il vero ispiratore del programma economico, in più di un’occasione, ultimamente, si è fatto notare in apparizioni pubbliche insieme a Putin.
Anche sulla questione molto sentita dei “simboli” (inno, bandiera nazionale) Putin ha voluto dar prova di grande equilibrio, sapendo riconoscere gli umori dell’attuale società civile russa, in cui è tuttora viva più che mai la considerazione del ruolo avuto dalla potenza sovietica e del prestigio da essa conquistato nel contesto mondiale, in particolare per il suo contributo decisivo alla vittoria sul nazifascismo. E anche in questo caso il giovane presidente russo è apparso contrapporsi al suo predecessore che aveva giocato, almeno nella fase della sua ascesa, la carta del nazionalismo russo in funzione antisovietica, arrivando a riesumare persino alcuni simboli del collaborazionismo filotedesco.
Tra i nodi ancora irrisolti dal nuovo presidente c’è quello, drammatico, della Cecenia, “cavallo di battaglia” delle sue campagne elettorali. A un primo colpo assestato al terrorismo separatista, che gode dell’appoggio più o meno esplicito dei concorrenti occidentali della Russia, nella gara per il controllo delle risorse energetiche, non ha finora fatto seguito la necessaria politica di stabilizzazione sociale della regione, che passa attraverso il varo di efficaci misure – in grado di stroncare i traffici criminali che danno fiato alle attività del movimento indipendentista – di rivitalizzazione dell’economia locale e di creazione di posti di lavoro.

Abbiamo affermato che è sul terreno della politica estera che è andata prevalentemente dispiegandosi l’iniziativa presidenziale, caratterizzata da un indirizzo di “rottura” rispetto al periodo precedente.
Per cercare di capire gli orientamenti della politica estera di Putin, può essere utile analizzare i contenuti del documento pubblicato nell’estate scorsa, dal titolo “La concezione di politica estera della Federazione Russa”, la cui apparizione è stata accolta con malcelata preoccupazione dalle cancellerie occidentali. A dispetto delle premesse, tese a rassicurare gli interlocutori occidentali circa l’irreversibilità del processo avviato con la svolta del 1991 e sulla piena disponibilità della Russia ad accettare le “regole del gioco” imposte dal “mondo civilizzato”, nel documento si attua una cesura netta con uno analogo apparso in epoca eltsiniana (1993), in cui veniva offerto un quadro sostanzialmente sereno delle relazioni con i partners occidentali, tutori del processo di riforme avviato.
Nel testo, che evita diplomaticamente qualsiasi forzatura polemica nei confronti della politica estera del suo predecessore, si parla comunque della presenza di “tendenze negative”, in virtù delle quali “non si sono realizzate le aspettative legate alla formazione di rapporti nuovi, paritari, reciprocamente convenienti e di partneriato della Russia con il mondo circostante” e nello stesso tempo si indica la necessità, per il paese, di ritrovare un ruolo di grande potenza in un “mondo multipolare”, sviluppando le sue relazioni internazionali, sulla base in primo luogo della valutazione degli interessi nazionali, a partire dalla sicurezza e dalla difesa della sovranità e dell’integrità territoriale.
Questo sforzo di ricerca di un rinnovato prestigio del suo paese nel contesto mondiale sembra spiegare non solo il numero delle visite effettuate all’estero da Putin nell’ultimo anno, ma anche le caratteristiche e le finalità dei suoi viaggi e delle iniziative della diplomazia russa, guidata da quell’Ivanov che già collaborò con Primakov, nell’ambito del dicastero che maggiormente, negli anni scorsi, si distinse per autonomia rispetto alle scelte del gruppo più vicino a Eltsin.
L’aspetto sicuramente più innovativo della politica estera di Putin è rappresentato dalla tendenza manifestata nel corso di tutto il 2000, al ristabilimento di relazioni con i paesi che erano stati alleati o amici dell’URSS, alcuni dei quali stanno attraversando un momento particolarmente conflittuale nelle relazioni con gli USA e i loro alleati occidentali: ci riferiamo in particolare ai cosiddetti “paesi-paria” (per usare una definizione coniata dagli strateghi americani), come l’Iraq, l’Iran, Cuba, la Libia, la Siria, la Corea del nord, ecc.
