Mentre consegno queste note alla redazione de l’Ernesto (28 settembre), ancora non sappiamo quale forma assumerà l’azione militare degli Usa e della “fedele” Gran Bretagna, motivata con l’esigenza di una risposta forte e punitiva nei confronti del terrorismo internazionale. Assai diversi tra loro sono gli scenari possibili e i processi che possono innescare, se si considera che anche all’interno dell’amministrazione Bush (e della Nato) si confrontano ipotesi tutt’altro che equivalenti. E ciò spiega, tra l’altro, l’estrema cautela con cui si muovono grandi potenze nucleari come Russia e Cina. Ciò nondimeno, a quasi tre settimane dai tragici avvenimenti di New York, e alla luce delle dinamiche più recenti del contesto internazionale, è possibile avviare una riflessione più complessiva.
La nostra condanna del terrorismo è senza riserve; così come quella del terrorismo di Stato e degli embarghi che fanno strage di vittime civili: i 400.000 bambini irakeni morti negli ultimi 10 anni non suscitano nel “civile” Occidente analogo cordoglio né domande di punizioni esemplari. Come ha ricordato pochi giorni fa Fidel Castro, con la consueta chiarezza e lucidità, “quali che siano le cause profonde, i fattori di natura economica e politica e i maggiori responsabili del terrorismo, nessuno può negare che esso costituisca oggi un fenomeno pericoloso e moralmente indifendibile, e che esso vada sradicato”. Non vi è giustificazione alcuna “per la morte di migliaia di cittadini innocenti. Ma chi ne approfitta? L’estrema destra, le forze più reazionarie, che aspirano a schiacciare la ribellione crescente del mondo e a liquidare tutto ciò che di progressivo in esso persiste”. E se “questa azione è stata un errore enorme e una colossale ingiustizia, quali che siano gli organizzatori e i responsabili” (di cui ancora non sappiamo assolutamente niente, non uno straccio di prova !), la risposta non può essere quella di “attivare in modo irresponsabile una guerra che potrebbe tradursi in un massacro infinito di persone altrettanto innocenti”.
“Gli strateghi del sistema imperialista – sottolinea Fidel – sanno molto bene quello che fanno e perché lo fanno. Approfittando della commozione per il sincero dolore di tutti i popoli della Terra per l’attacco terrorista atroce e demenziale di cui il popolo degli Usa è stato vittima, gli ideologhi più estremisti e i falchi più bellicosi, da tempo installati in posizioni di potere privilegiate, hanno preso le leve del comando del paese più potente del pianeta, le cui possibilità militari e tecnologiche, le cui capacità di distruzione e di morte sono enormi; mentre le sue attitudini all’equità, alla serenità, alla riflessività e alla calma sono, al contrario, minime”.
“Chiedo a tutti – esorta Fidel – di riflettere sulle idee contenute” nel discorso di Bush al Congresso :
“- «Chi non è con noi è con il terrorismo». Nessuna nazione viene esclusa dal dilemma, neanche gli Stati più grandi e potenti; nessuno è esente dalla minaccia di guerra o di attacco“. (E l’amministrazione Usa dichiara che sono almeno 50 i Paesi che darebbero protezione ai “terroristi”. Con una lista in cui vengono indicati come tali formazioni come le Farc colombiane e il Pkk curdo-ndr).
“-«Impiegheremo tutte le armi da guerra che saranno necessarie». Non si esclude alcun sistema, morale o meno, alcun assassinio o minaccia, siano essi di tipo nucleare, chimico, biologico o altri.
-«Non si tratterà di una guerra breve, ma prolungata negli anni, senza precedenti nella storia. Di una lotta del mondo intero, di una lotta di civiltà. Le conquiste del nostro tempo e le speranze per il futuro dipendono da noi».
