Come e per quali cause si è formato il leghismo quale collante di un blocco sociale che trascina egemonicamente anche grandi “spezzoni” di classe operaia che la cultura “postmarxista” ha addirittura considerato estinta? Per diradare la nebbia di analisi sbagliate che ancora avvolgono il fenomeno leghista, occorre risalire alle sue cause strutturali, di tipo organico – come deve essere il tipo di indagine, quale il materialismo storico, senza cui tutte le analisi non hanno saputo mettere a fuoco la natura sociale e politica del leghismo – senza attardarsi sulle più “esteriori” e “simboliche” manifestazioni, come il razzismo e l’antimeridionalismo, che non sono cause ma effetti, sicuramente sgradevoli, che però hanno fatto perdere di vista i connotati della crisi che hanno partorito il leghismo.
Il leghismo occupa lo spazio lasciato dal PCI
Il leghismo si è potuto formare in tutto il Nord e Nord-Est (per ragioni strettamente connesse all’esistenza di un vasto sistema produttivo) in virtù del vuoto originato dalla crisi della democrazia di massa e del sistema democratico tra gli anni 1980-1990, e dal progressivo abbandono di una concezione classista dei rapporti tra società civile e società politica. Il leghismo ha ricoperto il vuoto nel “territorio” lasciato dal PCI e dalla sua programmazione democratica “globale”, in cui la piccola e media impresa erano inserite come alleate del movimento operaio e delle forze democratiche. Venendo meno tale programmazione, è venuto meno un movimento democratico e sociale di massa e il ruolo positivo dei ceti “medi”.
Questi ultimi, traditi dall’abbandono della democrazia sociale da parte dei vertici di partito e sindacato, sono stati sospinti ad una “reazione” cavalcata da destra, che ha favorito la nascita di un movimento reazionario di massa, che esalta i “diritti dell’individuo” contro “il pubblico”, con forme organico-popolari espresse in un linguaggio greve, che però esprime nei fatti l’ideologia della grande impresa ed il “senso comune” tipico della cultura ambrosiana.
Quella leghista è una cultura aziendalista, ma di “combattimento”, consona ai ceti “medi” e a quelli “bassi” egemonizzati dall’alta borghesia, cultura che affonda le sue radici nel “manchesterismo” lombardo dell’Ottocento, fatto di “capitani” d’industria “padroni del cielo e della terra” e quindi anche dei loro operai. Pronti a chiamare le truppe reali per la più cieca repressione, come ad essere filantropi e paternalisti per le loro fabbriche, i loro operai e i loro municipi intesi come un proprio “principato”. Un’ideologia, quella aziendalista, che egemonizza anche la sinistra e il Paese e in modo trasversale la società del Nord, nemica di quella cultura emersa nel grande tornante di lotta di classe degli anni ’60-’70, quando partito, movimenti, sindacati, lottarono contro il potere della grande impresa dentro l’impresa stessa e occupando il territorio sociale con la forza della democrazia di base organizzata, facendo crescere la cultura di massa e la democrazia sociale.
Il “leghismo”, come già il “diciannovismo” fascista, si presenta e viene percepito prima come movimento “rivoluzionario” e “antisistema” e poi come partito di massa e di integrazione sociale perché occupa lo spazio lasciatogli dai vertici di CGIL e PCI dopo la morte di Berlinguer, quando, ben prima della caduta dell’URSS, maturano l’opzione di far parte del sistema di potere capitalistico. Quindi accettano la strategia delle “riforme istituzionali” e, dunque, di sconvolgere il regime sociale e non solo politico nato dalla Resistenza. Strategia aperta – oltre che dalla destra DC e dal PSI di Craxi e Amato – da forze extraparlamentari ed eversive come la loggia massonica P2. Una strategia volta a sollecitare un’azione politica diretta a disintegrare e disorganizzare i partiti esistenti e a destrutturare il sistema politico-sociale-istituzionale. Per il tramite di “movimenti” –anch’essi “previsti” dal Piano di rinascita democratica della P2 – che, posti a cavallo dei tradizionali partiti della “destra” (e altri di quelli della “sinistra”), diventassero, come la Lega è diventata, il volano della delegittimazione dell’ordinamento democratico-sociale.