Enorme significato politico, tra le numerose visite in tali paesi, ha assunto, in particolare, il viaggio, accompagnato da accoglienze calorose, che Putin ha compiuto a Cuba, dove si è incontrato con Fidel Castro. Al di là degli accordi politici ed economici realizzati, non si può certo sottovalutare il contributo fondamentale di questa iniziativa al ristabilimento di quella collaborazione (certo priva di quei connotati ideologici che assumeva ai tempi dell’esistenza di un “campo socialista”), così importante per la sopravvivenza stessa dell’esperienza rivoluzionaria, che, di fatto, venne congelata proditoriamente, ancora prima della fine dell’Unione Sovietica, per iniziativa del gruppo dirigente gorbacioviano.
In sintonia con il rafforzamento delle relazioni bilaterali con i paesi più invisi agli Stati Uniti, sono apparse anche le iniziative assunte da Putin, nel corso del summit dei capi di Stato, tenuto nel settembre del 2000 nella sede dell’ONU (11), quando, nell’auspicare un rafforzamento dell’autorità delle Nazioni Unite, il presidente russo ha condannato con energia l’uso della forza senza autorizzazione del Consiglio di sicurezza, con evidente riferimento alle aggressioni compiute, a più riprese, dagli USA e dai loro alleati della NATO in Iraq e Jugoslavia.
Parallelamente un potente impulso hanno ricevuto le relazioni con le altre potenze asiatiche (Cina e India), che hanno suscitato le speranze dei fautori (tra essi i comunisti) di un blocco eurasiatico, che faccia perno sul cosiddetto “triangolo strategico Mosca- Pechino – Delhi”, che sia in grado di contrastare efficacemente i progetti di “nuovo ordine mondiale” ad egemonia USA, coltivati dall’imperialismo. E ciò a prescindere dal fatto che tale scelta della Russia non abbia i caratteri del passato sovietico, ma derivi semplicemente dal tentativo di Putin di far rifiorire il prestigio della grande potenza, intaccato dalla politica “compradora” del decennio eltsiniano (12).
Assumono così particolare rilievo le “partnerships strategiche” realizzate nel 2000 con Cina e India, che non solo si sostanziano di rilevanti accordi economici e di collaborazioni a livello militare, ma, nel caso della Cina, definiscono una convergenza politica sulla necessità di contrastare l’egemonismo USA, una comune valutazione di diversi aspetti della politica mondiale (ad esempio sulla situazione nei Balcani) e un sostegno reciproco alla difesa dell’integrità territoriale dei due grandi paesi, che si esplicita nel sostegno di Mosca a Pechino sulla questione di Taiwan e, viceversa, in quello di Pechino a Mosca contro il separatismo ceceno.
Il fatto che tali iniziative procedano in modo “indolore”, con l’unanime sostegno di tutto l’attuale gruppo dirigente russo, sembra smentito dalla preoccupazione con la quale gli stessi ambienti, impegnati, sul piano interno, nell’applicazione del programma economico, guardano alle iniziative internazionali del presidente, premendo per un riorientamento della politica estera verso scelte più in linea con gli interessi dell’Occidente (13).
Nel frattempo, occorre dire che non è certamente cessata l’iniziativa nei confronti dei partners occidentali. Anzi, nel 2000 sono state persino ristabilite le relazioni con la NATO, sospese ai tempi dell’aggressione occidentale alla Jugoslavia, attraverso i colloqui che si svolgono nell’ambito del Consiglio “Russia-NATO”, a cui partecipano le alte sfere delle Forze Armate. Ma anche in questa sede di rinnovati rapporti, i rappresentanti russi hanno mantenuto una posizione di forte protagonismo, esprimendo, ad esempio, giudizi estremamente critici rispetto ai piani americani per l’installazione – in palese violazione del trattato ABM del 1972, sottoscritto da USA e URSS – di quel sistema nazionale di difesa missilistica (NMD) a carattere strategico, che, in particolare dopo l’avvento della nuova amministrazione Bush sembrerebbe rappresentare una delle priorità della politica americana: a tale progetto la Russia contrappone un sistema di difesa non strategica europea, nell’assoluto rispetto dei dettati del trattato ABM. C’è da aggiungere, sempre in materia di armamenti spaziali, che nel summit ONU di settembre, lo stesso Putin aveva ripreso l’idea, che fu già formulata da Andropov ai tempi del progetto reaganiano di “guerre stellari”, di organizzare a Mosca una conferenza per la smilitarizzazione del cosmo, proposta accolta, anche oggi come allora, con favore negli ambienti diplomatici “non allineati” e accantonata con fastidio dagli Stati Uniti.