E infine, l’ annuncio di un’epoca di rischi apocalittici, inaudito in un discorso politico pronunciato alla vigilia di una guerra : « Non sappiamo la piega che prenderà questo conflitto, ma ne conosciamo bene l’esito…E sappiamo che Dio non è neutrale »”. “Davanti al Congresso – nota Fidel – il presidente ha evocato lo scenario di una dittatura militare sotto il comando esclusivo della forza, senza la minima legalità o istituzione internazionale. L’Onu, tenuta assolutamente fuori gioco in questa crisi (e neppure menzionata nel discorso di Bush – ndr), non avrebbe alcuna autorità né prerogativa: vi sarebbe un solo capo, un solo giudice, una sola legge. E tutti abbiamo ricevuto l’ordine di allearci o col governo americano o col terrorismo”. In una precedente dichiarazione, il governo cubano rilevava che “grave quanto il terrorismo è il fatto che uno Stato proclami il diritto di uccidere a sua discrezione, in qualsiasi angolo del mondo, senza norme legali né processi e persino senza prove”; e che “tali pronunciamenti configurano l’emergere di una tendenza fascista e terrorista”.
Colpire da soli
In una interessantissima intervista a Le Monde (22.09.2001), dove il ministro degli esteri francese Hubert Vedrine riferisce dei colloqui avuti col presidente Chirac alla Casa Bianca con Bush e Colin Powell, si afferma: “gli americani non vogliono mettere in piedi una coalizione militare in senso stretto…e niente della loro riflessione indica che essi intendano servirsi della Nato…Essi impiegano questo termine “coalizione” per l’insieme delle azioni che si svilupperanno in ogni campo della lotta al terrorismo… Sul terreno militare propriamente detto, gli Stati Uniti vogliono prima di tutto reagire da soli (corsivo mio – ndr)”. Ovvero: scavalcando completamente le Nazioni Unite e la stessa Nato, essi pretendono dal resto del mondo una solidarietà politica, diplomatica, morale, logistica, ma riservano solo a sé stessi il monopolio dell’uso della forza militare. Pretendono cioè una sorta di mandato unipolare senza vincoli.
In una recente intervista a l’Unità (19.09.2001) l’ex ambasciatore italiano alle Nazioni unite, Francesco Paolo Fulci, ha evidenziato che, in particolare, “gli Stati Uniti non vogliono farsi legare le mani dall’Onu, dove è pronto a scattare il diritto di veto della Cina”, che da giorni chiede insistentemente (come l’Iran) la convocazione formale del Consiglio di Sicurezza, e “ che esso assuma la guida della coalizione internazionale contro il terrorismo” (l’Unità, 20.09.2001). “L’agenzia di informazione cinese – scrive ancora l’Unità – cita un ammonimento rivolto ieri, per telefono, dal presidente Jang Zemin al premier britannico Tony Blair. « E’ necessario che il Consiglio di sicurezza svolga il suo ruolo. Ogni azione militare deve rispettare i principi e gli obiettivi dello statuto delle Nazioni unite, nonché le norme del diritto internazionale» (e bisognerà pure spiegare un giorno per quale motivo quasi tutta la stampa occidentale, anche di sinistra, nasconde questa posizione della Cina e la sua totale coincidenza con quella espressa dalla quasi totalità del movimento pacifista…). “Per tutta risposta – commenta l’Unità – il segretario di stato americano Colin Powell ha telefonato al segretario generale dell’Onu Kofi Annan e, secondo un portavoce, “ha offerto di coordinarsi con lui in vari modi”. Una offerta ben diversa dalla normale procedura per affrontare le crisi nel mondo: convocazione formale del Consiglio di sicurezza, approvazione di una risoluzione, eventuale mandato a una coalizione internazionale di riunire le forze per applicarla”.
Anche l’orientamento e il comportamento della Russia di Putin, su cui si è detto tutto e il contrario di tutto, non va assolutamente dato per scontato. Lo ha sottolineato più volte nei giorni scorsi un osservatore ben informato come Giulietto Chiesa in una serie di commenti ed efficaci apparizioni televisive. Dove ha affermato, con cognizione di causa, che sarebbe un grave errore interpretare l’approccio di Mosca, di cui ancora non sono chiari e definiti tutti gli aspetti, come dettato da una linea di subalternità agli Stati Uniti.
