Dalle lotte di massa il cambiamento

La straordinaria riuscita dello sciopero generale unitario di quattro ore venerdì 24 ottobre sta a confermare il distacco che c’è nel Paese (come dicono i sondaggi, la maggioranza dei cittadini è contraria ai provvedimenti del governo) fra le politiche sbagliate del governo e le domande dei cittadini. La forza, la partecipazione e l’unitarietà delle manifestazioni ci dicono che il sindacato ha ritrovato centralità e forza per chiedere con più forza al governo la modifica radicale delle sue scelte. Ma soprattutto il Paese è stato di nuovo attraversato da un senso di fiducia nei confronti della possibilità dell’agire individuale e collettivo per il cambiamento, la trasformazione e le riforme.
Per questo è importante che la mobilitazione continui e cresca, a partire dai temi del mezzogiorno per arrivare a quello della difesa e valorizzazione dello stato sociale. Sviluppo economico e diritti sociali rappresenteranno il cuore dell’azione del sindacato, delle sue nuove iniziative e delle mobilitazioni delle prossime settimane.
Le proposte del sindacato sono in campo, ne daremo un profilo alto e riformatore, e con questo tutti dovranno fare i conti.

La situazione economica e sociale di questo autunno conferma, da un lato, la profondità della crisi economica e, dall’altro, l’inadeguatezza del governo a farvi fronte. Quello che più mi colpisce, giorno dopo giorno, non sono tanto i dati che confermano le nostre analisi e le nostre preoccupazioni – e non è neanche l’ampiezza del ciclo negativo che ormai si dispiega da 24 mesi –, ma è l’emergere, dentro la grande questione del rischio di declino, di un passaggio che, con queste modalità e con questa forza, il nostro paese raramente aveva vissuto, e cioè la presenza contemporanea, in questa fase, di una riduzione dei consumi, di un calo della produttività e di un calo degli investimenti.
Si tratta di un processo che non trova molti riscontri nel nostro passato, nel quale ci sono state fasi di recessione, accompagnate però da una tenuta dei consumi, soprattutto quando c’erano margini di spesa pubblica e politiche che sostenevano la domanda dei consumi. Così come ci sono state situazioni di crisi e di recessione nelle quali però, accanto a una riduzione della capacità produttiva, si generava contemporaneamente un aumento della produttività. Il fatto che in questa fase ci sia contemporaneamente calo di consumi, di produttività e di investimenti, ci porta a una lettura molto inquietante della nostra situazione. Non solo per il presente, ovviamente, perché, quando si deve far fronte contemporaneamente a queste tre negatività, diventa più difficile fare politiche anticicliche. Ma soprattutto se pensiamo al futuro, perché è evidente che il calo degli investimenti e della produttività opera come un fattore di freno nei confronti della possibilità, da parte del nostro paese, di cogliere la ripresa internazionale, quando si presenterà. E siccome la distanza tra noi e gli altri paesi (in questo caso quelli europei) si sviluppa soprattutto quando l’economia tende a ripartire – ce lo dicono le serie economiche storiche –, di fronte a una ripresa della domanda internazionale, che sarà ovviamente trainata ancora una volta da quella degli Stati Uniti, anche una ripresa della domanda europea potrebbe non comportare automaticamente per il nostro paese un tasso di sviluppo accettabile.
Questo dato diventa particolarmente inquietante perché, a questa particolarità della nostra situazione, si aggiunge un’inadeguatezza da parte del nostro governo nel farvi fronte che è davvero sorprendente. Se guardiamo fuori dai nostri confini, tutti i paesi si stanno interrogando (e stanno operando) per provare a uscire il più rapidamente possibile dalla crisi. Negli Stati Uniti d’America, ad esempio, la spesa in difesa è arrivata a essere pari a circa un terzo del nostro Pil, solo per dare la dimensione del surplus di domanda pubblica orientata in questi settori, vista la loro capacità di traino sul resto della domanda. Iniziative analoghe, ovviamente ciascuna con le sue peculiarità, avvengono anche in Europa.
Ma mentre gli altri paesi cercano di fare sforzi sul terreno dell’offerta, da noi avviene esattamente il contrario. Le nostre imprese e i nostri settori sono lasciati sostanzialmente a se stessi. Dove esistono responsabilità di orientamento di politica industriale, non sempre si fanno le scelte più appropriate; dove si può costruire qualche politica di “campione nazionale”, la si lascia cadere. E il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: basti pensare all’auto, alla chimica, alla farmaceutica, al tessile-abbigliamento-calzaturiero, all’informatica, all’aerospaziale, alla navalmeccanica, alle telecomunicazioni o al trasporto aereo (e non cito questi settori a caso): in ognuno di essi, dove più dove meno, manca totalmente una volontà di politica industriale capace di sostenere la qualificazione di prodotto o la politica di sistema necessarie per sostenere una competizione internazionale che giorno dopo giorno si fa più difficile.
E questo non solo per la concorrenza da parte dei nuovi produttori asiatici – la Cina, l’India – di cui parla il ministro Tremonti. No, la vera partita continuiamo a giocarla, e a perderla, proprio con i paesi più sviluppati. Negli ultimi tre anni, 1999-2002, mentre da noi le importazioni crescevano a un ritmo doppio a quello delle esportazioni, negli altri paesi più sviluppati (con l’eccezione degli Stati Uniti che hanno però una situazione tutta loro) il trend era assai diverso. Questo vuol dire che c’è una questione specifica di rilievo che riguarda il nostro paese.
Abbiamo già segnalato, nel documento che abbiamo fatto con Confindustria a giugno, quali siano i problemi che segnano la vera questione di competitività del nostro sistema produttivo infrastrutturale e indicato anche delle possibili soluzioni.