Cultura e ideologia leghiste
Il fenomeno leghista è figlio di una cultura “modernista” d’impresa degli anni ’80, aziendalista, efficientista e campanilista, che permea tutto il Nord e che la “sinistra”, soprattutto lombarda ed emiliana, ha legittimato. Tanto che fu Guido Fanti (presidente della Regione Emilia dal 1971 al 1975), a parlare per primo di “Padania” e, nel convegno “La repubblica della regioni”, ad intendere le regioni non come parte dello Stato, ma come soggetto, ponendosi come capo di un “nuovo regionalismo” sull’asse Emilia-Veneto.
La Lega è la punta di lancia – legittimata da tutte le forze parlamentari – di una ideologia, quella “federalista”, deputata ad assoggettare il territorio-sociale ai “vertici” del Comune, della Regione e dello Stato, allontanando di fatto la gente dalle istituzioni. Su questo si fonda la sua forza di incalzare Berlusconi per la costruzione del federalismo, avvalendosi dell’appoggio del Pds-Ds-Partito democratico (ultra federalista in Toscana e in Emilia) e della passività delle cosiddette “sinistre radicali”.
Ripristinare l’organizzazione di massa
Anziché sorprendersi dei successi del “leghismo”, occorre ripristinare l’organizzazione di massa come strumento di reale e non effimera “partecipazione”. I diritti vivono e non rimangono “sulla carta”, se sono sostenuti da un “potere sociale” che li promuova, nell’aspro conflitto con chi li disconosce e comprime: un potere sociale e democratico che contrasti la scissione “liberale” tra diritti “civili” e diritti “sociali”, volta a privilegiare astrattamente i primi sui secondi, poiché la storia conferma che i “diritti di libertà” sono illusori se non fondati sull’eguaglianza e quindi sull’emancipazione e la trasformazione della società.
Occorre dare quindi forza alla classe operaia: ripristinando, sul piano sociale, il diritto di sciopero, e, sul piano politico-istituzionale, il sistema elettorale proporzionale, l’unico capace di far pesare nello stato la forza d’urto del conflitto sociale. Un proporzionale “puro”, senza sbarramenti e premi di maggioranza che rendono possibili le più varie manipolazioni, volte a deformare la rappresentatività sociale ed escludere dal Parlamento forze di fatto disprezzate come “minoranze”: come se si possa definire “democrazia” un sistema che neghi a degli elettori una rappresentanza “proporzionata”, appunto, alla loro forza. Ciò per ridare centralità al Parlamento (e quindi alla sovranità popolare), rovesciando il meccanismo istituzionale bipolare che, dando un predominio al governo, lo rende “soggetto passivo”.
Limiti della “sinistra”
Una strategia che questa “sinistra”, che ha abbandonato il “territorio” ora riscopertosi “leghista” (e dove senza più le sezioni del partito di massa, il controllo è rimasto solo a Lions, massoneria e criminalità organizzata), non sembra voler perseguire. La “sinistra” mostra la sua complicità con i poteri della grande impresa, sia con il rovesciamento delle politiche di democratizzazione e socializzazione dei poteri nella fabbrica, nella società e nelle istituzioni territoriali locali, regionali e nazionali; sia con l’abbandono della “questione sociale” e della strategia di “riforme sociali” per attuare la programmazione e il controllo sociale dell’economia.
Così, al culmine dei “60 anni della Costituzione” – celebrati da un Napolitano che di fatto l’avversa in nome del Trattato Europeo – prende piede un quadro socio-politico che ci riporta al XIX secolo, quando non c’era il suffragio universale maschile e femminile, dominavano il censo e l’élite sociale e politica della nobiltà e della borghesia. Per cavalcare tale disegno reazionario e piduista mettendogli il sigillo di “sinistra” si è operata la “perversione” della teoria e della prassi del partito, del sindacato e lo “snaturamento” della democrazia.
