Da Porto Alegre

1. Riflettendo a caldo sull’esperienza di Porto Alegre è bene muovere da un primo dato elementare, tanto grezzo quanto incontrovertibile: in tale esperienza si esprime una ripresa – a livello di massa, di opinione diffusa – della passione e della di-
scussione politica; e, segnatamente, di una critica dell’esistente, seppure dai contorni non univocamente definiti. Non è affatto poco, anche ricordando il buio pesto entro cui i due decenni appena trascorsi hanno sprofondato le coscienze dei più. Si tratta dell’ennesimo segnale di un clima che va mutando. Ed è la medesima aria nuova che abbiamo ricominciato a percepire quando giovani di sedici-diciassette anni – anziché buttare il tempo sui “muretti”, come prevalentemente accadeva ai loro coetanei di una generazione fa – hanno ritrovato l’impegno civile e il gusto del pensiero critico; e, dalle aule delle loro scuole occupate, hanno messo in questione la controriforma scolastica e la privatizzazione dell’offerta formativa. Alla base di tali fatti, confusa quanto si vuole, vi è comunque l’idea che le cose si possono cambiare, che la realtà in cui si è quotidianamente immersi non è un destino naturale. Anche questo non è poco, visto che il segno più pesantemente regressivo e diffusamente introiettato nello scorcio finale del secolo passato è stato proprio un disperante senso di impotenza.
Ma qual è l’obiettivo del cambiamento? Quale l’ambito preciso della critica? Cominciamo intanto a dire che nessun obiettivo che stia sotto il segno del cambiamento potrebbe esser concretamente formulato se – nonostante i colpi della globalizzazione capitalistica e la cappa ideologica che la supporta – non tornasse a farsi largo nelle teste e nei cuori la convinzione della possibilità di trasformare l’assetto sociale esistente. Questo mi pare essere il principale degli effetti rigeneranti dei cosiddetti “movimenti”: la capacità di iniettare dosi massicce di ottimismo rivoluzionario, di galvanizzare il pessimismo della ragione estendendo la “contagiosa” convinzione che il mondo possa essere trasformato (e che, dunque, non siano eterni gli assetti costituiti). In questo preciso senso, i movimenti rappresentano (o dovrebbero rappresentare) un’opportunità per le stesse forze politiche organizzate. E, in questo medesimo senso, è sbagliato dire che in linea di principio vi si contrappongano: al contrario, essi sono indispensabili per rivitalizzarle, costringerle a verificare l’efficacia della loro azione di massa, affinare i loro sensori sociali e porle in sintonia con le nuove emergenze e modalità del conflitto. Bisogna dire che il Prc ha avuto il merito di intuire per tempo il montare del nuovo fermento sociale, ponendosi nelle condizioni di contribuire ad un suo consolidamento. Nessun merito, viceversa, può essere ascritto a chi si è tardivamente (e strumentalmente) accodato, dopo aver votato a favore della guerra di Bush.

2. L’incontro di Porto Alegre è dunque stato innanzitutto – per decine di migliaia di delegati, invitati, giovani di mezzo mondo – un bagno di discussione politica. Difficile seguirne compiutamente le articolazioni e gli spunti: l’impressione resta quella di un insieme differenziato e caotico di temi, di approcci e culture politiche, di peculiarità generazionali e provenienze geografiche. Stiamo in effetti parlando di una trentina di “conferenze” e di quasi novecento tra “seminari” e “oficinas” (laboratori): sarebbe una fatica improba anche solo classificarne per materia i titoli. Conviene quindi richiamare un primo vasto nucleo di ambiti tematici attraverso l’elenco dei riferimenti programmatici del Forum, così come lo propone un recente articolo di Vittorio Agnoletto: “Dalla battaglia per l’accesso all’acqua potabile e ai farmaci alla contestazione delle strategie della Fao nella lotta alla fame nel mondo; dalla richiesta dell’adesione al protocollo di Kyoto all’impegno contro il commercio degli armamenti e per la riconversione delle fabbriche d’armi; dal rifiuto della brevettabilità di parti di esseri viventi alla difesa dei beni essenziali e naturali contro il tentativo di brevettare piante e semi; dall’opposizione alla revisione degli accordi Gats (gli accordi sul commercio dei servizi), contro l’inserimento della scuola e della sanità quali beni di-
sponibili sul mercato a disposizione delle multinazionali, alla campagna contro la finanziarizzazione dell’economia, a favore della Tobin Tax, e all’impegno contro i paradisi fiscali e il riciclaggio del denaro sporco; dalla proposizione di nuovi indicatori di misura della qualità della vita alla consapevolezza dell’assoluta inaffidabilità del Pil utile solo per misurare la ricchezza acquisita dalle classi dirigenti locali; dalla campagna per la cancellazione del debito all’insediamento di un tribunale internazionale che avrà il compito di indagare la correttezza e la legittimità dei percorsi storici che stanno alla base della formazione del debito stesso…” (il manifesto, 13-2-2002).