Una guerra lunga e dura
Quello che è reale è il pericolo di una guerra “lunga e dura” (Bush), capace di protrarsi negli anni e di coinvolgere aree crescenti del pianeta, innescando processi e reazioni a catena, fino a prefigurare un conflitto di proporzioni mondiali. Quando un uomo riflessivo e ponderato come il cardinale Carlo Maria Martini (che certamente non è un fanatico estremista né un commentatore in cerca di sensazionalismo) parla del “rischio di una terza guerra mondiale”; e – sapendo quello che dice – afferma di “sperare che gli americani se ne rendano conto”, significa che stiamo già camminando sull’orlo del baratro. Si profila comunque il rischio di una crescente e duratura militarizzazione delle relazioni internazionali, di una drastica limitazioni dei diritti democratici nella vita dei popoli e delle nazioni : in un contesto mondiale che – in nome della lotta al terrorismo – gli Stati Uniti vorrebbero sempre più dominato dalla loro supremazia militare.
Una escalation perversa di guerre e ritorsioni terroristiche, magari a base di armi chimiche o batteriologiche (le cosiddette “atomiche dei poveri”), può minacciare la vita di milioni di persone innocenti: anche le nostre vite, se l’Italia vi fosse – come già in parte lo è – coinvolta. E ciò grazie a un governo asservito agli Stati Uniti e a una “opposizione” di centro-sinistra priva di spina dorsale e senza quella dignità (e saggezza) che ancora dimostra di possedere un vecchio conservatore democristiano come Giulio Andreotti. Per cui siamo quasi al punto da rimpiangere (e ce ne vuole) il Craxi di Sigonella.
Il nuovo quadro mondiale modifica le priorità della politica, influisce fortemente sulla collocazione di tutte le forze politiche e sociali, sul dibattito interno della sinistra e del sindacato, sulla stessa riflessione dei comunisti. Non rinunciamo a credere che in ogni ambito, la gravità del momento possa incoraggiare tutte le forze ostili alla guerra a scendere in campo, prima che sia tardi. Ma ci ritornerò.
Vorrei invece, a questo punto, porre un interrogativo che sembra essere sfuggito, anche a sinistra, alla più parte dei commenti all’attacco terroristico dell’11 settembre e alla reazione degli Stati Uniti. Come se quest’ultima, e in particolare la sua proiezione militare globale, non avesse alcun legame forte di continuità con la politica internazionale degli Usa, così come essa è venuta evolvendo nell’ultimo decennio, e segnatamente con la nuova amministrazione Bush. Come se si trattasse di un fulmine a ciel sereno che improvvisamente e inaspettatamente si scatena, e non invece, come è lecito ritenere, una accentuazione e accelerazione esponenziale – favorita dall’attacco terroristico – di una linea da tempo in gestazione.
Assai prima dell’11 settembre 2001, la nuova amministrazione Bush aveva reso evidente il proprio obiettivo strategico in campo internazionale : vincere la competizione globale economica e politica del XXI° secolo, assicurare agli Stati Uniti d’America (al capitalismo americano, cioè all’imperialismo americano) una egemonia mondiale incontrastata, con il perseguimento di una schiacciante superiorità tecnologico- militare, con l’uso spregiudicato e unilaterale di tale primato e, se necessario, con il ricorso alla guerra.
Il numero di luglio 2001 di Le Monde Diplomatique, che non è un giornale comunista, ma esprime orientamenti vicini alla sinistra socialista francese, con simpatie terzomondiste e “no global”, ha dedicato due importanti articoli (Philip Golub e Michael Klare) a sostegno di questa tesi, definendo la nuova amministrazione Usa “un governo da guerra fredda”. E ha ricordato che “George W. Bush e la sua squadra di governo hanno irrigidito notevolmente le relazioni bilaterali con la Cina (e rafforzato la cooperazione militare con Taiwan – ndr); rimesso in discussione il trattato Abm del 1972 con la loro decisione di mettere a punto il sistema di difesa antimissile Nmd; annunciato la loro intenzione di militarizzare lo spazio; bocciato il protocollo di Kyoto sull’ambiente; silurato il lavoro dell’Ocse sul controllo dei paradisi fiscali…”. Hanno inoltre respinto la ratifica di Trattati sulla messa al bando delle armi batteriologiche e dei test nucleari; hanno messo in guardia i paesi della Nato sul fatto che la Russia di Putin potrebbe tornare ad essere una “minaccia per l’Occidente”; hanno dato nuovo impulso al progetto di espansione ad Est della Nato (mentre osteggiano apertamente e duramente la formazione di un esercito europeo con un comando “indipendente” dalla Nato), attribuendo a questa Grande Nato dominata dagli Usa il diritto di intervenire con la forza armata in qualsiasi parte del mondo, scavalcando ed esautorando le Nazioni unite. Hanno ripreso i bombardamenti sull’Iraq; coperto la linea oltranzista del governo israeliano di Sharon nello scacchiere mediorientale; incoraggiate le tendenze secessionistiche del Montenegro, destabilizzata la direzione di Kostunica in Yugoslavia con la vicenda della consegna di Milosevic al Tibunale dell’Aja (in spregio di ogni diritto internazionale) e riacceso il conflitto militare nei Balcani (Macedonia), per poi giustificare l’intervento della Nato con un ruolo solo apparente di mediazione, in realtà volto a consolidare il già esteso protettorato atlantico sull’intera regione. “Una regione – scrive Il Sole 24 ore (29.06.2001 – il cui valore strategico” sta nell’essere “il punto di passaggio dei collegamenti stradali e ferroviari dell’Europa con il Medio Oriente e l’Asia …e dove i Corridoi tra Nord-Sud ed Est-Ovest (il Decimo e l’Ottavo) sono il tracciato possibile non solo di auto e treni, ma anche delle pipelines dall’Oriente di gas e petrolio”.