La legge finanziaria ha bellamente ignorato quel documento: le risorse che mette in campo sono praticamente inesistenti – perché di quei 5 miliardi di euro che sono messi sotto la voce “sviluppo”, quasi tre quarti non hanno niente a che fare, né direttamente né indirettamente, con politiche di sviluppo e di investimenti –; e, attraverso una politica indiretta di tagli, si finisce per penalizzare domanda e investimenti. Per il Mezzogiorno non è prevista in Finanziaria nessuna risorsa aggiuntiva. Per le infrastrutture c’è poco o niente. Senza approfondire quello che la Finanziaria determina in materia di scuola, di ricerca e di formazione. Questa è una Finanziaria che si limita a un’azione di galleggiamento, senza intervenire sui fattori di qualità necessari per affrontare la crisi strutturale del nostro sistema produttivo.
Anche dal punto di vista del welfare il giudizio sulla Finanziaria è negativo: tagli alla scuola e a tutto il ciclo della formazione; tagli agli enti locali; tagli su base territoriale alla sanità; assenza di risposte ai temi posti dalle politiche d’integrazione e di assistenza; e per ultimo, paradigmatico di tutto il resto, l’intervento sul sistema previdenziale. Che il governo ha fatto perché – come ha detto Tremonti – senza l’intervento sulle pensioni non ci sarebbe stata la legge finanziaria. Questa è la verità: l’intervento si è reso necessario per provare ad avere da Bruxelles il via libera a una Finanziaria fatta di una tantum, di condoni, di cartolarizzazioni e di politiche di rientro dal deficit particolarmente creative.
Se questo punto di partenza è vero – e lo è – è evidente il giudizio che ne deriva: si interviene in maniera maldestra, pesante, immotivata sulla riforma Dini per garantire alle politiche di questo governo di continuare a svolgersi con le modalità e con le scelte di sempre. Si scaricano sui lavoratori, in modo particolare su alcune classi generazionali, e sull’equilibrio e sulla solidarietà del sistema, responsabilità che attengono alle scelte sbagliate di politica economica, fiscale e finanziaria del governo.
Il tutto sostenuto da un’impostazione che viene confermata, quella sulla decontribuzione che continua a essere, ancora oggi, la più grave, perché mina nella sostanza e nel cuore il ruolo pubblico del sistema previdenziale: se si può non considerare fondamentale l’equilibrio tra prestazioni e contribuzione, si opera una deresponsabilizzazione che, spinta alle sue estreme conseguenze, fa saltare qualsiasi fondamento di una logica previdenziale, sia col sistema contributivo, sia col sistema a ripartizione, sia col sistema misto.
Questa riforma e le sue modalità hanno messo in rilievo l’assenza di qualsiasi lealtà di rapporto con il sindacato: mesi e mesi in attesa di una risposta, mesi e mesi di una discussione interna al governo, mesi e mesi in cui una parte del governo ha negato qualsiasi intervento legato alle modalità delle prestazioni. Ma ciò non avviene per caso. Come avevamo previsto, anche se non pensavamo a tempi così rapidi, le contraddizioni dell’agire del governo, le sue difficoltà, le sue divisioni interne, l’assenza di una capacità di governare una crisi economica così protratta nel tempo, tutto ciò porta il governo a un’operazione di semplificazione delle procedure di decisione.
Molti hanno sottolineato come il governo tenda a spostarsi su un terreno di decisionismo, di plebiscitarismo, di ricerca di un rapporto diretto con i cittadini, di riduzione e di semplificazione della dialettica democratica. Una novità che vale anche per quanto riguarda il rapporto con gli enti locali, perché, a differenza degli anni passati, Comuni e Regioni, che pienamente concorrono a fondare la Repubblica insieme allo Stato nazionale, non hanno avuto nei fatti, così come il sindacato o le altre parti sociali, nessuna vera interlocuzione con il governo.
Cgil, Cisl e Uil hanno risposto compattamente a questa svolta. Il governo tende a minimizzare la portata della nostra lotta, a considerarla quasi un rituale, finito il quale tutto ricomincia come prima: ci si siede a un tavolo e si trova un accordo (e magari si riproducono tra i sindacati le divisioni di un anno e mezzo fa). Si sbaglia. Cgil, Cisl e Uil non si siederanno a nessun tavolo, se prima la controriforma non verrà ritirata. E siamo intenzionati a continuare nella mobilitazione tutto il tempo che sarà necessario.
Questa nuova fase unitaria che si è aperta fa bene agli interessi e alle politiche dei lavoratori, perché contrasta politiche sbagliate come quelle messe in campo dal governo. Per la Cgil è una fase importante, che abbiamo contribuito a costruire con il nostro impegno e le nostre scelte dei mesi passati, con il nostro stare sempre al merito delle questioni. Il governo proverà a dividerci, del resto ci sta già provando. Io credo che il modo migliore di procedere sia quello di lavorare su questo asse strategico: ricercare il massimo di convergenze possibili, e insieme cercare di tenere fermo come sempre il primato del merito.
Infine c’è il tema dell’informazione pubblica. Alle organizzazioni sindacali è stato negato di dire in televisione le ragioni della protesta con gli stessi criteri del governo, che si è letteralmente appropriato della Rai. C’è un evidente problema di concentrazione, di monopolio, di riduzione del pluralismo nel campo informativo. E dispiace vedere che chi dovrebbe, come la Rai, essere l’alfiere del pluralismo, la garanzia attraverso la sua funzione di servizio pubblico del rispetto di tutte le opinioni, non sempre è all’altezza di questo compito. Ma noi sappiamo che la forza delle piazze italiane indica anche un ragionevole attestato di fiducia anche nella possibilità di cambiare, anche da questo punto di vista, la situazione del Paese.