Questo insieme di proposte, che emanano da altrettanti sfondi tematici, è parte del comune denominatore che tiene insieme nel “movimento dei movimenti” attitudini culturali e politiche tra loro diverse (da quelle con un connotato più marcatamente di classe a quelle di ispirazione solidaristica, da quelle ideologicamente più definite o dichiaratamente socialiste a quelle che sollecitano la promozione di un’istanza redistributiva e democratica). Per tutte, il punto di partenza – lo ha espresso sinteticamente Frei Betto – è “il fallimento dell’attuale modello di globalizzazione”, noi diciamo della globalizzazione capitalistica, con la sua spinta neoliberista e le sue guerre: “Siamo 6,1 miliardi di persone nel pianeta, 1,2 miliardi dei quali vivono sotto la soglia della miseria (reddito mensile inferiore ai 30 dollari) e 2,8 miliardi sotto la soglia della povertà (reddito mensile inferiore ai 60 dollari) (…) L’80% della produzione industriale del mondo è assorbita da appena il 20% della popolazione mondiale. E quattro cittadini statunitensi – Bill Gates, Larry Ellison, Warren Buffett e Paul Allen – possiedono insieme una fortuna superiore al reddito di 42 nazioni con 600 milioni di abitanti (…) Il libero mercato ha portato alla guerra, depaupera l’America Latina, porta l’Argentina al fallimento, sottopone il Brasile a un salasso mensile di due miliardi di dollari (…) Occorre trovare una via d’uscita, grazie alla quale il bene comune possa prevalere sull’interesse privato, i diritti umani sulla brama di lucro” (il manifesto, 5-2-2002).

3. Questa è la cornice. Ma nel grande contenitore di Porto Alegre, negli edifici dell’Università cattolica che hanno ospitato gran parte dei dibattiti, le concezioni più tipicamente antiglobal si sono intrecciate con la forte spinta politica del sindacalismo di classe: la Cut, la grande centrale sindacale brasiliana, ha unito la sua voce a quella delle organizzazioni sindacali argentine e italiane per indicare la concreta prospettiva dello sciopero generale a partire dai medesimi contenuti (la dignità del lavoro calpestato dalla furia neoliberista, la ricomposizione dell’orizzonte di classe frantumato dalle politiche di precarizzazione e deregolazione, il no alla guerra). Dal canto suo, Via Campesina ha concentrato le sue proposte seminariali sui “valori della cultura socialista”, su “la lotta per il socialismo oggi”, su “socialismo e nuovi rapporti di produzione”. E c’è chi – senza malizia alcuna e non sapendo presumibilmente nulla del congresso di Rifondazione Comunista – si è fatto promotore di incontri su “la lotta contro la guerra imperialista e la costruzione dell’internazionalismo all’inizio del secolo” o anche su “imperialismo e violenza”. Per carità, sono gocce nel mare di un inenumerabile assembramento di temi: ciò è detto unicamente per rendere percepibile la varietà e la diversità delle posizioni che hanno popolato questa planetaria riunione di compagne e compagni.
Tuttavia, al di là della proliferazione un po’ casuale e dispersiva delle sedi di discussione, occorre riflettere su un paio di considerazioni di portata più generale. Il clima complessivo del Forum è stato caratterizzato, per un verso, da una sorprendente radicalità dei contenuti, evidente in particolare nei suoi ambiti informali; e, per il verso opposto, dal peso della componente ‘moderata’, la cui presenza si è fatta questa volta sentire soprattutto nelle sedi “istituzionali”. Quanto al primo connotato, senz’altro ha inciso la peculiarità del contesto latino-americano: non solo il vento d’Argentina ha soffiato forte sulle iniziative di piazza, ma anche la stessa congiuntura politica brasiliana ha conferito una combattività ed una determinazione ideologica che a molti italiani ha ricordato – piuttosto che le attuali – le manifestazioni di movimento di tre decenni fa. I cortei (il primo dei quali davvero enorme, certamente sopra i 100 mila partecipanti) sono stati percorsi da parole d’ordine esplicitamente ispirate alla lotta anticapitalistica, ad un forte senso della solidarietà internazionalista (la Palestina era ovunque, su striscioni, manifesti e slogans come: ò palestino/è meu amigo/mexeu com ele/mexeu comigo) , alla convinzione che “un altro mondo socialista è possibile”. Detto per inciso, tale radicalità non ha riguardato semplicemente la galassia dei gruppi extraparlamentari latino-americani, ma ha coinvolto i grandi partiti e le loro articolazioni, a cominciare dal Pt. Numerosissimi e ben caratterizzati erano ad esempio i Sem Terra, collocati sul versante sinistro del partito di Lula, i quali raccolgono nelle loro comunità autogestite (terra e capitale in comune, a ciascuno secondo il suo lavoro) circa 400 mila famiglie contadine: un movimento che ha pagato il caro prezzo di oltre 1000 morti ammazzati negli ultimi dieci anni, sotto i colpi dei pistoleros del latifondo e della repressione di regime.

