Da molti mesi insisto nel dire che siamo in presenza di un disagio sociale crescente, di politiche, soprattutto messe in campo dal Governo, che tendono ad accentuare risposte e forme di conflitto rilevante.
Se prendiamo in esame i casi più recenti in cui si è esercitata una forte conflittualità, che in molti casi è andata oltre le regole della legge, o delle consuetudini delle forme di lotta del sindacato, come la vertenza del rinnovo contrattuale dei lavoratori del trasporto pubblico locale, la questione dell’Alitalia, la vicenda di Melfi, su un altro versante la lotta di Scanzano, si avverte il bisogno di leggere bene i segni, i tratti e i paradossi di questi fenomeni. Da un lato questi processi conflittuali esprimono e mantengono un forte segno identitario, di aziende, di professioni, di territori, e in quest’ultimo caso con accenti comunitari, in parte inediti.
Più si nasconde il lavoro, il suo valore, la sua dimensione concreta e quotidiana, fino a negarla o a trasfigurarla in una rappresentazione puramente virtuale e immaginifica, più la sua identità reale è costretta ad esprimersi col conflitto dimostrativo.
Da un altro lato queste lotte contengono una forte domanda di partecipazione e democrazia. Si lotta per affermare il dirittoa decidere, a contare nelle scelte. In questo esprimono una carica che si contrappone alla riduzione del processo della mediazione democratica e del ruolo dei soggetti di rappresentanza sociale.
Per sentirsi meno oggetti e più persone, lavoratori nella pienezza dei diritti, il conflitto viene scelto come via risolutiva.
Infine, il paradosso più evidente.
Quello per cui si lotta anche in maniera estrema ha un contenuto tradizionale e tipicamente sindacale: parità di salario a parità di lavoro, turni meno massacranti, la richiesta di rispetto e dignità, l’attuazione delle regole contrattuali, la possibilità di decidere come istituzione locale, il rifiuto di pagare sempre per responsabilità dei Governi e delle imprese, la difesa dell’occupazione.
Richieste “normali” che richiedono scelte di lotta “radicali”, e che sono il fattore del consenso sociale che questi episodi hanno avuto, al di là delle persone interessate.
Se questo è il paradosso a cui si arriva per responsabilità delle intenzioni e delle scelte del Governo, con noi dovrebbero interrogarsi le imprese, che dovrebbero essere interessate, nelle aree non dipendenti da scelte di terzi, e soprattutto del Governo, ad intervenire prima che i fatti esplodano e a scegliere una modalità di soluzione dei problemi più utile ed intelligente anche per loro.
Spero che la nuova Confindustria abbia l’attenzione giusta a questo aspetto, e la forza di segnare anche qui il cambiamento necessario.
Voglio solo aggiungere che se oggi possiamo avanzare questo ragionamento, è perché le importanti vertenze che erano aperte le abbiamo sapute indirizzare e risolvere con risultati positivi.
E il Governo? Il Governo è diviso sulle scelte da fare. Abbiamo un ministro del Lavoro quale non ci è mai capitato di vedere: io capisco che un governo di centro destra abbia un idea del lavoro un po’ diversa dalla nostra. Ma s’è mai visto un ministro del Lavoro che quando c’è una vertenza non solo non fa niente per risolverla ma anzi fa di tutto per aggravarla, come è avvenuto per Melfi, come è avvenuto per Alitalia, come avviene per le altre vertenze? S’è mai visto un sottosegretario che, invece di dire “risolviamo i contratti”, auspica e chiede che la polizia intervenga per fermare i lavoratori? Quello stesso sottosegretario che mi ha rimproverato perché ho difeso la battaglia di Melfi e che dovrebbe invece interrogarsi su quello che ha detto lui su di noi. Aveva scommesso che avremmo perso e ci saremmo divisi. E invece abbiamo vinto e siamo uniti.
La vertenza di Melfi può essere quindi davvero considerata come una svolta dal grande valore simbolico e paradigmatico.
Un settore in crisi, un’organizzazione del lavoro penalizzante per i lavoratori, una condizione del lavoro insostenibile, un paternalismo unilaterale fatto di sanzioni e richiami disciplinari, una classe di lavoratori mediamente giovani che si riappropria di una richiesta di cambiamento, una lotta dura e lunga per rimuovere il rifiuto a trattare, la modifica delle forme di lotta, la trattativa e infine l’accordo gestito unitariamente dalle Rsu e validato dal voto di tutti i lavoratori con una percentuale di sì assai significativa.
Un percorso gestito con coraggio dalla Fiom e dalle nostre strutture locali, e concluso unitariamente da tutto il sindacato.
Se siamo oggi tutti più forti, lo dobbiamo a questi lavoratori, e dobbiamo sapere che gli effetti di questo risultato peseranno anche al di là di quanto oggi ognuno di noi è in grado di prevedere.
Se si riflette sulla realtà concreta di quello che avviene giorno dopo giorno nei luoghi di lavoro, nelle categorie quando rinnovano i loro contratti, o nella gestione di vertenze, forse è possibile immaginare qualche passo di avanzamento della nostra ricerca comune.
D’altra parte non ha senso limitare soltanto al settore pubblico una verifica democratica della rappresentatività che abbia un valore generale. Sono passati cinque anni dalla morte di Massimo D’Antona: fra gli ultimi atti del suo lavoro c’era proprio quello teso ad estendere al comparto del trasporto le norme contenute nella legislazione per il pubblico impiego. Si può immaginare un mondo del lavoro dove esistano su questa, che è una questione generale, una presenza di regole che ha dimostrato di funzionare per una parte e un’assenza totale di regole per l’altra?
E anche sulla democrazia di mandato, sui percorsi per validare da parte dei lavoratori piattaforme e accordi, in realtà, al di là delle distinzioni, molti passi in avanti si sono fatti.
Nella stessa categoria dei metalmeccanici è aperta una discussione che potrebbe essere particolarmente importante nella gestione degli accordi di secondo livello e nella possibilità di definire, anche attraverso questa strada, una piattaforma unitaria per il rinnovo del biennio economico del contratto.
Il valore – tra i tanti che si possono leggere – della vertenza di Melfi risiede anche nell’esercizio delle regole democratiche, per validare piattaforme e accordi, e dare forza per questa via al rapporto fra sindacato, Rsu e lavoratori.