Dalla vittoria del Vietnam una spinta antimperialista

Vietnam, 30 aprile 1975. Al levar del sole quattro colonne corazzate si mettono in marcia per sferrare da quattro direzioni l’attacco decisivo a Saigon, la capitale sudvietnamita. I cento blindati della brigata “203” attestati a Ho Nai hanno ricevuto l’ordine dal comando mobile di Bien Hoa dell’armata popolare di conquistare il “grande ponte di Saigon”, poi di dividersi in due tronconi e di marciare a tutto gas verso il palazzo presidenziale, ultima roccaforte nemica in centro città.

E’ da poco passato mezzogiorno quando il carro “843”, un T 54 di fabbricazione sovietica, ancora coperto da uno strato mimetico di foglie di cocco, comandato dal capocarro Bui Quang Tanh, sfonda il cancello del palazzo presidenziale di Doc Lap e accoglie la resa degli ultimi combattenti dell’esercito mercenario sudista ormai sconfitto e abbandonato dai generali del Pentagono.

La disfatta militare è completa, la fuga degli americani caotica e umiliante. Memorabili le immagini dei marines e dei loro collaborazionisti che si agrappano disperatamente agli elicotteri in fuga dal tetto dell’ambasciata americana. La guerra dei trent’anni è finita ma non le sue inaudite sofferenze: per altri 18 lunghissimi anni (di questi ultimi 25) il Vietnam è vissuto nel più completo isolamento, stritolato dalla morsa di un embargo micidiale che, ha aggiunto molte altre vittime ai due milioni massacrati durante la guerra, morti per fame e malattie di ogni genere, anche le più banali, che noi curiamo solitamente con qualche aspirina. Per non parlare dei danni enormi provocati dalla diossina sprigionata dai defolianti sparsi a tonnellate sulla giungla indocinese. Una feroce punizione supplementare consumata lontano dagli occhi indiscreti delle telecamere. Il prezzo della vendetta fatto pagare dagli Stati Uniti al popolo di straccioni che aveva osato sfidare e vincere la più grande potenza militare della storia.

Ma anche questa durissima prova è stata superata.

Prima la Francia, poi il Giappone, ancora la Francia e infine gli Stati Uniti: come ha potuto un piccolo paese, tra i più poveri ed arretrati del sud-est asiatico, reggere cosi a lungo una sfida di quella portata contro tre delle maggiori potenze imperialiste del pianeta ?

Senza trascurare i fattori storici oggettivi (117 anni di continue insurrezioni hanno sicuramente concorso a formare una forte volontà popolare di resistenza contro gli invasori), determinante è stato la creazione, negli anni ‘30, di un forte partito comunista e di un suo gruppo dirigente cresciuto nell’alveo ideale e politico della III Internazionale con alla testa un leader di grande levatura teorica come Ho Ci Minh, che ha saputo plasmare il movimento di liberazione fondendo l’esigenza di una trasformazione rivoluzionaria del Vietnam con le specifiche peculiarità di un paese contadino arretrato, e nel quadro di una politica di alleanze lungimirante. Un percorso segnato da una forte identità nazionale che, pur mantenendo alto il senso di appartenenza al movimento comunista internazionale, non ha mai rinunciato alla sua autonomia critica pesando non poco, negli anni ‘60, sulle correzioni di rotta del movimento comunista mondiale costretto a prendere atto dai nuovi eventi (Vietnam, Algeria, Cuba) che lo schema rigido della coesistenza pacifica a gestione bipolare non era più compatibile con la nuova articolazione offensiva dei movimenti antimperialisti e anticoloniali nei paesi del terzo mondo. La contraddizione divenne evidente nel 1964 quando, dopo la provocazione USA nel Golfo del Tonchino, il Vietnam si trovò di fronte al bivio più drammatico della sua storia: decidere cioè se rinunciare alla liberazione completa del paese piegandosi, come chiedeva Krusciov, alle regole della gestione bipolare, che escludeva la modifica degli equilibri planetari concordati dalle due grandi potenze, oppure, pur consapevole dei rischi che una tale sfida comportava, assumersi la responsabilità di compiere una scelta nettamente trasgressiva rispetto all’ordine mondiale di quel tempo.

