Cuba, la stella solitaria

*Condirettrice, con Gianni Minà, di Latino America

PERCHÉ BISOGNA STARE DALLA PARTE DELL’ “ISOLA RIBELLE”.

Era la fine degli anni ottanta, quelli della “pacificazione e democratizzazione” del Centroamerica, della fine dei regimi militari nell’America del Sud, quelli del muro di Berlino e della fine del comunismo, il cui requiem più pietoso è stato recentemente officiato da colui che a quella fine ha contribuito con grande impegno, il nostro papa polacco, che ha benevolmente parlato della grande storia del comunismo come di “un male necessario”. La sinistra italiana ed europea non aveva occhi che per quello che accadeva all’est, e ne era al tempo stesso atterrita e affascinata. Lì si stava liquidando, in maniera inaspettata e vertiginosa, un’esperienza che aveva segnato il secolo e che aveva acceso le speranze di un altro mondo possibile; e quella liquidazione travolgeva al tempo stesso il più grande partito comunista d’Europa, il Partito Comunista Italiano, schiacciato dal fallimento del socialismo reale del quale era stato tradizionalmente critico, e speranzoso che, insieme al campo socialista, si liquidassero le tensioni della guerra fredda, il doppio imperialismo (?), il verticismo sovietico, ecc, ecc. E che non vide che quella caduta verticale squilibrava il mondo in maniera traumatica, e lo lasciava in balia di un’unica superpotenza delle cui virtù non dubitava.
A me è toccato di vivere quegli avvenimenti dall’altra parte dell’ Oceano, in America. Ma non nell’America amata da Veltroni e compagni, non nell’America “paese civile” e modello di modernità, non nell’America sempre pronta a “difendere” la democrazia e i diritti umani, bensì in quel fastidioso angolo del Caribe, in quell’isola “barbuda” che osava autodenominarsi “territorio libre en América”, che non stava esultando nei pochi e confusi anni della perestrojca di Gorbaciov e che, scandalosamente controcorrente, aveva tirato fuori un nuovo slogan che faceva arricciare il naso alla nostra sinistra, “socialismo o muerte”, proprio quando, avvolti nei veli del lutto, molti partecipavano al funerale nonostante che la voce avvertita di Eduardo Galeano spiegasse che quello non era il nostro funerale. Stavo a Cuba, e da lì mettevo il naso nel vasto continente latinoamericano né democratico né pacificato. Violenza in Colombia, corruzione in Perù e Venezuela, squadroni della morte in Salvador, desaparecidos in Guatemala, controrivoluzione in Nicaragua: ma ovunque elezioni e, pertanto, democrazia e coscienze tranquille. In Panama, un paese inventato nel passaggio di secolo fra otto e novecento, un paese di comodo per poter mettere le mani sul costruendo canale senza troppi impicci politici, il discutibile erede del nazionalista e popolare Omar Torrijos, il generale Noriega, tenta di giocare sporco in una tornata elettorale farsesca in cui tutti giocano sporco. Addestrato nella tristemente famosa Escuela de las Américas, sul libro paga della CIA, arricchitosi col traffico di droga, ma ammiratore di Torrijos e inaspettatamente nazionalista e antimperialista, il potere di Cara e piña (era questo il soprannome che si era meritata la sua faccia butterata dal vaiolo) risultava scomodo alla politica di ingerenza nordamericana sul “cortile di casa” latinoamericano. E poiché quel narcotrafficante, mezzo buddista e mezzo spiritista, stava guadagnando in popolarità in quel piccolo paese fatto di africani, indiani, arabi, indios cuna e di qualche bianco prepotente, Washington non trovò migliore strumento che mandare squadriglie di micidiali B32 a bombardare Città del Panama, capitale di una stato sovrano, producendo migliaia di vit-time civili, per riuscire a catturare dopo più di una settimana il temibile Noriega, che non era a capo delle sue truppe ribelli, ma si nascondeva, tremante, nelle sicure mura della nunziatura apostolica.
