Dal PDS al PD

1. NASCE.“LA COSA”: IL PARTITO DEMOCRATICO DI SINISTRA

La nuova organizzazione del disciolto PCI si chiamerà “Partito Democratico della Sinistra” e il suo simbolo sarà una quercia sotto le cui radici rimarrà in miniatura l’ex simbolo del Pci. Il nuovo simbolo intende evocare insieme l’albero della libertà della rivoluzione francese (come abbiamo visto uno dei riferimenti ideologici occhettiani), il socialismo italiano dell’inizio del secolo (nel 1918 il Psi aveva la quercia come simbolo), e l’ecologia. Scompare la parola “comunista”. Di fatto, il gruppo dirigente del Pci, di fronte agli impulsi del “craxismo”, diventa sempre più privo di autonomia politica e culturale, e sciogliendo il partito, sposa l’idea del superamento del conflitto di classe nella fase c.d. “post-industriale” segnata dalla rivoluzione tecnologico-informatica, finendo per proclamare superata la Costituzione di democrazia sociale.

2. OCCHETTO E SEGNI CONTRO LA “PARTITOCRAZIA”

Uno dei primi atti del nuovo partito è l’attacco alla cosiddetta “partitocrazia” e alla “frammentazione” del sistema politico, temi cari alla destra. È da questo punto di vista che va valutato il caso Segni, la sua fortuna e, insieme, il suo rapido declino. Con Mario Segni la tematica craxiana e cossighiana del presidenzialismo ha trovato le sue basi di massa e ciò che le mancava, la critica di massa dei partiti, il popolo. Il Pds dimentica che il “sistema dei partiti” era deprecato perché c’era la sinistra socialcomunista (e Don Sturzo non si sarebbe espresso contro il sistema dei partiti se non guardando a quel che succedeva in Italia dopo il fallimento della legge-truffa del 1953). Occhetto sostiene con forza il disegno anticostituzionale di Segni tendente a cancellare il sistema elettorale proporzionale. Infatti, nel solco della gravità del presidenzialismo, si situa l’altra cosa grave e più sottilmente pericolosa dell’attacco alla Costituzione, che sono i referendum e la legge elettorale maggioritaria. I referendum so – no presentati in forma abile e soprattutto quello che a prima vista può sembrare avere meno significato, come il referendum per la preferenza unica, ha un effetto di grimaldello. Nella mancanza di una autonomia, di fronte a promotori che ne hanno sostenuto la necessità “per evitare che chi vota faccia parte delle cordate di potere”, nessuno ha saputo o voluto dire che le vere cordate di potere sono quelle di coloro che fanno le Liste e non certo degli elettori. Perché quand’anche ci fossero stati elettori che andavano a votare d’accordo con una cordata, se il candidato corrotto non fosse stato messo in lista e nell’ordine oltretutto che più lo garantiva, l’elettorato non avrebbe mai potuto votarlo. Riuscendo a far credere l’incredibile, cioè che il malaffare viene alimentato dalla democrazia stessa, dal pluralismo e dagli elettori. È stato così diffuso e avallato a livello di massa un senso comune antidemo- cratico tipico della destra, stabilendo un precedente gravissimo, che ha incrementato il vento di destra di un sovvertimento più generale, secondo cui quanto maggiore è la democrazia e più ampia la libertà di scelta degli elettori, tanto più risulta incrementata la possibilità di corruzione e inquinamento mafioso. Quel referendum risultava quindi evocativo di una “criminalizzazio – ne” della democrazia e captatorio e ricattatorio. Perché – oltre a servire per un secondo e altro fine che era quello dell’abolizione del sistema proporzionale in nome dell’antipartitocrazia (quando invece responsabili non sono i partiti in quan to tali, ma un certo loro ceto burocratico) – è servito a togliere potere di scelta agli elettori, lasciando viceversa intatto quello degli apparati burocratici di vertice, ai quali, antidemocratici e talvolta corrotti, ha dato anzi, con l’uninominale di cui l’unipreferenziale era concepito come un passaggio e un grimaldello, il potere esclusivo di deliberare e decidere chi deve essere candidato e quindi sicuramente eletto. Tutto questo dietro altre ed ulteriori falsificazioni, come quelle che in tal modo si sarebbe reso arbitro il cittadino, nel momento stesso in cui, invece, con il sistema maggioritariouninominale, veniva spogliato definitivamente di ogni potere tra un’elezione e l’altra, per l’intera legislatura. Perché a questo cittadino definito “arbitro”, con tal sistema si lascia solo la possibilità di fischiare l’inizio, ma non è consentito, come ad un vero arbitro, di intervenire nei cinque anni della partita che è la legislatura. Quel primo referendum è stata la prima trappola con cui si sono carpite le firme e poi i voti per i successivi referendum, in funzione di un disegno più complessivo di alterazione e riduzione della democrazia che, per sua natura, non può che essere proporzionalisticamente pluralista. Un disegno, del resto, che gli stessi promotori del referendum non nascondevano affatto: l’unipreferenziale sarebbe stato “un passo in avanti verso il sistema uninominale” e, nel caso quel referendum fosse passato, sarebbe servito a riproporre gli altri che erano stati bocciati (giustamente) dalla Corte costituzionale, per arrivare alla introduzione dei collegi uninominali e del maggioritario (superati nel 1919 e poi reintrodotti dal fascismo, cancellati con la Resistenza e la Li – be razione, reintrodotti con la legge truffa del 1953, abrogata nel 1954 grazie alla tenace opposizione di PCI e PSI). È solo dopo una prima bocciatura della Corte Costituzionale e dopo la vittoria del referendum per la preferenza unica che si è quindi arrivati al referendum decisamente più pericoloso e destabilizzante: quello per la modifica del sistema elettorale del Senato, che era il vero scopo dei promotori dei referendum rispetto a cui gli altri servivano ad un ampliamento del campo di interessi da aggregare.