Evitando nel contempo che nello scontro aspro e lacerante apertosi nel comitato centrale del PC vietnamita prevalessero i gruppi legati a Mosca o a Pechino. Il capolavoro politico di Ho Ci Minh fu quello di riuscire, con una politica di rigorosa equidistanza dai due giganti del comunismo mondiale, URSS e Cina, in conflitto tra loro, ad ottenere il sostegno politico e militare di entrambi, in una guerra di liberazione che nessuno dei due inizialmente caldeggiava. E’ bene aggiungere anche che senza quel sostegno, che divenne sempre più aperto e generoso, unitamente a quello di tutto il campo socialista e del movimento comunista mondiale, il Vietnam da solo non ce l’avrebbe fatta nè avrebbe potuto diventare il paese trainante di una eroica lotta antimperialista che ha alimentato gli ideali, la fiducia e la speranza, non solo dei movimenti di liberazione, ma anche quella degli operai e degli studenti protagonisti, in questa parte del mondo, dei grandi movimenti sociali e politici degli anni ‘60/’70. con buona pace di chi vorrebbe sotterrare con infamia l’esperienza storica del comunismo novecentesco. Quanto abbia inciso il Vietnam sugli equilibri politici mondiali nella seconda metà del novecento lo si può cogliere dalle parole di Ernesto Che Guevara pronunciate davanti alla seconda Conferenza di Algeri dei paesi non allineati, quando invitò i movimenti di liberazione ad aprire focolai di resistenza antimperialista in altre parti del mondo (….due, tre, cento Vietnam). In quel passaggio venne espresso il significato storico dirompente della rivoluzione vietnamita, la sua proiezione su scala planetaria, nel momento in cui la crisi irreversibile del vecchio mondo della dominazione coloniale sembrava ormai giunto al capolinea. Un ottimismo forse eccessivo, che poi sarebbe stato attenuato da avvenimenti successivi, ma che nulla toglie alla dinamica positiva di quella stagione politica.

Il risultato politicamente più rilevante fu quello di avere provocato in casa del nemico una crisi sociale e politica profonda. Appartengono alla storia di quegli anni le esplosioni antirazziste nei ghetti neri delle metropoli americane, la nascita delle Pantere Nere, le ribellioni di massa nei campus universitari, il dilagare delle diserzioni dalle chiamate di leva, l’affermarsi del pacifismo come nuova frontiera della cultura americana. Lo shok della sconfitta ha provocato sensi di colpa e laceranti divisioni in un paese abituato a vincere qualsiasi competizione, mai a perderle. L’America puritana e imperialista non ha mai perdonato ai suoi soldati superarmati, supernutriti e superpagati, l’onta della sconfitta e la perdita del mito dell’invincibilità ad opera di un esercito di contadini poverissimi del terzo mondo. Nella sua coscienza collettiva si è insinuata una sorta di sindrome vietnamita difficile da rimuovere e ancora percepibile ogni qualvolta che al Pentagono si pone il dilemma se iniziare, oppure no, operazioni militari via terra, come è avvenuto contro la Jugoslavia.

Di segno ovviamente opposto le risposte dall’America democratica e “radical” che, sebbene minoritaria, si è impegnata in tutti i modi possibili per contrastare e denunciare una delle pagine piu infami della storia politica e militare degli Stati Uniti d’America. Uno dei risultati più significativi ottenuti è stato quando, vent’anni dopo la fine della guerra, si sono incontrati ad Hanoi il generale Giap, stratega e vincitore della guerra di popolo, e Robert McNamara braccio destro del presidente J.F. Kennedy, iniziatore della guerra contro il Vietnam. Ci siamo inventati tutto e fu la Cia ad organizzare la famosa provocazione del Golfo del Tonchino disse McNamara, all’epoca segretario alla difesa e capo del Pentagono. E aggiunse: Quella guerra è stata un grande errore e una delle pagine più vergognose della storia americana. Frasi forse un po’ tardive e sicuramente poco gratificanti per i due milioni di vietnamiti sterminati dai B 52 e dal napalm, ed anche – ricordiamolo – per i 50 mila soldati americani mandati a morire in Indocina. Ma pur sempre un riconoscimento ad un popolo che ha insegnato a tutti la rara virtù che libertà e indipendenza non sono mai merci barattabili.