Accettazione della libertà d’impresa
Intellettuali e politici della pseudo sinistra hanno reciso le connessioni col passato anche più recente, specialmente con il 900 per censurare la fase socio-culturale degli anni 60-70, dopo i quali è tornata egemone la cultura d’impresa, specie ambrosiana, da cui origina la cultura leghista che ha tinto di “verde” le province che la lotta di classe aveva colorato di “rosso” (ad esempio Varese che dal 6-7% degli anni 1940-50 aveva visto il PCI raggiungere il 32% dei voti).
Avendo ripristinato e assunto una nozione di “libertà” propria della borghesia d’impresa e di quella ambrosiana, in particolare, la “sinistra” stessa e i suoi intellettuali hanno optato per una critica che si identifica con quella laicista e radicale, che è individualista e antisociale quanto il mercato cui Pannella inneggia e che persino Ratzinger condanna, esaltando sul piano storico il marxismo sia come critica che come proposta e rivalutando il ruolo e la figura di Marx[1]. Un dato che dovrebbe far riflettere sinistra e intellettuali post-comunisti, specialmente quelli teorizzanti la c.d. “autonomia del politico”, paradigmatica di un “politico” separato dal sociale (e dalla società), proprio dei sistemi di governo dall’alto e del “capo” (presidenziale, premierato, cancellierato, ecc.), impegnati a legittimare il mercato, l’efficientismo, l’aziendalismo, il “federalismo”. Da essi non scaturirà certo una cultura sociale volta a contenere e sconfiggere l’ideologia del neoliberismo seduttore degli “esclusi” se e quando sono abbandonati al loro destino, privati di “certezze” su cui fondare la lotta, e quindi attratti dal “sovversivismo reazionario” leghista che da oltre un quindicennio raccoglie voti operai.
*Angelo Ruggeri è autore di Leghe e leghismo – L’ideologia, la politica, l’economia dei “forti” e l’antitesi federalista al potere dal basso, Quaderni del Centro culturale “Il Lavoratore”, Milano, 1997; ristampato dalla Durito Edizioni -2008.
[1] Cfr. Ratzinger – Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe Salvi, 30 novembre 2007, § 20 (in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20071130_spe-salvi_it.html): “L’avanzare sempre più veloce dello sviluppo tecnico e l’industrializzazione con esso collegata crearono, tuttavia, ben presto una situazione sociale del tutto nuova: si formò la classe dei lavoratori dell’industria e il cosiddetto ‘proletariato industriale’, le cui terribili condizioni di vita Friedrich Engels nel 1845 illustrò in modo sconvolgente. […] Dopo la rivoluzione borghese del 1789 era arrivata l’ora per una nuova rivoluzione, quella proletaria: il progresso non poteva semplicemente avanzare in modo lineare a piccoli passi. Ci voleva il salto rivoluzionario. Karl Marx raccolse questo richiamo del momento e, con vigore di linguaggio e di pensiero, cercò di avviare questo nuovo passo grande e, come riteneva, definitivo della storia verso la salvezza […]. Essendosi dileguata la verità dell’aldilà, si sarebbe ormai trattato di stabilire la verità dell’aldiquà. La critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della teologia nella critica della politica. Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose. […] Marx ha descritto la situazione del suo tempo ed illustrato con grande capacità analitica le vie verso la rivoluzione – non solo teoricamente: con il partito comunista, nato dal manifesto comunista del 1848, l’ha anche concretamente avviata. La sua promessa, grazie all’acutezza delle analisi e alla chiara indicazione degli strumenti per il cambiamento radicale, ha affascinato ed affascina tuttora sempre di nuovo. La rivoluzione poi si è anche verificata nel modo più radicale in Russia”.