4. La seconda considerazione concerne, come detto, i condizionamenti esercitati dalla sinistra moderata soprattutto nel Forum delle autorità locali e in quello dei parlamentari: una presenza formalmente identificata in amministratori, sindaci di grandi città e deputati del Parlamento europeo (secondo i criteri che presiedono alla selezione dei partecipanti), la quale di fatto ha consentito che fossero ampiamente espressi i punti di vista (ma anche veti ed omissioni) dell’Internazionale socialista. Anche in questo caso, ha oggettivamente pesato la situazione politica locale e i suoi riflessi sulla dialettica interna al Pt: per una valutazione equilibrata, non si può prescindere da tale contesto. La delegazione del Prc è arrivata a Porto Alegre pochi giorni dopo l’assassinio del sindaco di Santo Andrè e a quattro mesi dall’uccisione del sindaco di Campinas: due rappresentanti del Pt impegnati e stimati, che interpretavano da sinistra il loro mandato in due città brasiliane di media grandezza. Durante la nostra permanenza, è sopraggiunta la notizia della devastazione della sede sindacale della Cut, a San Paulo, da parte di bande paramilitari. Tutto questo è avvenuto a qualche mese dalla scadenza delle elezioni presidenziali che decideranno chi dovrà governare in Brasile: dunque non in un paese qualsiasi, ma in un consistente pezzo del “giardino di casa” degli Stati Uniti. Si può ben capire che, in una simile situazione, vi sia chi cerchi sponde politiche internazionali (in questo caso europee) in vista di una prospettiva delicatissima, quale che sia l’esito elettorale. Di ciò, evidentemente, hanno approfittato gli esponenti moderati, per tentare di sbilanciare a destra le sedute “istituzionali” e i loro documenti finali. Senza successo, però: grazie anche a Rifondazione Comunista. Il documento finale degli amministratori locali, in un contesto non certo privo di formulazioni e dichiarazioni di intenti generiche, dice comunque cose chiarissime in materia di inclusione sociale, rigetto delle privatizzazioni e primato della sfera pubblica, politiche partecipative. Successivamente il Forum dei parlamentari, pur mantenendo inalterato un documento in cui si tace della guerra (che non ha ovviamente avuto l’adesione del Prc), è alla fine indotto ad assumere un testo proposto da Fausto Bertinotti e Luigi Vinci che, viceversa, conferma quello che rimane uno dei due capisaldi dell’incontro di Porto Alegre e del suo Forum sociale: il ripudio della guerra e la condanna della vocazione bellicista statunitense. Una soluzione mediata e comunque apprezzabile perchè strappata in condizioni non facili, grazie anche alla sintonia con i rappresentanti cubani.
Ancora due osservazioni in proposito. Le difficoltà procurate dalla presenza moderata nel corso dei “Forum istituzionali”, possono tramutarsi in grandi opportunità, proprio in virtù del peso politico che quella presenza conferisce alle risoluzioni approvate: ora sarà difficile per gli amministratori di centro sinistra ignorare in sede locale quel che hanno approvato in sede globale. In ogni caso, il Prc non starà a guardare, sin dalle prossime elezioni amministrative. La seconda considerazione riguarda precisamente Rifondazione Comunista. Io non so se utilizziamo tutti nella stessa accezione la nozione di “egemonia”. So, però, che troppo spesso in sede congressuale badiamo più alle parole che non ai fatti: e potrà capitare che – se utilizzata da un “partitista” – quella nozione possa fatalmente evocare la metafora del “mettere il cappello” (ovviamente sul movimento). Nei congressi, duelliamo con parole senza capirci; sul campo, ho visto invece una delegazione del Prc fare egemonia: cioè confrontarsi con una realtà complessa (poiché Porto Alegre, come abbiamo visto, non è “uno” ma “molti”), stabilire nella discussione interna una linea di condotta, non restare alla coda dei fatti e – insieme – tentare di modificare lo stato delle cose sulla base di quella linea di condotta. Questo io chiamo “fare egemonia”: chissà se la forza delle parole (congressuali) sarà pari a quella sprigionata spontaneamente dai nostri concreti comportamenti.