3. IL CRAXISMO: NUCLEO DEL “POLO PROGRESSISTA” NEL 1994

Ci siamo riferiti a Craxi ed il riferimento è d’obbligo, non tanto per la vicenda di tangentopoli, di cui è attore principale, ma non unico protagonista, quanto per il fatto che gli elementi di fondo su cui l’ex segretario socialista giocò la sua fortuna politica hanno costituito il “nocciolo razionale” – al di là dell’“involucro mistico” – con cui il cosiddetto “polo progressista” si presenta alle elezioni del 1994. È sul terreno dell’aziendalismo, del – la governabilità, ecc. che si caratterizza il programma elettorale ed è confermato proprio da frasi emblematiche che stralciamo dalla “dichiarazione d’intenti comuni delle forze progressiste”: “Questa forte volontà di cambiamento deve ora tradursi […] in una competizione per il governo del paese tra schieramenti alternativi […] Per far questo è necessario coniugare l’equità sociale, a cominciare dal diritto al lavoro e dalla giustizia fiscale, con le ragioni dell’efficienza e del mercato” [i corsivi sono nostri]. D’altra parte, quando si afferma – sempre nella Dichiarazione d’intenti – che “per ridare dinamismo all’economia […] occorre […] promuovere – quando sia il caso – le privatizzazioni”, non siamo forse sul terreno del “più mercato, meno stato” di reaganiana memoria? Nel programma del Pds, che di fatto uniformerà “la gioiosa macchina da guerra” (espressione occhettiana) saranno quindi condensate tutte le proposte che dalle forze culturali della destra democristiana e missina, dalle forze “palesi” e “ occulte”, sono state fatte nel tempo, su: governo di legislatura, incompatibilità tra gli incarichi di ministro e di parlamentare, potere di nomina e di revoca dei ministri da parte del Presidente del Consiglio, superamento del bicameralismo paritario attribuendo al Senato le funzioni di una Camera delle regioni.

4. DECALOGO DELLA CONFINDUSTRIA E PROGRAMMA DEL PDS

Tutto il resto del programma, non a caso, corrisponderà alla linea socioeconomica che la Confindustria in- dicherà in un decalogo (“Dieci pun – ti per lo sviluppo”). L’Unità del 25 febbraio 1994 diffonde, in un volumetto con copertina verde (è casuale?), il “Programma di governo del Pds”, con una presentazione “i – ne vitabile” di Occhetto. Ecco in sintesi la comparazione fra i due testi su alcune questioni fondamentali:

A) Sul rapporto tra Stato ed economia: PDS: “Ricostruire uno Stato che gestisca di meno e governi di più […] lo Stato dovrà preoccuparsi soprattutto di creare un contesto ambientale favorevole allo sviluppo, e cioè, in pratica, sviluppare gli investimenti in infrastrutture […] utilizzando per la concreta realizzazione di tali fini più le forze di mercato che la gestione diretta […] La risposta più adeguata alle degenerazioni clientelistico-assistenziali dello stato sociale italiano […] consiste nella riqualificazione e riorganizzazione del nostro sistema di welfare […] Forme miste vanno incentivate e va sostenuto lo spirito di iniziativa individuale […] Nella ricostruzione del sistema sanitario non si può che adottare una strategia complessa che […] introduca le compatibilità economiche”.

Confindustria: “Lo Stato deve […] regolare ma non gestire […] Serve una previdenza che passi da un sistema esclusivo a ripartizione a un sistema misto. E una sanità basata sul principio della concorrenza. Un sistema misto, dove lo Stato provveda agli investimenti infrastrutturali di base e alla copertura dei meno abbienti, e i cittadini siano liberi di rivolgersi a strutture mutualistiche e assicurative”.

PDS: “Le privatizzazioni possono essere una importante occasione per riorganizzare su basi più moderne l’industria nazionale […] Proponiamo: una politica di privatizzazione delle imprese pubbliche”.

Confindustria: “Accelerare la privatizzazione delle imprese manifatturiere ed estendere lo stesso principio alla produzione dei pubblici servizi di trasporto e alla gestione delle reti per l’energia e le telecomunicazioni, promuovendo il collocamento sul mercato dei grandi monopoli pubblici”.