Le vicende del Panama furono accolte a Cuba con grandissima preoccupazione. Gli Stati Uniti, a poche miglia dall’isola ribelle, osavano bombardare un paese sovrano e non nemico, si accanivano sul quartiere proletario del Chorrillo sperimentando micidiali proiettili al fosforo bianco, producevano duemila vittime fra la popolazione civile, si impossessavano del Presidente in carica e lo trasportavano d’autorità in Florida, facevano giurare il gordo Endara nei sotterranei della loro inattaccabile base di Città del Panama e lo insediavano alla Presidenza, violavano in pochi giorni un numero infinito di norme internazionali senza che nessuno facesse una grinza, neanche la sinistra. Anche grazie al silenzio stampa imposto con il semplice metodo di trattenere i giornalisti in aeroporto proibendo l’accesso in città. Se, a poche settimana dalla caduta del muro di Berlino, gli Stati Uniti osavano tanto, cosa o chi li avrebbe potuti fermare nel caso avessero deciso di invadere Cuba, da trent’anni “paese nemico” e non più garantito dal campo socialista e soprattutto dall’Unione sovietica, i cui scricchiolii si sarebbero ben presto tramutati in un crollo?
Siamo nel dicembre del 1989. In quelle stesse settimane, in Europa, l’attenzione è tutta volta alle drammatiche vicende della Romania e della coppia Ceasescu, le cui crudeltà vengono brutalmente rivelate attraverso un’overdose di informazione: un reportage fotografico che sbatte in prima pagina i corpi straziati di donne e bambini di Timisoara. I due Ceasescu vengo eliminati dopo un processo sommarissimo mentre si inneggia alla ritrovata libertà dei rumeni. Si è poi saputo che la documentazione del massacro di Timisoara era un falso (ma non sappiamo ancora chi lo abbia commissionato), utile per “giustificare” la liquidazione dell’ex dittatore e di sua moglie senza tanti complimenti e senza badare alla tutela dei diritti propri di ogni essere umano. Il successivo destino della Romania è sotto gli occhi di tutti, e dell’uso che di quelle maestranze a bassissimo costo fanno i nostri industriali, anche.
Dunque la sinistra europea e la nostra sinistra non avevano tempo da dedicare ad un’area geografica che, in fin dei conti, da circa due secoli era appannaggio dei potenti Stati Uniti grazie al dictat dell’ottocentesca dottrina Monroe: “L’America agli americani”. Che poi quello slogan, nato in un clima di lotte per l’indipendenza dalla madre patria – e dunque di decolonizzazione –, alla fine del secolo ventesimo e del millennio si sia rivelato in modo assai chiaro latore di una dottrina neoimperiale, sembrava la pura retorica di una sinistra estrema e poco dialogante, come appunto si rivelava la testarda difesa del socialismo di Fidel Castro, del quale, per altro, veniva augurata l’imminente fine, che avrebbe rimosso quel fastidioso centro di resistenza, quella voce che denunciava i mali del capitalismo, i guasti del liberismo, lo strozzinaggio esercitato da Fondo Monetario e Banca Mondiale, il cambio disuguale, i pericoli per la sopravvivenza dell’umanità di una logica del profitto, il saccheggio delle risorse naturali da parte del primo mondo e perfino il furto del patrimonio genetico della flora e della fauna del terzo mondo.
Da allora sono passati quindici anni. Fildel Castro è ancora al timone della sua barca. e la denuncia costituita dall’esistenza stessa dell’isola ribelle – denuncia e proposta di un altro mondo possibile – continua ad irritare. Eppure la proposta di Cuba meriterebbe una maggiore serenità di giudizio, giacché le denuncie che da quell’sola sono partite e partono da ormai quarantacinque anni, in contesti molto cambiati e diversi, avrebbero potuto aiutarci a capire come si è arrivati, nel terzo millennio, alla bancarotta dei valori più elementari (non si tortura, non si occupa, non si bombarda indiscriminatamente, non si impone la democrazia con la violenza, ecc, ecc.) da parte della solitaria superpotenza che ancora molti, troppi, fra noi considerano epitome della civiltà moderna.