“Un giorno dopo l’altro – scrive Le Monde Diplomatique – si allunga la lista di questi atti piromani… che manifestano la volontà costante di privilegiare l’azione unilaterale, ed il concomitante rifiuto dell’eventualità che i trattati multilaterali ed il diritto internazionale possano circoscrivere, per quanto marginalmente, la sovranità degli Stati Uniti. Al punto che John Bolton, da poco nominato assistente di Colin Powell agli Affari esteri, avrebbe affermato in privato che «il diritto internazionale non esiste»…D’ora in poi verrà data priorità allo sviluppo e allo spiegamento di forze “high-tech” flessibili, capaci di intervenire ovunque nel mondo, e alla corsa tecnologica (per) garantire in modo permanente il primato delle forze armate Usa”. E, con buona pace dei teorici (alla Toni Negri) della “fine dell’imperialismo” e della nascita di un ”impero senza centro” in cui si dissolverebbero gli Stati-nazione, si sottolinea che “la potenza militare conserva inalterata tutta la sua importanza nelle relazioni tra Stati”, come hanno avuto modo di constatare alcuni importanti “concorrenti economici” degli Usa come “tedeschi e giapponesi”, rivelatisi “più che mai subalterni rispetto alla potenza militare americana”.
Secondo Le Monde Diplomatique, quella che lo stesso Bush ha definito “ «la strategia americana di guerra per il XXI° secolo» …poggerà su tre pilastri. Prima di tutto, l’america-centrismo, cioè una dottrina di impiego delle forze che massimizzi gli «interessi nazionali permanenti» (Bush), anche nelle operazioni congiunte con gli alleati. In secondo luogo, la global reach, la capacità di proiettare la potenza militare Usa ovunque, in qualsiasi momento, in qualsiasi circostanza. Infine, la supremazia perpetua, o per meglio dire l’utilizzo della scienza, della tecnologia e delle risorse economiche per assicurare sempre e comunque la superiorità delle forze e degli armamenti americani…nell’arco di tutto il XXI° secolo”. La nuova amministrazione Usa dunque “è ben decisa ad innovare (corsivo mio – ndr), dando ai militari i mezzi per combattere e vincere ovunque, e in particolare nell’est asiatico…per scongiurare che una singola potenza o una coalizione di paesi possa minacciare la stabilità internazionale, in particolare in Asia”.