B. La forma dello Stato: Qui le affinità più che con la Con – findustria sono con la Lega, non sen – za tener conto, però, che il federalismo fiscale è la nuova parola d’ordi – ne del padronato italiano. Ecco cosa scrive il programma del PDS: “Or ga – nizzare il passaggio a un nuo vo Stato regionale di ispirazione federalista”; a proposito del sistema fisca le, si propone di “realizzare nel nostro paese una situazione analoga a quella che esiste nei grandi Stati fe de rali (Usa, Germania, Svizzera, ecc.)”.

C. Il sistema elettorale: PDS: “Una nuova legge elettorale, che preveda il doppio turno e la scelta esplicita della maggioranza parlamentare e del Presidente del Consiglio”.

Confindustria: “Doppio turno anche per le politiche e possibilità per i cittadini di scegliere il capo dell’esecutivo con l’elezione diretta […] Già oggi le forze politiche dovrebbero indicare il candidato alla Presidenza del Consiglio”. Occhetto asseriva il primato dei programmi su quello degli schieramenti, mentre è evidente il nesso stretto che lega ideologia e schieramenti; di fatto si stabilisce un approccio a favore dell’impresa privata, contro le strutture pubbliche di intervento nell’economia, che evoca, le parole d’ordine delle “leghe” di oggi, ma anche quelle del fascismo nascente, quando nel 1921 Mussolini si presentava candidato a prendere il potere in nome dei valori degli “individui” e di uno stato “regolatore” ma non “gestore”: salvo poi convertire dal potere tali posizioni “liberiste” nei principî neo-protezionisti del capitale, contenuti nella Carta del lavoro ispirata al corporativismo ed entrati a far parte del codice civile. È noto che “la gioiosa macchina da guerra” subisce una pesante sconfitta, che possiamo definire “annunciata”, visto il programma con cui si è presentata alle elezioni.

5. DA OCCHETTO A D’ALEMA

Occhetto si dimette e si apre il conflitto tra D’Alema e Veltroni per la successione, conflitto giocato in modo cinico e strumentale sul no – me di Berlinguer: un Berlinguer ad “uso personale”. Prevarrà D’Ale ma, che, eletto segretario del partito il 1° luglio 1994, mette in discussione le fondamenta della “svolta”. Ammette le responsabilità della sinistra per la vittoria di Berlu sconi, responsabilità derivante dal modo con cui il gruppo dirigente del PDS aveva interpretato la fine della Prima Repubblica e critica l’uso distorto dei termini di “partitocrazia” e di “consociativismo”. Certo non è lo stesso D’Alema che, qualche anno prima ai tempi della “svolta”, si impegnava in un’aspra polemica con Saverio Vertone, ex comunista e corsivista del Corriere della Sera: “È indubbio che la storia del comunismo in questo secolo non è riducibile allo stalinismo […] Il nome del nostro partito ha la sua ragion d’essere innanzitutto in questa storia, e per questo non sentiamo il bisogno di liberarcene”1. E che, nei confronti di Occhetto dichiarava: “Non c’è dubbio che con Oc chetto vi sia una fortissima sintonia, un affiatamento per cui non accade più che ogni volta occorra discutere sulle premesse prima di decidere il da farsi. Nel PCI si è creato un gruppo dirigente nuovo. Il nuovo corso ha rimescolato le carte della discussione interna, favorendo una sintonia politica del tutto originale”2. L’innovazione – dice D’Alema – non deve avere come approdo una “democrazia senza partiti”, ma va messo al centro il tema della “democrazia bloccata” mirando alla ricostruzione di un sistema dei partiti orientato all’alternanza. Bisogna andare nel senso dell’Europa e cioè di una democrazia bipolare, attuare il bipolarismo. Capisaldi di questa strategia: una riforma federale dello Stato, un cambiamento della forma di governo, la costruzione di un partito sopranazionale. Va attuato un progetto di “rivoluzione liberale”, fondato su “un’ – alleanza dei produttori”, con una gestione del processo di privatizzazione concepito come grande occasione per riorganizzare il sistema industriale italiano.