Il contenzioso aperto dagli Stati Uniti contro la Cuba rivoluzionaria, il dispiego di mezzi, di energie, di strategie, ivi compresi i complotti per eliminare fisicamente il lider máximo, l’invasione del territorio, gli atti di terrorismo, la destabilizzazione, la violazione degli spazi aerei, delle onde radio e televisive, l’occupazione della base di Guantánamo, le limitazione dei viaggi, delle rimesse degli emigranti, insomma tutto il diabolico apparato del bloqueo, a furia di ripetersi sembra aver stancato tanto quanto l’argomento che a Cuba non vi sono più analfabeti e tutti hanno diritto alla salute. Eppure dovrebbe balzare agli occhi la sproporzione che esiste fra l’aggressore e l’aggredito, e qualcosa avremmo dovuto capire delle reiterate denunce sporte da Cuba riguardo alle numerose violazioni del diritto internazionale perpetrate impunemente dalla superpotenza. Se si è consentito che gli Stati Uniti praticassero contro Cuba ogni arbitrio, perché sorprendersi se questa stessa arbitrarietà la esercitano adesso in tutt’altro scenario? Cuba (e l’America Latina) conoscono da due secoli la spregiudicatezza yankee; il numero di ag-gressioni, ingerenze, destabilizzazioni perpetrate nel subcontinente fanno parte della loro storia. Ma quella storia non ha interessato l’Europa più di tanto, ed ecco che il caso Cuba è stato ricondotto ad un episodio estremo della guerra fredda, della vertenza est-ovest, senza fare troppo caso alla partecipazione appassionata dell’isola rivoluzionaria al grande movimento di decolonizzazione che attraversava il mondo. È certo che l’ombrello sovietico ha permesso a Cuba di tenersi in qualche modo al riparo dalle mire yankee, che dalla metà dell’ottocento aspettano che “come una mela matura” la Perla delle Antille cadesse nelle loro mani, ma la storia di quella rivoluzione non può essere limitata ad un ruolo di piccolo clone della Rivoluzione d’ottobre nel cuore dell’Occidente.
La rivoluzione cubana, mentre resisteva “contra viento y marea” al nemico americano, si difendeva abilmente dalle trappole del modello sovietico e non rinunciava ad un ruolo guida nel Terzo mondo e in America Latina. Ma nel frattempo portava avanti l’esperienza rivoluzionaria con grande creatività, una creatività che si è andata moltiplicando negli ultimi due decenni e che è ora di riconoscerle, anche per dare una spiegazione alla resistenza con cui l’isola, contro ogni previsione, ha smentito la sciocca teoria del domino che la voleva inevitabilmente trascinata dalla caduta degli altri paesi del socialismo reale, ed ha riattivato in maniera modesta ma sufficiente l’economia nazionale e ha proseguito in un originale e complesso cammino di cambiamenti e di sperimentazioni alla ricerca di alternative possibili “all’ordine sfruttatore, escludente, neocoloniale, depredatore che domina il nostro continente” (1).
Secondo Martínez Heredia – ed è un’analisi che condivido – la Cuba attuale è teatro di una transizione dopo i primi decenni di una storia rivoluzionare che ha visto il coraggio della classe dirigente liquidare l’apparato repressivo batistiano, abbattere l’ordine vigente, rompere i legami neocoloniali con gli Stati Uniti, dar vita non ad una semplice riforma agraria ma ad una rivoluzione della vita, condurre una campagna di alfabetizzazione che si è poi trasformata in educazione permanente, così come la campagna per la salute pubblica ha trasformato il concetto stesso di medicina non solo sancendone il diritto per tutti e quindi la gratuità, ma producendo medici, tecnici e tecnologie pensati per la medicina di massa e preventiva, rivolta alle necessità dei paesi poveri. Cuba è riuscita ad avanzare con creatività, a trasformare la società in una gigantesca scuola, che è stata in grado di produrre un corpo intellettuale e di pensiero senza paragone nella sua area geografica e nel Terzo Mondo. Per questa ragione è oggi in grado di scambiare medici e maestri contro petrolio, qualcosa che i commentatori ad uso trovano scandaloso, senza spiegare per quale ragione debba avere maggior valore il petrolio che sgorga dalle viscere della terra di un medico o di un maestro per formare i quali sono stati necessari anni e la cui importanza per il miglioramento delle società non mi pare discutibile.
