Dollaro versus Euro

Dal 1992,i governi ed il capitale finanziario europei hanno piegato l’economia e la società all’obiettivo della moneta unica.
Sull’altare dell’unione monetaria sono state sacrificate non solo le conquiste sociali dei lavoratori (welfare state, salari dignitosi etc.) ma anche strumenti di tenuta delle economie dei vari stati come la sovranità nazionale sulla moneta. L’euforia e la retorica sull’unione monetaria europea è durata pochi mesi.
Qualcuno, come questo giornale, aveva indicato già nel pieno coinvolgimento dell’Europa nell’aggressione alla Jugoslavia, un segnale d’allarme che andava colto. L’andamento del tasso di cambio tra euro e dollaro ha scandito quasi visivamente l’andamento del conflitto: ad ogni fase di escalation militare il dollaro si rafforzava sull’euro, ad ogni spiraglio di tregua l’euro recuperava sul dollaro.
Per mesi, la Banca Centrale Europea e i governi nazionali ad essa subalterni, non si sono discostati di un millimetro dai dogmi monetaristi (lasciando degradare salari, consumi, investimenti) perché affidavano all’euro la capacità di attrarre capitali in Europa.
La grande operazione dell’euro prevedeva l’afflusso di almeno 1.000 mld. di dollari nell’area europea. Un afflusso di tali dimensioni avrebbe bilanciato la stagnazione della domanda interna e dell’export, avrebbe trasformato Eurolandia nella prima piazza finanziaria del mondo e l’avrebbe dotata di una valuta capace di imporsi nelle transazioni internazionali.
Paesi come l’Iraq o Cuba, ma soprattutto i paesi dell’Europa dell’Est, non hanno fatto mistero della loro intenzione di stabilire la convertibilità delle loro monete con l’euro o di quotare il loro petrolio non più in dollari ma con la moneta europea.
Ed invece con il dollaro forte sono stati ben 205 miliardi di dollari di capitali europei (di cui 37 dalla sola Gran Bretagna) a prendere la strada degli Stati Uniti a partire dalla primavera del 1999 (guarda caso proprio in occasione della crisi e della guerra contro la Jugoslavia), dagli Usa invece sono arrivati nell’area euro solo 3 mld di dollari di investimenti mentre ben 29 hanno preso la strada della Gran Bretagna (quindi al di fuori dell’area euro).
La centralità del dollaro nel controllo dei flussi finanziari resta il carattere prevalente del sistema che regge l’economia mondiale. Questa centralità è destinata a competere con il polo europeo che fa riferimento all’Euro, ed eventualmente a cedere spazio ad un sistema bipolare, dove gli Stati Uniti e l’Europa dovranno trovare un nuovo punto di equilibrio. Ma gli Usa non sembrano disposti a perdere questa centralità senza combattere aspramente ed a tutto campo.
Nel recente libro-inchiesta Eurobang curato da Luciano Vasapollo e Rita Martufi, abbiamo cercato di documentare sistematicamente il processo che sta portando alla competizione aperta Stati Uniti e polo europeo.

Tre aree monetarie

La ripartizione del mondo in tre aree monetarie sembrerebbe lo scenario che si va delineando. La scelta di deregolamentare i mercati finanziari sta producendo – oltre i crack finanziari come quelli dell’Europa nel ‘92, del Messico nel ‘95, dell’Asia nel ‘97, della Russia nel ‘98 – una aspra competizione per mantenere il peso del dollaro nell’economia internazionale.
La stessa dollarizzazione dell’America Latina (vedi Ecuador, Argentina, Messico) è un aspetto ben visibile di questa competizione. Ma un Euro troppo debole presenta degli inconvenienti anche per gli Stati Uniti. Esso infatti consentirebbe alle esportazioni europee di dilagare nelle altre economie forti, in modo particolare quella statunitense e quella giapponese o in quelle emergenti come la Cina. Gli Stati Uniti hanno infatti una pessima bilancia commerciale dovuta all’elevata quota di importazioni dall’estero e ad una sistematica diminuzione dell’export Usa causata dal dollaro forte. L’afflusso di capitali esteri dovuto proprio al dollaro forte permette però di finanziare ancora questo deficit commerciale.
Il saldo commerciale dell’Unione Europea è diventato largamente in attivo verso gli Usa nel settore manifatturiero, un po’ meno nel settore dei servizi.
Ciò spiega perché a fine settembre le banche centrali europea, giapponese ed anche la FED americana sono intervenute a sostegno di un euro che rischiava di diventare troppo debole nel rapporto di cambio con il dollaro.
In tale contesto, il mix di misure protezionistiche, guerre commerciali e blitz contro la stabilità europea, sono parte integrante di questa guerra degli Usa contro l’Unione Europea. L’entrata in vigore dell’Euro parrebbe dunque destinata a pesare in modo decisivo nelle relazioni internazionali dell’epoca post-bipolare. Ma questa prospettiva sembra aver innescato sia quella discordia interna ai paesi europei (vedi Gran Bretagna e paesi scandinavi) che quella guerra tra Europa e Stati Uniti (vedi lo scontro Euro-Dollaro e l’escalation del petrolio) annunciati due anni fa dall’economista statunitense Martin Feldstein.
In un saggio pubblicato da Foreign Affairs , Feldstein affermava nero su bianco che l’introduzione dell’Euro avrebbe portato alla discordia e alla guerra tra gli stessi paesi europei e tra paesi europei e Stati Uniti. Intervistato dal più importante quotidiano economico italiano, Feldstein ribadiva la sua inquietante tesi lasciando nelle ambasce il suo interlocutore. “Sono convinto che il pericolo di una guerra aumenti, invece di diminuire, con l’introduzione dell’Unione Economica Monetaria. E per questo raccomando fin da ora il governo americano di modificare l’intera impostazione della politica estera in previsione di gravi destabilizzazioni e confronti con l’Europa”. Alla luce di quanto sta accadendo in questi mesi, la competizione tra l’area del dollaro e quella dell’euro sembra destinata a condizionare pesantemente le relazioni internazionali. Ma questo non ha delle conseguenze esclusivamente macro-economiche, ha conseguenze anche politiche e sociali di cui dovremo cominciare a tenere seriamente conto.