Dalla nascita dell’Urss una catena di rotture rivoluzionarie

“I giornalisti e i saggisti che hanno letto nella caduta dell’Impero sovietico la “fine della storia” si sbagliavano. È molto più sensato dire che il terzo quarto del secolo ha segnato la fine di sette o otto millenni di storia umana, iniziati all’età della pietra con l’invenzione dell’agricoltura, se non altro perché è venuta meno la lunga èra nella quale la stragrande maggioranza del genere umano è vissuta coltivando i campi e allevando gli animali. Paragonato a questo cambiamento, il confronto tra “capitalismo” e “socialismo”, con o senza l’intervento di stati e governi quali quello americano e sovietico, che si proclamavano rappresentanti dell’uno o dell’altro sistema, sembrerà probabilmente assai meno interessante dal punto di vista storico: qualcosa di paragonabile, nel lungo periodo, alle guerre di religione del XVI e XVII secolo o alle crociate”.
Al di là delle considerazioni critiche che andrebbero sviluppate, queste parole di Eric Hobsbawm (Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1994… 1998, p. 21), hanno il merito di farci comprendere tutta la difficoltà che comporta la formulazione di un giudizio articolato sull’esperienza del socialismo reale e sul suo significato più profondo. Si tratta di un’esperienza storica, cioè, che va affrontata non soltanto alla luce degli avvenimenti contingenti che costituiscono la storia evenemenziale ma anzitutto guardando a questi dalla prospettiva della lunga durata. È sul piano della Weltgeschichte, della storia universale, che essi vanno collocati, affinché se ne possano valutare appieno il senso e le conseguenze autenticamente rilevanti. Solo da questo punto di vista i singoli eventi, i conflitti e le decisioni particolari degli uomini, dei gruppi umani e delle classi vengono ricondotti alle loro dimensioni reali e acquistano, a loro volta, un significato storico-politico definito. È noto, del resto, che in Marx ed Engels la distinzione della successione dei modi di produzione ha un rapporto strettissimo con i criteri di periodizzazione delle diverse epoche storiche. E in cosa è consistito, dunque, il tentativo di instaurare un nuovo modo di produzione a partire dalle contraddizioni oggettive e dalle possibilità presenti in quello vecchio, se non nello sforzo di trarre dalla realtà un progetto storico-politico di lunga durata, di aprire una nuova epoca dello sviluppo della società umana che fosse, al tempo stesso, il compimento della modernità?
Sono questi gli ordini di problemi che i marxisti dovrebbero porsi, quando si impegnano in un’analisi dell’esperimento socialista del Novecento.
Proprio tale prospettiva, del resto, è quella che il materialismo storico ha saputo conquistare per il movimento comunista del nostro secolo, e alla quale anche dopo la sconfitta subìta non è per nulla utile rinunciare. Cosa è possibile vedere, allora, muovendo da essa? Dal momento della nascita dell’Urss, milioni di persone e interi Paesi sono usciti definitivamente dal sottosviluppo e hanno fatto il loro ingresso nell’età moderna. Anche nei Paesi già progrediti, il processo di emancipazione delle masse lavoratrici ha subìto una radicale accelerazione, conducendo all’inclusione della stragrande maggioranza dei cittadini nella sfera politica moderna e al loro compiuto approdo alla pienezza dei diritti economici e sociali. Accanto alla discriminazione di classe, anche quelle di genere e di razza sono state private di ogni legittimità. Si è avviata una catena di rotture rivoluzionarie che ha portato alla liberazione di numerosissimi Paesi extraeuropei dal dominio coloniale e imperialistico e alla loro autodeterminazione. Il tentativo nazifascista di ricolonizzazione del mondo e di deemancipazione delle masse è stato sconfitto. Si è affermata negli ordinamenti politici e giuridici l’idea dell’universale eguaglianza degli uomini, che è ormai divenuta senso comune di massa…