6. LA “RIVOLUZIONE LIBERALE” DI D’ALEMA PER UN “CAPITALISMO NORMALE”

In un intervento del maggio 1995 D’Alema ha l’occasione di precisare il suo orientamento: “Una riforma liberale del mercato che garantisca la trasparenza e l’effettiva concorrenza […] Su questo terreno ho riscontrato grande sintonia con gli operatori finanziari della City di Londra. Ritengono anch’essi che non sia stata la sinistra in Italia a bloccare il mercato, ma la presenza di un assetto oligarchico del nostro capitalismo […] Alla City vorrebbero un ‘capitalismo normale’, in cui chi ha i soldi e vuole acquistare una grande azienda pubblica fa una regolare offerta senza che qualcuno lo imbrogli. Ritengo che anche la sinistra sia interessata ad avere in Italia un capitalismo più aperto alla concorrenza e più democratico […] la sinistra può rappresentare una prospettiva credibile per il governo del paese se si fa interprete, sul terreno della modernizzazione, di quella che abbiamo definito una rivoluzione liberale”3. Sono gli assi portanti del cosiddetto neo-riformismo. L’obiettivo della politica neo-riformista viene indicato nella costruzione di un “paese normale”. Viene spontaneo osservare: in un paese “normale” quale posto ci sarebbe per riforme capaci di cambiare equilibri economici e sociali? Le trasformazioni sociali, quali conseguenze di “riforme di struttura” (cfr. Togliatti) sono risultanti di conflitti, di conflitti anche assai aspri. D’altra parte se la lotta di classe non c’è più (come la storia del resto), si può ipotizzare una realtà che cambia attraverso una “normalità autoregolantesi”, proprio come il “mercato autoregolato”. Abbiamo oggi spiattellati davanti i risultati sia della preveggenza degli esperti della City sia del cosiddetto “mercato autoregolato”! Nel 1997 D’Alema si insedia come Presidente della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali e cerca di dare uno sbocco oramai incontenibile alle più timide e ambigue tendenze emerse nella precedente (1993), su un versante configurando un c.d. stato “regionale” spinto (si è detto) “sino ai limiti del federalismo”, e su un altro versante puntando a scegliere una delle varianti del governo dall’alto. Già all’interno della “Commissione bicamerale” presieduta da D’Alema la “revisione della Seconda Parte della Costituzione” ha avuto una configurazione anticipatrice della “deriva autoritaria berlusconiana”. Infatti, la Commissione non ha esitato a proporre la modifica della stessa logica cui è ordinata la Seconda Parte relativa all’organizzazione dello stato, predisponendo il passaggio al “federalismo” mediante l’anteposizione del “titolo” riguardante l’articolazione della Repubblica in comuni, province e regioni al posto del “titolo” riguardante il ruolo del Parlamento e così inserire un “titolo” sulla “partecipazione dell’Italia all’Unione Euro – pea”. In tale logica, l’attacco al Par – lamento veniva completato, facendolo slittare dopo i “titoli” relativi rispettivamente al Presidente della Repubblica e al Governo, aprendo così la strada alle alternative oggi in discussione sulla forma di governo (premierato, presidenzialismo, semi-presidenzialismo, cancellierato) che hanno dato la stura alla ricerca da parte di Berlusconi di uno dei vari “bricolage”.

7. LA BREVE VITA DEL PDS: NASCONO I DS

La storia del PDS termina nel 1998, quando, sotto la guida di D’Alema, il partito si fonde con altre forze della sinistra italiana. Di esse soltanto una proviene dalla storia del comunismo (il Movimento dei Comunisti Unitari), mentre le altre sono di provenienza social-riformista (Federazione Laburista e associazione Riformatori per l’Europa), laica (Sinistra Repubblicana) e perfino di provenienza e cultura cattolica (Movimento dei Cristiano So – ciali). Da questa apertura del PDS a tali forze della sinistra moderata, nasce un nuovo soggetto politico: i De – mo cratici di Sinistra. I DS si presentano come forza della sinistra moderata e democratica italiana, che sottolinea il suo legame con il socialismo democratico europeo, anche eliminando dal simbolo il riferimento al PCI e sostituendolo con una rosa rossa (simbolo appunto del socialismo europeo) con accanto prima la sigla del “PSE” e poi la scritta per esteso “Par tito del Socialismo Europeo”. Il primo risultato è l’approdo di Mas simo D’Alema a Palazzo Chigi: con la caduta del Governo Prodi, il leader Ds diventa Presidente del Consiglio grazie al sostegno del “gladiatore” Cossiga e del “funambolo” Mastella, mentre Veltroni assume la guida del partito. Uno dei primi atti del neo-presidente è l’assenso alla partecipazio – ne dell’Italia alla cosiddetta “guer ra umanitaria” contro la Jugoslavia. Per la prima volta, nel dopoguerra, un altro cardine della Costituzione italiana (l’art. 11) viene violato. Si giunge alle elezioni del 2001. Il centrosinistra, guidato da Rutelli, perde e i Ds, sebbene si confermino la prima forza della coalizione, si attestano sul 16,6% di consensi. In autunno si tiene un congresso straordinario per la sostituzione del dimissionario Veltroni, che si candida a sindaco di Roma. Piero Fassino viene nominato nuovo segretario, D’Alema presidente.