“Per mantenere questa posizione di forza, Bush intende sfruttare l’enorme potenziale scientifico e tecnologico del paese, di modo che le sue armi, offensive e difensive, siano sempre una o due generazioni più avanzate rispetto a qualsiasi eventuale nemico”. E “lo scudo antimissile Nmd – che Bush definisce
Strategia del primato
Questa “strategia del primato” è stata elaborata dal Pentagono già nel 1992 in un documento riservato, Defense Policy Guidance 1992-1994, all’indomani della guerra del Golfo (cit. in MD, aprile 1992). “Scritto a quattro mani da Paul Wolfowitz e I. Lewis Libby, oggi segretario aggiunto alla difesa l’uno e consigliere per la sicurezza del vice-presidente Dick Cheney l’altro, il documento esortava decisamente a “impedire a qualsiasi potenza ostile il dominio di regioni le cui risorse le consentirebbero di accedere allo status di grande potenza”, a “dissuadere i paesi industriali avanzati da qualsiasi tentativo che miri a contestare la nostra leadership o a ribaltare l’ordine politico ed economico costituito” e a “impedire l’ascesa di un futuro concorrente globale”. Tesi successivamente riprese ed elaborate da Zbigniew Brezinszi ne “La grande scacchiera”, dove si precisa che il cuore della “partita per la supremazia globale è l’Eurasia, il continente più grande del globo, dove vive il 75% della popolazione mondiale ed è concentrata gran parte della ricchezza del mondo, sia industriale che nel sottosuolo, che incide per il 60% sul Pil mondiale e per tre/quarti sulle risorse energetiche conosciute”. E dove, osserva Il Manifesto (4.9.2001), la principale preoccupazione degli Stati Uniti – che in quella regione non sono egemoni – è quella di “impedire la formazione di una triade Russia-Cina-India, di cui è potenziale precursore il trattato di amicizia e cooperazione firmato a luglio da Mosca e Pechino”. Mentre Il Foglio (26.09.2001), citando uno dei maggiori esperti di geopolitica asiatica, Alessandro Grossato, titola: “L’Eurasia è il cuore della Terra, chi la prende possiede il mondo”.
E’ appena il caso di ricordare che l’Afghanistan si trova proprio nel cuore dell’Eurasia, al crocevia tra Russia, Cina e India. Scrive Il Manifesto (21.09.2001) che “l’area in cui gli Stati Uniti stanno preparando l’azione militare, ufficialmente diretta a scovare ed eliminare Bin Laden e la sua organizzazione terroristica, è per gli Usa di crescente valore strategico: la zona comprendente Afghanistan e Pakistan confina, da un lato, con Cina e India (potenze emergenti che gli Usa temono) e, dall’altro, con il sempre più importante “corridoio petrolifero” che va dal Caspio al Golfo. Qui Bush, un uomo solo al comando, anzi un petroliere al comando – qualcuno si ricorda che lui e il vicepresidente Cheney, sono potenti rappresentanti delle lobby petrolifere americane? – intende piantare le prime bandiere della sua crociata infinita”.
Competizione globale e pericolo di guerra
Si pone a questo punto la domanda: per quale motivo gli Stati Uniti, che pure continuano ad essere la più importante potenza economica e tecnologica del pianeta, attribuiscono un peso così determinante alla supremazia militare nella competizione globale del XXI° secolo, proprio all’indomani del crollo del sistema sovietico, cioè del loro principale antagonista del secolo scorso?
Nel 1945, all’indomani della seconda guerra mondiale, l’economia Usa incideva per il 50% sull’intero Pil mondiale, con una egemonia economica planetaria indiscussa, anche nell’ambito del mondo capitalistico. Oggi tale incidenza Usa si è dimezzata, quella dei paesi oggi riuniti nell’Unione europea è cresciuta a un livello equivalente (25%), mentre il solo Giappone si colloca all’11%.
Gli effetti di questo riequilibrio sono stati accentuati dal crollo del sistema sovietico, il cui antagonismo nei confronti del mondo capitalistico induceva le maggiori potenze Occidentali ad accentuare gli elementi di coesione e compattezza politico-militare attorno alla leadership statunitense, l’unica in grado di bilanciare il potenziale nucleare dell’ Unione Sovietica e di garantire la supremazia complessiva del sistema capitalistico a livello mondiale, nei confronti della sfida rappresentata dal socialismo e dalle lotte di liberazione dei popoli. Il venir meno della “minaccia” sovietica ha reso più evidenti e liberi di manifestarsi interessi competitivi tra le diverse potenze capitalistiche e imperialistiche: elementi di concorrenzialità che possono assumere forme e intensità diverse nelle diverse situazioni storico-politiche, ma che sono strutturalmente inerenti alla natura stessa del sistema capitalistico e che nel corso del ‘900 sono stati all’origine di ben due guerre mondiali.1
Questi elementi di competizione vengono accentuati da una dimamica dello sviluppo dell’economia mondiale in cui sono destinati a crescere gli elementi di multipolarità e di emersione di nuove potenze regionali. Secondo uno studio recente dell’Ocse, l’Organizzazione dei paesi capitalistici più sviluppati, stante gli attuali e/o prevedibili indici di sviluppo dei diversi paesi, nel 2020 le tre maggiori entità del mondo capitalistico (Usa, Giappone e Unione europea: la cosiddetta triade), che oggi esprimono – come abbiamo visto – oltre il 60% del Pil mondiale, scenderebbero al 28% (Usa 11%, Giappone 5%, Ue 12%). Contestualmente, quelle che vengono considerate le cinque economie regionali emergenti (Cina, Russia, India, Brasile, Indonesia) – che oggi incidono complessivamente per il 20% sul Pil mondiale – crescerebbero fino al 35% (rispetto al 28% della “triade”).