E’ evidente che, in tale contesto di “collisione” con la pretesa americana di esercitare la piena discrezionalità sul piano delle relazioni internazionali, mirando a relegare la Russia ad un ruolo secondario di potenza regionale, diventa di “importanza chiave” la realizzazione di rapporti privilegiati con l’Unione Europea e i singoli paesi che ne fanno parte: le iniziative di Putin in direzione dell’Europa hanno così avuto come obiettivo la ricerca di un rapporto collaborativo privilegiato sul piano economico e di accordi di carattere strategico, con il fine di ridimensionare l’invadenza USA, neutralizzando, tra l’altro, gli effetti più dirompenti dell’allargamento della NATO verso i confini della Federazione: in questo contesto sarà da seguirsi con attenzione l’evolversi dei contatti avviati con i circoli dirigenti dell’UE, per arrivare a un certo coinvolgimento della Russia nei progetti di preparazione di una “Forza di reazione rapida europea”, avendo comunque presente che le prime proposte formulate riserverebbero a Mosca un ruolo certamente secondario e subordinato e avrebbero, di conseguenza provocato numerosi malumori, soprattutto negli ambienti militari.
C’e anche ad incrinare in qualche modo le relazioni con gli interlocutori europei il difficile rapporto con le due importanti organizzazioni continentali, il Consiglio d’Europa e l’OCSE, che si sono distinte per l’interferenza pesante (fino a suggerire forme di vero e proprio boicottaggio, come la privazione del diritto di parola di fronte all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa), esercitata non solo nelle fasi più acute del conflitto ceceno, ma anche di fronte all’atteggiamento russo in altre aree “calde” adiacenti ai confini nazionali (Abchasia, Moldavia): tale posizione è stata interpretata, a tutti i livelli del potere esecutivo e legislativo, a cominciare dallo stesso Putin, come una pesantissima violazione della sovranità nazionale e del diritto della Russia a esercitare il pieno controllo sulla propria sovranità, e ha generato numerosi momenti di tensione con i partners europei.
Il mutamento di prospettiva dell’iniziativa internazionale russa si è riflesso anche nell’ambito della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), la confederazione che raggruppa gran parte dei paesi che componevano l’Unione Sovietica e che, nell’era di Eltsin (che ne fu il principale promotore) si è rivelata poco più che una copertura formale del processo di “balcanizzazione” dell’immensa area geopolitica, seguita alla proclamazione delle spesso fittizie “indipendenze” e della sostanziale disgregazione del preesistente “mercato sovietico”, che ha lasciato il campo a devastanti processi di penetrazione di tipo coloniale da parte delle corporazioni multinazionali.
Ebbene, per tutto il 2000 Putin è sembrato muoversi nella direzione del rafforzamento dei legami e dello sviluppo dei processi di integrazione tra questi paesi: ed è sembrato farlo, dando l’impressione di considerare ormai superato il modello della CSI, quale sede di confronto tra gli stati che ne fanno parte. Secondo alcuni specialisti (14) il presidente russo penserebbe piuttosto a nuove forme di collaborazione, che hanno come modello quell’”Unione di Russia e Bielorussia”, fortemente voluta in questi anni dal leader bielorusso Lukashenko, che potrebbero precedere processi più coraggiosi e incisivi di futura unificazione delle repubbliche ex sovietiche. E’ proprio tra Russia e Bielorussia che, nell’ambito dell’ “Unione”, sono stati conclusi gli accordi più significativi: il 30 novembre 2000 a Minsk si è deciso di creare un unico centro di emissione e sono stati fissati i termini del passaggio alla moneta unica, che dovrebbe perfezionarsi in varie tappe entro il 2008. Tale decisione, che si accompagna ad altre significative, quali l’elezione di un parlamento russo-bielorusso, dovrà comunque fare i conti con l’agguerrita opposizione dell’Occidente e delle “elites” liberali russe, oggi all’offensiva sulle questioni economiche, e di quelle bielorusse, che osteggiano sia l’esperimento di “economia regolata”, dai connotati antimperialisti, oggi propugnato da Lukashenko (leader legittimato da un ampio consenso elettorale in Bielorussia e molto popolare anche in Russia, che rappresenta, dopo la vittoria delle forze filoccidentali in Jugoslavia, il più ostinato oppositore dell’espansione della NATO ad est) (15), che i processi di integrazione nello spazio ex sovietico: sarà interessante verificare il comportamento di Putin di fronte al prevedibile acutizzarsi della situazione in Bielorussia, dove alcuni pensano che si ripeterà lo scenario jugoslavo (16), con il corollario di chiassose campagne ”in difesa dei diritti umani”, a cui potrebbero accodarsi irresponsabilmente (come del resto abbiamo visto prima e durante il colpo di stato in Jugoslavia) anche ambienti della sinistra radicale dell’Europa occidentale.