8. UN UOMO “APPASSIONATO” SEGRETARIO: PIERO FASSINO

“Io sono un uomo di pace” afferma Fassino nelle conclusioni al congresso del novembre 2001 e come uomo di pace si vanta, a proposito dell’intervento in Jugoslavia, “dell’uso della forza a cui siamo ricorsi, che ha consentito di tornare alle ragioni della politica, perché senza quell’intervento nel Kosovo, oggi a Belgrado probabilmente non ci sarebbero la democrazia e la libertà”. Non soddisfatto di esportare democrazia e libertà, nel pieno dell’intervento armato in Afghanistan, Fassino desidera che “il nostro partito mandi un saluto a quei marinai che stanno per partire proprio oggi verso il Golfo Persico e verso l’Ocea – no Indiano, per far sentire a questi nostri soldati che sono lì avendo dietro l’intero paese, avendo il consenso dell’Italia per garantire, con la loro azione e con la loro presenza, che in quella regione così tragicamente travagliata da conflitti si possa rapidamente tornare alla pa – ce e alla libertà per tutti”. Fassino magnifica la globalizzazio – ne, ma vuole battersi “per una globalizzazione che non sia la globalizzazione soltanto dell’economia e dei mercati ma anche la globalizzazione dei diritti”. Ne fa un lungo e – len co e afferma che bisogna “tenere insieme diritti e processo di modernizzazione del paese”. Siamo come detto in precedenza, sul terreno dei diritti inesorabilmente cartolari e privi di reale consistenza. In pieno movimento “no-global”, Fassino auspica che si “passi dal “no global” al “new global”, da una logica di critica antagonistica ad una condizione che è la condizione globale del nostro tempo”. E prosegue, all’interno di una logica di puro “con trattualismo”: “Per me centralità del lavoro non è mai stata una nozione ideologica. È uno dei parametri sulla base dei quali giudico se quella società è giusta oppure no. E se c’è piena occupazione, quella è una società più giusta, più democratica, più libera. Però il punto è – come tutti sappiamo – che siamo passati da un mondo del lavoro al mondo dei lavori. Il mondo del lavoro si è segmentato, articolato e frammentato perché è intervenuta una grande rivoluzione tecnologica, con il passaggio dal ciclo produttivo meccanico – il quale per struttura, composizione, e definizione aveva forti elementi di rigidità sia tecnologici che sociali – a un ciclo produttivo informatico. La società, appunto, del software delle informazioni in cui la flessibilità è l’elemento caratterizzante della struttura produttiva e della struttura sociale. Per questo c’è la flessibilità, una realtà”4. Ci siamo soffermati in precedenza sugli aspetti teorici della cosiddetta “rivoluzione tecnologica”, qui possiamo ulteriormente osservare, a proposito della flessibilità, che negli Stati Uniti le prime aziende ad essere ristrutturate “in modo flessibile” sono state, negli anni Ottanta, quelle più sindacalizzate. Certo, la “lotta di classe” è concetto obsoleto, ma bisognerebbe comunicarlo ai padroni! Non soddisfatto di tale subalternità alla logica dell’impresa, Fassino si pone il “problema di come garantire anche tutte quelle figure professionali che dall’articolo 18, oggi, non sono tutelate e a cui non parlo se mi barrico sulla difensiva soltanto su quello. La questione è come costruisco una rete di diritti, uno “statuto dei lavori”. Non è forse la sostanza dell’attuale attacco allo Statuto dei lavoratori portato dalla Confindustria? Fassino rivendica la convinta adesione al socialismo europeo. “Con la svolta guidata da Achille Occhetto noi decidemmo che l’identità del nostro partito doveva essere l’identità di una forza politica che si collocava nella famiglia del socialismo europeo e internazionale.[..] Il PSE è nato il 9 novembre 1992, e tra i firmatari dell’atto di fondazione c’è la firma di Achille Occhetto”. “Oggi parliamo di Blair, che è primo ministro; parliamo di Schröeder, primo ministro; parliamo di Jospin, anch’esso primo ministro. Questi partiti, dieci anni fa non stavano al governo. Noi dobbiamo divenire una riconosciuta e riconoscibile forza riformista non perché siamo affiliati all’Internazio – nale socialista o al partito del socialismo europeo, ma perché ne condividiamo la stessa cultura politica”. Ora, il laburismo rimodellato da Blair si basa sull’accettazione dei cardini del cosiddetto neo-liberismo di fine secolo, sull’onda del periodo thatcheriano, anzi traendo vantaggio da quell’esperienza. Altro aspetto, non secondario per giudicare il personaggio, è la scelta di stile di vita, basata sulla possibilità di essere avidi senza sentirsi in colpa perché il mercato lo vuole. Ci sarà pure un rapporto tra Blair che costruisce il New Labour, Schroeder che costruisce la Neue Mitte e le scelte dell’uno per un incarico mi- lionario alla Banca Morgan, e dell’altro per un incarico, sempre milionario a Gazprom? La diversità dei comunisti riguardava anche gli stili di vita. I dirigenti del Pci, anche i più alti, avevano uno stile di vita sobrio, determinato da un reddito che restava modesto. “Sul piano istituzionale – dice Fas si – no – il bipolarismo è stata una scelta del nostro partito, ed è una scelta da non revocare in dubbio. Inoltre, il sistema politico istituzionale diventa federale, anche grazie alla riforma dell’Ulivo confermata dal recente referendum”. Fassino si riferisce alle “modifiche del Titolo V”, una revisione costituzionale che il centrosinistra impone (confermata da un referendum con la partecipazione solo del 34% degli elettori) dopo che per soli quattro voti era stato battuto in parlamento il centrodestra. Il testo costituzionale del 1948 viene inquinato con un federalismo posticcio e stravolto sia con la codifica della subalternità costituzionale dell’ordinamento italiano all’unione europea, sia per la esplicitazione di un principio – la conclamata sussidiarietà – in nome della quale nel luogo destinato a qualificare i compiti di “stato, regioni, città metropolitane, province e comuni” si è innovato rispetto ai Principi fondamentali e alla Prima parte, stabilendo che in ogni livello istituzionale va riconosciuta “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”, laddove la menzione letterale dei “cittadini” è fuorviante per non far pensare in via immediata alla grande impresa anelante ad occupare ogni forma di intervento nella società. Occorre rimarcare, per onestà teorica, che la formula della “sussidiarietà” fu il presupposto su cui il IX principio della Carta del lavoro fascista con prosopopea affermava che “l’intervento dello stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata”. Fassino conclude ringraziando “in particolare un dirigente del nostro partito tra gli altri, un dirigente che non ebbe paura di dichiararsi riformista quando da noi questa parola era bandita, che ha tracciato la stra – da prima di altri e, se mi è permesso, un dirigente che ha detto cose che se avessimo ascoltato allora ci avrebbero fatto risparmiare mol to tem – po. Questo dirigente è Gior gio Na – po litano”. Non poteva essere altrimenti. Infatti successivamente il neo-segretario, in un libro autobiografico (sono molto consci di sé questi “nuovi” dirigenti: sia Oc – chetto, che D’Alema, che Veltroni firmeranno loro biografie!), scriverà che la strategia dell’alternativa democratica dell’ultimo Berlinguer “appare non solo assolutamente vaga nei contenuti ma anche equivoca nel lessico, perché quell’aggettivo ‘democratica’ lascia quasi intendere che il governo di pentapartito metta in discussione la democrazia, concetto estremo peraltro affermato da Berlinguer in uno dei suoi ultimi discorsi […] è la deriva identitaria e solipsista di un partito che – di fronte alle difficoltà del presente – non sa opporsi al richiamo delle sirene del passato. Un partito che si rifugia in una autoconsolatoria riaffermazione di identità, di cui si rivendica la ‘diversità’ come se la differenza tra noi e gli altri partiti fosse un patto genetico e non più semplicemente programmatico. Un partito che si esilia, così, in una malinconica e solitaria navigazione senza bussola”5. Il nuovo leader intraprende il percorso che mira a unire tutto il centrosinistra moderato e riformista in un unico partito, il Partito democratico. In tal senso va la formazione della Fed (la Federazione dei partiti dell’Ulivo) e la presentazione di una lista unitaria alle Europee del 2004.