Confesso di non essere in grado in alcun modo di valutare il grado di attendibilità di questi studi e proiezioni (che, sia detto per inciso, considerano tutt’altro che obsoleta la nozione di economie e Stati nazionali). Ma non c’è dubbio che, se anche essi si avvicinassero con larghi margini di approssimazione alla realtà del prossimo ventennio, ci troveremmo comunque in presenza di una rivoluzione degli equilibri economici e geo-politici planetari.
Egemonia corazzata di coercizione
Se questo è il quadro, si comprende assai bene la ragione strategica che induce la parte più aggressiva dell’imperialismo americano e del suo Stato-nazione – che è oggi la fondamentale fonte di guerra – a fronteggiare e bilanciare i pericoli di un possibile ridimensionamento della propria influenza sull’economia mondiale (e sul controllo delle fondamentali materie prime e fonti di energia – petrolio, gas naturale, minerali e metalli strategici – sangue vitale dell’economia moderna) con il perseguimento di una schiacciante superiorità militare. Per dirla con Gramsci, con una egemonia fortemente “corazzata di coercizione” : nei confronti delle altre potenze capitalistiche e imperialistiche; nei confronti di paesi che possano vedere l’affermazione di un modello sociale e politico alternativo al capitalismo; con l’incognita rappresentata da grandi realtà che sono dentro una transizione dagli esiti non prevedibili, come la Cina e per altri versi la Russia; nei confronti di un moto di liberazione di popoli e paesi in cui vive (male) la grande maggioranza della popolazione del pianeta, e che certo non scomparirà dalla scena della storia, in un mondo ancora tanto caratterizzato da iniquità e squilibri, a tutte le latitudini. E di cui si è avvertita forte e chiara la presenza nella recente conferenza internazionale di Durban, in Sudafrica.
Come ha ben sintetizzato Giulietto Chiesa su Liberazione (25.09.2001), “per preservare il potere e la ricchezza di cui dispongono, gli Stati Uniti sono pronti ad andare a una guerra contro i restanti cinque sesti dell’umanità”.
Se questo è il quadro, come si fronteggia il pericolo di guerra, con quali forze, su quali obbiettivi ? Che cosa è necessario e possibile fare, qui ed ora, data l’imminenza di scenari inquietanti? E come neutralizzare, contestualmente, la minaccia terroristica e le dinamiche pericolose che essa contribuisce ad alimentare?
Va detto in primo luogo che solo un larghissimo schieramento internazionale, ovviamente assai diversificato per composizione sociale, politica, ideologica, religiosa, “contro la guerra e contro il terrorismo”, e segnatamente contro l’avvio di vere e proprie operazioni di guerra indiscriminata e devastatrice di interi popoli e Paesi, può avere la forza e la credibilità necessaria per isolare e contenere le spinte più pericolose e aggressive che si manifestano nell’amministrazione Usa, e tentare di far prevalere in essa (e nel popolo americano) gli orientamenti meno “barbarici”. Si sa che all’interno della Nato e nello stesso staff che attornia il presidente Bush non vi sono al riguardo orientamenti univoci, e vale la pena di ricordare che “piccole” variazioni di scenario possono costare la vita di centinaia di migliaia di persone innocenti, e avere ripercussioni politiche e militari mondiali tutt’altro che equivalenti.