A favorire tale indirizzo della politica russa verso l’”estero vicino”(così vengono chiamati in Russia i paesi dell’ex URSS), contribuisce anche il riavvicinamento registrato con l’Ucraina, attraverso la realizzazione di importantissimi accordi finanziari e commerciali, favorito anche dal recente accantonamento – dovuto anche al bisogno del presidente ucraino L. Kucma di recuperare un prestigio largamente intaccato dall’esplosione di alcuni gravi scandali – di quel rapporto privilegiato con la NATO, che aveva fatto pensare addirittura ad un imminente ingresso dell’importante stato europeo nell’alleanza atlantica, seguendo l’esempio di altri paesi dell’Europa centro orientale.

NOTE

(1) A un anno esatto dall’elezione a presidente della Federazione Russa di Vladimir Putin sembra ancor difficile, per un osservatore italiano delle vicende internazionali mediamente colto, ricavare sufficienti elementi di chiarezza circa gli orientamenti della politica del nuovo inquilino del Cremlino, dalle scarne analisi sviluppate in Italia (dove imperversano i velenosi commenti di giornalisti, che non è azzardato definire razzisti, come nel caso di Barbara Spinelli).
Per quanto riguarda, poi, la sinistra antagonista, basta dare uno sguardo obiettivo alle pagine della maggior parte dei suoi giornali, per capire l’inadeguatezza degli approcci – che, in alcuni casi, assume persino l’aspetto della rimozione – alla situazione politica creatasi in Russia, dopo l’abbandono del potere da parte di Eltsin. Ciò è in gran parte attribuibile all’inspiegabile scarsa attenzione (indice di un provincialismo che stride fortemente con i rituali inviti a “pensare globalmente”) riservata dai settori più radicali della nostra sinistra all’evoluzione delle vicende politiche di quel grande paese, essenziale nella determinazione degli assetti geopolitici del pianeta, e alla fragilità dei rapporti oggi mantenuti con le opposizioni, comuniste e di sinistra, che realmente contano negli assetti politici e istituzionali russi.
Ci riferiamo, in particolare, alla più importante compagine partitica del paese, per peso elettorale e forza organizzata, il Partito Comunista della Federazione Russa, che è in grado, al momento attuale, di offrire – a chi solo ne avesse la volontà – utili elementi di comprensione dell’attuale realtà russa. Basterebbe seguire il dibattito che appassiona i suoi militanti, che trova espressione sia nei suoi giornali, a cominciare dalla “Pravda”, sia nelle discussioni teoriche di alto livello, come quelle ospitate dalla rivista “Dialog” (nelle cui pagine, negli ultimi anni, hanno scritto diverse centinaia di intellettuali e dirigenti politici russi e stranieri), sia anche nei siti “internet” allestiti dal PCFR (vogliamo segnalare www.gazeta-pravda.ru e www.kprf.ru ).
(2) Ghennadij Zjuganov, “Il 2000 è stato l’anno delle occasioni sprecate per il potere esecutivo”, “Sovetskaja Rossija”,13/1/2001.
(3) Evghenij Spechov, “Episodi di solidarietà popolare”, “Pravda”, 18/1/2001.