9. DAI DS AL PARTITO DEMOCRATICO

Michele Salvati, deputato eletto nelle liste dei Democratici di Sini stra, in alcuni articoli pubblicati sui quotidiani Il Foglio e la Repubblica nell’aprile 2003, delinea il profilo del nuovo partito, che deve nascere dall’incontro tra le culture socialdemocratica, cristiano-sociale e socio-liberale. L’idea di Salvati viene ripresa da Romano Prodi, all’epoca presidente della Commissione Europea. L’anno seguente, al IV congresso dei DS, Fassino viene riconfermato alla guida del partito e nel 2006 matura la vittoria dell’Unione, guidata da Prodi. Il primo atto formale verso la costituzione del nuovo Partito è la nomina, il 23 maggio 2007, di un Comitato promotore, il “Comitato 14 ottobre”, così chiamato con riferimento alla data in cui sarebbe stata eletta l’assemblea costituente del Partito Democratico. Il Comita to definisce le modalità di svolgimento delle primarie per l’elezione dell’Assemblea Costituente Nazio – nale e delle Assemblee Costituenti Regionali, con i rispettivi Segretari. Le liste collegate a Walter Veltroni ottengono complessivamente il 76%, decretandone automaticamente l’elezione a Segretario Nazionale del PD.

10. IL VELTRONI PENSIERO

Il “Veltroni pensiero” si può desumere da una serie di interviste che il protagonista di una serie ininterrotta di sconfitte, rilascia ad alcuni quotidiani. “La storia del comunismo è finita nell’89, in modo drammatico e vitale (sottolineatura nostra, d’altro canto in precedenza aveva dichiarato di non essere mai stato comunista). Richiamarla in causa oggi significa cedere alla nostalgia intellettuale, continuare a interrogarsi su transizioni e successioni. Ora l’approdo è stato raggiunto. Una lunga fase del viaggio si è conclusa. Comincia un’altra storia, un altro viaggio, con nuovi compagni e nuove rotte. È il tempo di tentare la grande espansione, la ricerca di una soluzione razionale, realista, innovatrice, di cui il paese ha bisogno. Un grande partito di popolo, che parli delle cose di cui parla il popolo e non delle cose di cui parlano i politici. Che costruisca una democrazia meno pesante e meno invaden – te, più lieve e più veloce. […] Sono sempre stato convinto che prima o poi in Italia sarebbe nato un partito democratico. È il sogno della mia vita politica. Questa è l’introduzione al mio libro su Bob Kennedy, Il sogno spezzato: il kennedysmo è stato, con la socialdemocrazia svedese, la più alta forma di governo sperimentata dai democratici in società occidentali avanzate […]. A questa specie non appartengono, per me, i governi socialisti che si sono succeduti negli anni ‘80 in Europa”6. In una intervista al Corriere della sera dal titolo “La democrazia italiana è malata, ecco le dieci riforme per cambiare” Veltroni espone le sue idee istituzionali. Non ci dilungheremo nel lungo elenco, citiamo le più emblematiche. Una premessa esprime in modo chiaro quale concezione della democrazia caratterizzi il personaggio: “La democrazia italiana sta andando in crisi per assenza di capacità di decisione, per la prevalenza della logica dei veti delle minoranze sulle decisioni delle maggioranze”. Poi Veltroni prosegue: “Lo disse Ca – la mandrei7 durante i lavori della Costituente: ‘la democrazia per funzionare deve avere un governo stabile: questo è il problema fondamentale della democrazia’. Bisogna, perciò, superare l’attuale bicameralismo perfetto, assegnan – do alla Camera la titolarità dell’indirizzo politico, della fiducia al governo e della funzione legislativa e facendo del Senato la sede della collaborazione tra lo Stato e le autonomie regionali e locali. Senato e Camera manterrebbero potestà legislativa paritaria nei procedimenti di revisione costituzionale. Va riformata la legge elettorale, in modo da ridurre la assurda frammentazione e favorire un bipolarismo mediante la previsione per legge di elezioni primarie per la selezione dei candidati. Va rafforzata decisamente la figura del Presidente del Consiglio, sul modello tipicamente europeo del governo del primo mi – ni stro, attribuendogli, ad esempio, il potere di proporre nomina e revo – ca dei ministri al Presidente della Repubblica. Va prevista una corsia preferenziale, con tempi