Anche su queste divisioni bisogna fare leva, non già per accodarsi supinamente e preventivamente al “meno peggio”, come già stanno facendo, anche nella sinistra italiana ed europea, i tanti campioni dell’ opportunismo, ma per rendere ancora più forte ed incisiva la mobilitazione popolare, l’iniziativa politica e diplomatica internazionale, con la richiesta primaria che la crisi in corso sia immediatamente e pienamente ricondotta nelle mani dell’Onu: l’unica istituzione internazionale rappresentativa di tutta la comunità mondiale; l’unica ad avere la legittimità per accertare chi siano effettivamente i veri responsabili e i complici degli atti terroristici dell’11 settembre (ancora ignoti);
l’unica ad avere la credibilità per vagliare la fondatezza di eventuali prove di colpevolezza, con il concorso e la verifica incrociata dei servizi di intelligence delle maggiori potenze (non solo di quelli anglo-americani);
l’unica ad avere l’autorità per decidere le misure di “polizia internazionale” (non la guerra) ritenute necessarie per catturare i colpevoli, giudicarli, punirli. E per predisporre un piano di cooperazione internazionale volto a neutralizzare il fenomeno terroristico alla radice.
Nessuno idealizza l’Onu. Come ogni altra istituzione, fosse anche in linea di principio la più democratica, essa riflette – in ultima analisi – i rapporti di forza che si determinano nel mondo dei poteri reali. Ma non vi è oggi altra istituzione internazionale universalmente riconosciuta in cui si possa almeno provare a limitare la spinta degli Usa a “farsi giustizia” da sé, a stracciare ogni diritto internazionale e, in nome della lotta al terrorismo, a regolare altri conti per consolidare il proprio ruolo di gendarme mondiale. E se è vero che quasi tutti i paesi del mondo – la Russia, la Cina, l’India, il Giappone, il mondo arabo, i paesi non allineati, una parte almeno dell’Europa – non vogliono (chi più, chi meno, e per ragioni diverse) che si affermi una “dittatura militare” planetaria degli Stati Uniti, l’Onu è la sede legittima e primaria in cui tale propensione può meglio manifestarsi agli occhi del mondo (e non a caso gli Usa cercano di svincolarsene il più possibile).
Un movimento mondiale per la pace
La rivendicazione del primato dell’Onu (su cui misurare, anche in Italia, il maggiore o minore tasso di subalternità atlantica delle diverse componenti politiche e sindacali) deve accompagnarsi ad un impegno non più rinviabile di rifondazione di un nuovo movimento mondiale per la pace, che comprenda partiti, sindacati, movimenti politici, sociali e religiosi, popoli, Paesi, governi, Stati di ogni continente – tra loro necessariamente diversi, ma convergenti sul no alla guerra, sul sì al disarmo, senza preclusioni ideologiche. Un movimento in cui possa convergere, ed anzi diventarne forza dinamica e propulsiva, anche il nuovo movimento “no global”, capace di assumere la lotta contro la guerra come asse portante della propria identità, capace di rafforzare il suo legame col movimento operaio e le lotte sociali, anche in Italia. Capace di integrare e connettere le aspirazioni convergenti dei “popoli di Seattle” e di Porto Alegre con quelle dei “popoli di Durban”.
Vi è qui un grande impegno per i comunisti, per tutte le forze più conseguentemente rivoluzionarie e antimperialiste. Esse non debbono certo rinunciare a portare dentro il movimento le proprie analisi sul capitalismo, sull’imperialismo, sul ruolo della Nato, nè le proprie convinzioni e aspirazioni rivoluzionarie e di classe, da cui anzi il movimento per la pace può trarre maggiore forza e consapevolezza. Sapendo però che, oggi come ieri, la lotta contro la guerra impone la costruzione di uno schieramento mondiale e di convergenze tattiche che vanno ben oltre i confini di classe o di modello sociale.
Tra le tante cose che non dobbiamo smarrire dell’esperienza storica del ‘900, vi è anche la consapevolezza che il pericolo di una dittatura nazista sul mondo fu sconfitto – a caro prezzo – da una grande coalizione di forze. Una coalizione che poi certo si ruppe, con la guerra fredda, e non per caso, ma che lasciò il segno per decenni nella coscienza antifascista di intere generazioni. In quel tornante decisivo della storia dell’umanità, i comunisti e i movimenti operai seppero esprimere la propria funzione dirigente dentro un quadro assai vasto di alleanze e convergenze, che salvarono il mondo e permisero a tutte le forze rivoluzionarie e progressiste di collocare la loro lotta su un terreno più avanzato. Oggi il mondo in cui viviamo è assai diverso da quello di allora. Ma vi sono lezioni della storia che ancora parlano al presente.