Continua Heredia: “Il paese ha dato un grande esempio di ciò che è obbligatorio e possibile per un potere e una società in transizione socialista, ha moltiplicato i suoi sforzi quando ha avuto più personale qualificato e più risorse. (…) Invece di abbandonare il progetto socialista per sopravvivere, ha fatto della sopravvivenza la base di un ambizioso progetto socialista. (…) L’esistenza di Cuba socialista nega un’assunto fondamentale dell’ideologia dominante nel mondo attuale: che sia necessario rassegnarsi al dominio del capitalismo sull’esistenza quotidiana, sull’organizzazione sociale e sulla vita dei paesi in tutto il mondo. Cuba è uno scandalo, e come tale provoca le reazioni più svariate” (2). L’alternativa socialista cubana, basata sul generale consenso checché ne dicano commentatori superficiali o nemici giurati, è viva e costituisce uno straordinario laboratorio sociale, in cui l’immaginazione sfida la norma e sfida, soprattutto, la fatalità che condanna un paese piccolo e povero alla sottomissione e all’obbedienza. In qualche modo Cuba – senza altri aiuti se non quelli che lei stessa è in grado di darsi – si è sottratta proprio a quel fatalismo che ha prodotto una generale rimozione di qualsiasi idea socialista, anche di quelle irrinunciabili, per accettare che “valori” siano solo quelli conservatori. Se ne lamentava Sandro Portelli all’indomani della vittoria elettorale di Bush: “Ma noi abbiamo delegato l’idea stessa di “valori” al cattolicesimo e alla destra, tanto che non ci riesce di dirlo, né di affermare valori altri, che vengono dalla storia della sinistra e della democrazia: giustizia sociale, uguaglianza, pace, non violenza, apertura culturale, accoglienza, internazionalismo, ambientalismo, una laicità rispettosa del diritto di tutti i credenti e non credenti. Sono valori capaci di accendere speranze, passioni, mobilitazioni. Ma invano le cercheremmo nelle piattaforme del nostro centrosinistra, o in quella di Kerry” (3). Io oso affermare che, al contrario, le troveremmo nell’apparato di idee che regge la società cubana, certo idee non tutte compiute, non tutte linearmente affermate, ma tutte presenti nell’orizzonte di attesa di quella società e molte vivamente presenti e reali. Portelli continua: “I limiti di sostenibilità del pianeta, le legittime richieste di vita migliore da parte della maggioranza dell’umanità, comportano un declino e una radicale revisione di uno stile di vita che dipende dall’accaparramento e dallo spreco di quote sproporzionate delle risorse limitate del mondo”. Questa semplice verità, nel caso di Cuba, offre la più esemplare delle chiavi di lettura della sua differenza, poiché la convinzione profonda di quanto sia indispensabile modificare radicalmente uno stile di vita in favore di un superiore principio di giustizia ed equità spiega il perché della resistenza di un intero paese, di una società che ha meritato uno struggente elogio di Santiago Alba, a cui lascio la parola: “Cuba ha capito molto bene la necessità di difendere simultaneamente l’universale (le stelle e le leggi), il generale (l’alimentazione, la salute, l’istruzione) e il collettivo (i mezzi di produzione e, per esempio, quelli del trasporto) nel bel mezzo di un uragano mondiale che ha privatizzato ormai non solo i beni generali e i beni collettivi, ma che sta privatizzando perfino i colori, le forme e perfino l’eccellenza morale. (…) Meno cattiva, meno violenta, meno ingiusta; questo meno di Cuba non è semplicemente la sottrazione soddisfatta di una quota invariabile, rassegnata, di un massimo di cattiveria; è nella storia l’apertura qualitativa – che la chiudano o no – verso un altro mondo. Sottrarre e resistere non significa compiacersi di un’ingiustizia relativa: significa attraversare il capitalismo, alle condizioni – questo sì – decise da lui, con un filo di altro colore; incubare nell’ambiente più ostile che si possa immaginare l’uovo di un’altra logica. Ce la faccia o no, la mettano in ginocchio o no, Cuba fa parte, allo stesso tempo, di questo e di un altro mondo; e quest’altro mondo lo possiamo difendere solo lì, su quella roccia, contro queste forze, fra queste pareti. Altrimenti dove? Fuori dalla storia? Senza geografia né armi né memoria né libido né strategie?”(4)

Note

1 Fernando Martínez Heredia, El corrimiento hacia el rojo, La Habana, 2001, p. 11. Farò continuo riferimento alle analisi di questo brillante intellettuale.

2 Ivi, pp. 31-33.

3 Sandro Portelli, “Interessi americani”, Il Manifesto, 6.10.04.

4 Santiago Alba, “Cuba vive, Cuba mide”, Rebelion, 13.10.04.