certi, per l’approvazione dei disegni di legge governativi e voto unico della Came – ra sulla legge finanziaria nel testo predisposto dalla Commissio ne Bi – lancio, sulla falsariga dell’esperien – za inglese. Va completata la riforma federale dello Stato, attuandone gli aspetti più innovativi, a cominciare dal federalismo fiscale”8. Le idee sugli aspetti economici Veltroni le espone in un lungo intervento al Lingotto di Torino. Dopo l’elogio al “governo Prodi che ha portato avanti una grande opera di risanamento finanziario, ha rotto un lungo immobilismo con le liberalizzazioni e l’apertura dei merca – ti”, Veltroni promuove i processi di concentrazione bancaria: “Il sistema bancario italiano non è più quella frammentazione di soggetti che è stato per molto tempo. Oggi banche e industrie nazionali acquistano, conquistano ed entrano a far parte di reti e gruppi europei”.

11. TASSE, SICUREZZA, MERITO

Il nostro è il paese della gigantesca evasione ed elusione fiscale; come sconfiggerla? Veltroni ci suggerisce la ricetta: “Non è con gli odi di classe che si sconfigge l’evasione. È, al contrario, attraverso il convincimento e l’adesione ad un comune progetto per la società. […] Io penso ad un Partito democratico che in tema di lotta all’evasione fiscale bandisca dalla sua cultura politica ogni pregiudizio classista, considerando altrettanto esecrabili quell’imprenditore che evade, quel pubblico dipendente che percepisce lo stipendio e non fa quello che dovrebbe e chi offre lavoro in nero”9. Infine la questione della sicurezza che “non è né di destra né di sinistra. Chi governa ha il dovere di fare di tutto per garantirla. Avendo ben presente il presupposto: integrazione e legalità, multiculturalità e sicurezza, vivono insieme”10. L’uomo innamorato dell’Africa ri – tie ne che la sicurezza – “non di destra né di sinistra” – riguardi però esclu sivamente le questioni legate all’immigrazione! Un’ulteriore osservazione, pren den – do spunto da un episodio della cronaca politica milanese. Appena conclusi i congressi di scioglimento dei DS e della Margherita, i due partiti decidono di organizzare a Mila no un meeting per raccogliere idee e proposte per il nascituro Partito Demo – cratico. Gli esiti della manifestazione sono sintetizzati dal quotidiano la Repubblica, sponsor del Partito De – mo cratico, con questo titolo “Tas se, sicurezza, merito”. Avrebbero potuto essere le parole d’ordine di una convention della destra. La riduzione delle tasse, come è noto, è il cavallo di battaglia della destra liberista; la sicurezza è la ban- diera del populismo; il merito è un messaggio ambiguo che la destra declina come riconoscimento per chi si arricchisce e fa carriera. Si può anche ricordare che a Rimini, nella primavera del 1982, si svolge una conferenza del PSI con tema “Governare il cambiamento”, che propone con Martelli un’alleanza tra “meriti” e “bisogni” e, con Craxi e Amato, una “grande riforma” istituzionale. La storia si ripete, in farsa o tragedia? Concludiamo questa ricognizione sul “Veltroni pensiero” con un’intervista a Repubblica del gennaio 2008, un elogio ad Obama: “La sua (di Obama) è una leadership calda, capace di evocare l’idea di un’Ame – rica che recupera la guida morale del mondo […] Vorrei che anche noi sapessimo ascoltarlo, uscendo dalle sconfitte, dai conflitti e dalle ideologie di un tempo che dobbiamo mettere per sempre alle nostre spalle”. Gli Stati Uniti già nella prima metà dell’Ottocento hanno avuto una logica imperiale sia nei modi del loro ampliamento territoriale ad Ovest e a Sud (genocidio dei nativi e terre strappate al Messico) sia nei loro rapporti con il continente americano nel suo complesso (dottrina Monroe). Poi nel Nove – cento tale ruolo ha avuto come palcoscenico il mondo intero. Immaginare che la politica estera degli Usa possa essere guidata da una dimensione “morale” prescinde del tutto da qualsiasi analisi dei processi storici reali. Alle elezioni del 2008 Veltroni rimedia l’ennesima sconfitta, che ver – rà confermata alle elezioni regionali sarde. Si dimette e Dario Franceschini assicura l’interregno fino all’elezione – con lo strumento plebiscitario delle primarie – di Pierluigi Bersani.