Note
1 Nessuno sa cosa ci riserva il XXI° secolo, ma sarebbe a mio avviso sbagliato, fuorviante o quantomeno storicamente prematuro ritenere che tali contraddizioni siano ormai superate o in via di superamento, riassorbite dentro un “capitalismo globale” compatto e omogeneo: una sorta di “super-imperialismo”, o di “impero”, privo di contraddizioni e competitività tra capitalismi e imperialismi nazionali e regionali, e tra i rispettivi Stati o raggruppamenti di Stati (Unione europea) che ne supportano gli interessi nella competizione internazionale. Un “capitalismo globale” dominato da un sistema di grandi società transnazionali prive di un retroterra nazionale dal punto di vista degli assetti proprietari di comando, e quindi prive di una solida connessione con i rispettivi governi e Stati nazionali. Nessuno nega che la competizione inter- imperialista abbia i suoi momenti e strumenti di concertazione e di coordinamento tra le maggiori entità del capitalismo mondiale (Fmi, Banca mondiale, Wto, G7, Nato), volte a preservare gli interessi complessivi del sistema e a cercare di regolare le sue contraddizioni interne. Per cui la globalizzazione imperialistica, capitalistica, neo-liberale e la competizione che l’attraversa, sono aspetti peculiari e contradditori di un unico processo, non categorie interpretative tra loro escludentesi (una sintesi è possibile, se la si vuole cercare…). Nessuno nega che esistano società multinazionali caratterizzate da assetti proprietari misti, non riconducibili in modo nettamente prevalente a questa o quella nazionalità, in cui lo stesso capitale di comando veda la compresenza di capitali, che ne so, americani, giapponesi e tedeschi, con una sorta di transnazionalità “pura”. E che tale fenomeno sia destinato, in un futuro più o meno lontano, ad espandersi. Si vedrà.
Ma se si avesse la pazienza e il rigore – e gli studi non mancano – di esaminare ad esempio gli assetti proprietari delle prime 200 società multinazionali che da sole realizzano circa un terzo del Pil mondiale, che controllano il 50% del commercio estero e l’80% delle nuove tecnologie progettate, o gli assetti proprietari delle prime 100 banche o istituti finanziari del mondo, si scoprirebbe che, anche se esse operano attraverso una miriade di filiali sparse in giro per il mondo, la composizione dei loro Consigli di amministrazione e i capitali di comando che determinano le scelte fondamentali di quelle società sono ancora in massima parte riconducibili a questo o quel gruppo nazionale, solidamente intrecciato in primo luogo (certo non autarchicamente!) con i gruppi dirigenti del proprio Stato. Come è il caso ad esempio della Fiat in Italia, della General Motors negli Usa o della Volkswagen in Germania. Tanto è vero che in tutti gli studi economici si parla di multinazionali americane, giapponesi, tedesche, ecc.
Tanto è vero che una delle maggiori difficoltà che rallentano e intralciano il processo di integrazione politico-istituzionale dell’Unione europea, pur in presenza di una riconosciuta esigenza di coordinamento crescente di quei settori del capitalismo europeo più esposti alla competizione globale – esigenza da cui appunto è nata l’euro – sta nella persistente diversità di interessi e concorrenzialità dei principali capitalismi nazionali, che caratterizzano nei vari vertici europei il ricorrente alternarsi di convergenze e divergenze, a geometria variabile, tra Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Spagna…e di cui è stato emblematico teatrino l’ultimo vertice di Nizza. Una situazione che vede oggi ulteriori complicazioni, dopo la scelta della Spagna di Aznar e dell’Italia di Berlusconi di allinearsi – come da sempre la Gran Bretagna – alla politica estera e militare degli Stati Uniti, rendendo così ancora più problematico il progetto di autonomizzazione politico-militare di un neo-imperialismo europeo, imperniato sull’asse franco-tedesco, dalla tutela degli Stati Uniti.