5. Tornato in Italia, ho potuto prendere visione di notizie e commenti su Porto Alegre comparsi sulla stampa o anche circolanti in Internet. Il Corriere della Sera del 29 gennaio scrive tra l’altro: “Con molta diplomazia gli organizzatori sono riusciti a disinnescare la miccia Fidel Castro: invitato dai Sem Terra brasiliani, la presenza del leader cubano è infine saltata pare soprattutto grazie all’insistenza di Bernard Cassen, direttore della rivista francese Le Monde Diplomatique“. Fonti cubane hanno confermato peraltro una disponibilità di Fidel a partecipare all’incontro di Porto Alegre: se la notizia del Corriere avesse un fondamento, vorrebbe dire che si è persa una grande opportunità (quella appunto di ascoltare la voce indiscutibilmente più prestigiosa tra quelle che si levano contro la globalizzazione capitalistica). In ogni caso, qualora fossero stati fatti valere determinati criteri di selezione, ebbene ciò vorrebbe dire che è necessario rivedere quei criteri: non è poi così democratico consentire da un lato la presenza massiccia di rappresentanti dell’Internazionale socialista (che hanno votato la guerra!), seppure dietro lo schermo di un dispositivo formale che autorizza la partecipazione di amministratori e parlamentari; e, d’altro lato, impedire di fatto la partecipazione di un esponente comunista. Credo che si debba lavorare (e qui diviene essenziale il ruolo del Prc) perché nel “movimento dei movimenti” – dentro la cornice unitaria che esso si è dato e con riferimento alle sue di-
scriminanti di fondo – non siano posti veti alla partecipazione, che deve essere la più larga possibile e non unidirezionale. Per rimanere al caso in questione, è bene comunque ricordare che nel Forum dei parlamentari era presente una nutrita delegazione cubana.
Il giudizio di inadeguatezza e insufficiente trasparenza dei criteri di partecipazione è tra l’altro confermato dal veto posto alla presenza di movimenti di liberazione quali le Farc colombiane, escluse in quanto “organizzazioni armate”. Se un tale principio fosse applicato rigorosamente, si troverebbe a non avere cittadinanza all’interno del Forum la gran parte delle lotte antimperialiste e di liberazione, condotte da un secolo a questa parte. Sono tuttavia convinto che, anche su tali discutibilissime scelte, abbia pesato l’imminente scadenza elettorale brasiliana.
Vorrei infine accennare ad un documento comparso in rete e firmato da una ventina di dirigenti sindacali brasiliani – molti dei quali della Cut – che dichiarano e motivano la loro non partecipazione al World Social Forum. Il documento, muovendo dalla tesi (condivisibile) che “non si può sperare di cambiare il mondo senza mettere in questione i rapporti produttivi e contendere la proprietà privata dei maggiori mezzi di produzione”, sottolinea la sostanziale internità al sistema dominante delle tematiche e delle proposte del Social Forum, nonché le sue compromissioni con quegli stessi organismi internazionali che dice di voler combattere. Il documento stigmatizza il fatto che “le politiche della società civile sono ufficialmente quelle della Banca Mondiale”, che le ONG (alcune delle quali sono all’interno della struttura promotrice del Forum) sono di fatto utilizzate come alternativa alla sfera pubblica e non sono estranee ai metodi dello sfruttamento capitalistico, che la Tobin Tax serve in sostanza ad oliare il meccanismo dei movimenti di capitale (tant’è che è appoggiata da George Soros e dal presidente brasiliano Cardoso), che infine la “democrazia partecipativa” è uno specchietto per le allodole dietro cui si profila “l’idea di una società senza conflitti e senza contraddizioni”. Questa posizione – pur individuando in termini condivisibili alcuni elementi di ambiguità – ha il capitale difetto di semplificare e bollare in anticipo quello che viceversa è un processo complesso e per nulla concluso: in questo senso, mi pare radicalmente sbagliata la scelta fatta da questi compagni di starne fuori. Essi vedono solo le ambiguità; non vedono le potenzialità che pure, allo stato dei fatti, sono – direi – eclatanti. Nessuno può pensare che, ad esempio, la proposta del bilancio partecipativo sia per sua intrinseca natura impermeabile a pressioni che tentino di stravolgerne il segno, trasformandola da strumento partecipativo a strumento concertativo: nelle discussioni del Forum, un tale snaturamento si è già profilato.
Ma proprio per questo i nostri compagni sono intervenuti denunciando il carattere regressivo di tale operazione.
E’ evidente che il rischio di condizionamenti o anche involuzioni di segno moderato è sempre all’ordine del giorno: lo abbiamo visto, in generale, a Porto Alegre. Ma tutto questo è parte di una battaglia politica che è in corso e di cui – lungi dall’assumere attitudini aventiniane, da purismo rivoluzionario – dobbiamo essere protagonisti. Precisamente ciò che il Prc dovrà cercare di fare.