12. BERSANI NEO-SEGRETARIO DEL PD

Dalla mozione che Bersani presenta alle primarie desumiamo i suoi programmi11. La premessa è che “la crisi restituisce attualità alle idee di fondo del riformismo”. Non sono molte le differenze rispetto alle impostazioni che hanno caratterizzato in precedenza i programmi del PD. Vi è, ovviamente, dopo l’elezione di Obama alla presidenza degli Stati Uniti, un giudizio nettamente positivo: “Gli Stati Uniti hanno saputo reagire al pericolo di una crisi di egemonia dando vita ad una leadership democratica capace di imprimere un nuovo senso alle relazioni internazionali”. Poi, un’accentuazione dei temi del lavoro, però tutta all’interno di una visione corporativa: “La prima, fondamentale frattura nasce dall’indebolimento del lavoro, in netto contrasto con la sua rilevanza nell’economia della conoscenza. […] Nella cittadinanza il lavoro si esprime come attività umana che contribuisce a regolare le relazioni sociali, oltre la contrapposizione tra lavoratore e impresa”. [Bisogna] “ridurre le disuguaglianze, liberare il merito e promuovere una nuova alleanza tra Stato, terzo settore e privati ispirata al principio di sussidiarietà […] Per affermare una reale eguaglian – za delle opportunità occorre una rivoluzione copernicana che ponga al centro il merito e la responsabilità. L’Italia ha bisogno di una nuova stagione di liberalizzazioni”. Come si può notare, siamo sempre sul terreno del merito, del principio di sussidiarietà e delle liberalizzazioni: dove stanno le idee di sinistra? “Crediamo in un mercato aperto e regolato, ma non intendiamo affidare al mercato il controllo di beni essenziali come la salute, l’istruzio – ne e la sicurezza”. E questo dopo a – ver riaffermato il principio di sussidiarietà che, infatti, in Lombardia in modo particolare, ma anche altrove, ha permesso alla Compagnia delle Opere il quasi monopolio nella gestione dei servizi sanitari. Scrive poi che: “il principale problema italiano è se in futuro si potrà ancora parlare di Repubblica una e indivisibile […] Un’Italia unita da Nord a Sud fa bene prima di tutto agli italiani”; salvo poi affermare che “Il federalismo responsabile e solidale è la rotta da seguire per avvicinare le istituzioni ai cittadini”. Quale unità può prefigurarsi smembrando – in venti staterelli – un paese dove tuttora esiste una “questione meridionale”? E quanto un nuovo centralismo regionale – di questo si tratta quando si parla di federalismo – possa avvicinare le istituzioni ai cittadini rimane un mistero. “Il bipolarismo è una conquista della nostra democrazia”. “Non siamo classisti, non siamo elitari, non siamo populisti. Noi siamo un partito riformista perché crediamo che l’uomo possa cambiare le cose e che le cose possano essere migliorate”. Nel PCI i sostenitori di questa tesi non a caso si definivano “miglioristi”. Ora hanno trovato la loro collocazione naturale. Da questa sintesi della mozione Bersani emerge il dato di fatto che vi è una costante permanenza del PD sul terreno liberal-liberista.

*La prima parte di questo desto è stata pubblicata sul n. 2/2010 de l’ernesto.

Note

1 In C. Valentini, Il nome e la cosa, Feltrinelli, Milano, 1990, p. 54.
2 idem, p. 30.
3 M. D’Alema, La sinistra nell’Italia che cambia,Feltrinelli, Milano, 1997, pp. 78-79.
4 P. Fassino, Conclusioni al II Congresso deiDS, 18 novembre 2001.
5 P. Fassino, Per passione, Rizzoli, Milano,2003, pp. 160-161.
6 «Basta nostalgia. È il demone della sinistra», intervista al Corriere della sera, 12 ottobre2007.
7 Esponente del Partito d’Azione, favorevole al presidenzialismo.
8 Intervista al Corriere della sera, 24 luglio 2007.
9 Discorso al Lingotto, Torino, 24 giugno 2007.
10 idem
11 P. Bersani “Idee per il PD e per l’Italia