(4)”Risoluzione del Comitato Centrale del PCFR sulla riforma della legislazione del lavoro”, “Dialog”, n.2, febbraio 2001.
(5) E’ un esempio di tali contraddizioni la presa di posizione di alcune decine di deputati del partito presidenziale, in occasione delle manovre sul sistema energetico nazionale, che hanno sottoscritto un documento unitario con i parlamentari comunisti ed alcuni di “Patria-Tutta la Russia” (la formazione in cui milita Primakov, anch’egli tra i firmatari), chiedendo la restituzione di questo settore strategico alla proprietà dello stato e dei collettivi di lavoro. “Lettera aperta dei deputati della Duma al presidente Putin”. “Pravda”, 17-18/10/2000.
(6) E’ di un certo interesse riportare quanto dichiarato da Zjuganov a proposito del partito del presidente: “Putin non dispone di un proprio partito; egli sa bene che “Unità” non è assolutamente in grado di svolgere questo ruolo. Questo partito appare come un gruppo di persone che si è raccolto attorno alle poltrone che contano. In ultima analisi il nuovo leader del paese è diventato il primo dirigente russo nella storia del XX secolo, che non ha un proprio programma e una propria ideologia”. Ciò spiegherebbe, in parte, la contraddittorietà degli atteggiamenti del presidente. ”Incontro di Zjuganov con gli attivisti del partito di Mosca”. Sovetskaja Rossija”, 5/10/2000.
(7) Roberta Miraglia, “Lettera di Visco a Mosca: il G-7 non fa sconti sui debiti”, “Il sole-24 ore”, 26/1/2001.
(8)“I partiti del potere hanno bisogno di interlocutori accomodanti”, “Sovetskaja Rossija”, 10/2/2001.
(9) Giampaolo Caselli, Gabriele Pastrello, “Continuità o svolta?”, “La rivista del Manifesto”, numero 4, marzo 2000.
(10) Anche in questo caso può essere interessante riportare il netto giudizio espresso dal leader comunista russo, dopo le decisioni governative in merito a istruzione pubblica e politica agraria: “…Il corso attuale è pericoloso e distruttivo per l’intero paese. Se in precedenza è stato svenduto il corpo del paese, oggi ne viene addirittura estirpata l’anima: si è avviata la distruzione della lingua, della cultura, del patrimonio spirituale, delle foreste, della natura e della terra. Tutto ciò rappresenta un colpo ancora più terribile della stessa banditesca privatizzazione operata da Chubajs”. Ghennadij Zjuganov, “Il Partito comunista eserciterà una durissima, assolutamente inconciliabile opposizione”, “Sovetskaja Rossija”, 17/2/2001.
(11)Sulla partecipazione di Putin al summit dell’ONU, Vasilij Safronciuk, “Una nuova politica estera per la Russia?”, “L’Ernesto”, n. 5/2000.
(12)Sul “ triangolo Mosca-Pechino-Delhi”, Aleksandr Yakovlev, “Russia, Cina e India: il triangolo strategico dell’Eurasia”, “L’Ernesto”, n. 2/1999.
(13) A dare l’idea di una relativa “solitudine” del presidente, nell’ambito della propria cerchia, contribuisce l’atteggiamento freddo della grande stampa e le prese di posizione di autorevoli dirigenti di orientamento liberale. Ad esempio V. Lukin, vice speaker della Duma e dirigente del partito “Mela” ha significativamente affermato, in aperta contraddizione con le iniziative di Putin: “Non dobbiamo fare fuochi d’artificio, ma risolvere i problemi principali, aprendo agli investimenti occidentali e accedendo alle alte tecnologie. Ma ciò è possibile solo se dimostriamo all’Occidente che la stabilità politica della Russia poggia su basi democratiche”. “Sevodnja”, 28/12/2000.
(14) Vasilij Safronciuk, “Cambiamento o manovre?”, “Sovetskaja Rossija”, 30/12/2000.
(15) Aleksandr Lukashenko, “Il caso Bielorussia: intervento alla Duma della Federazione Russa”, “L’Ernesto”, numero 1/2000.
(16) Giulietto Chiesa, “A Minsk! A Minsk!”, “La Stampa”, 10/10/2000.