Potrei continuare a lungo. Già le poche cose cui ho accennato attestano però con evidenza come – con tutte le sue contraddizioni – l’esperienza socialista novecentesca abbia rappresentato, per usare le parole di Lukács, un “progresso netto” (sebbene sempre reversibile) nella storia dell’umanità. Nella prospettiva della storia universale, sono così ricondotte alle loro giuste dimensioni le distinzioni – pur necessarie sul piano della valutazione politica – tra i singoli eventi e momenti di questo enorme e unitario processo rivoluzionario; le distinzioni tra Stalin e Trotski, ad esempio, come quelle tra “socialismo in un solo Paese” e “rivoluzione permanente” e molte altre ancora. Poco proficua, del resto, appare la reiterazione polemica di tali distinzioni di fronte alla tendenza storiografica revisionistica oggi dominante, che mira ad una delegittimazione integrale della rivoluzione d’Ottobre e dell’esperienza sovietica, nonché dei movimenti di emancipazione che esse hanno saputo mettere in moto. La prospettiva della lunga durata consente di capire, in tal modo, che è proprio il tempo ciò che è mancato all’esperienza socialista, soffocata in primo luogo dalle difficilissime condizioni oggettive in cui si è svolta e appesantita dalle innegabili deficienze soggettive dei suoi dirigenti. Il tempo di apprendere, attraverso la fatica degli esperimenti e degli errori – e soprattutto attraverso la forza del movimento reale della storia e delle condizioni materiali –, quella strada per la costruzione del socialismo che non era indicata su nessuna mappa e su nessun classico della rivoluzione. Ogni modo di produzione si presenta ai propri esordi largamente carente, incompleto e saturo di imperfezioni. Così è avvenuto nel momento della genesi e dell’ascesa del modo di produzione capitalistico; così è avvenuto nel momento del primo esperimento socialista. Ciò che sul piano della storia universale è il superamento di tali imperfezioni, nella storia evenemenziale si manifesta, inevitabilmente, attraverso il conflitto, la negatività e la contraddizione. Non c’è assolutamente nessun motivo di presumere che il lavoro del negativo potesse essere evitato nella costruzione del socialismo, perché è solo attraverso tale lavoro (che, certo, va progressivamente posto sotto direzione consapevole e dunque sottoposto a regole e a limitazioni) che la storia si muove ed è produttiva. Moltissimi sono stati gli “uomini nuovi” della borghesia in ascesa, del periodo mercantilistico o di quelli successivi, che hanno reagito con sdegno morale di fronte alle imperfezioni, alle durezze e alla carica di violenza del capitalismo nascente. Ma la classe borghese nel suo complesso non si è ritratta sdegnata, e ha saputo formulare con correttezza e secondo i propri interessi il giudizio – non morale ma storico-politico – sulla società capitalistica, riconoscendosi in essa. Non si può dire, bisogna ammetterlo, che le classi subalterne (comprendendo in esse i loro dirigenti, le loro organizzazioni e i loro intellettuali) abbiamo raggiunto un pari livello di consapevolezza nei confronti dell’esperimento socialista.
Chi affronti questi temi tenendo sempre presente la lezione del materialismo marxista, non può allora limitarsi a giudizi sommariamente liquidatori ma deve sforzarsi di comprendere le condizioni entro le quali si è svolto un processo storico di trasformazione complesso, che ha dovuto fare i conti con un ambiente esterno particolarmente sfavorevole e che, comunque, ha cambiato radicalmente la storia dell’umanità. Si tratta di un percorso di analisi difficile e faticoso, che soccombe spesso alla tentazione di fornire risposte che sono ad un tempo più immediate e anche più consolatorie. Ma la demonizzazione di Stalin, per fare un esempio, non è che il riflesso speculare della sua apologia. Entrambi gli atteggiamenti non fanno fare un solo passo in avanti alla nostra ricerca e rischiano, semmai, di ritardare ulteriormente quel confronto e quella riflessione sulla nostra storia che oggi sono più che mai urgenti.