Crisi, guerra e classe operaia

Si aggrava la crisi di sovrapproduzione nel mondo capitalista

Una delle conseguenze dei terribili eventi dell’11 settembre è l’accelerazione della crisi economica capitalistica mondiale. Per comprendere il fenomeno in modo semplice basta riflettere sul processo che si innesca quando gli operai in cassa integrazione decidono di non essere più in grado di comperare delle camicie. Come Marx spiegava in un famoso capitolo della Teoria del plusvalore, il commerciante non può più pagare il camiciaio, che, a sua volta, non può pagare il produttore della stoffa, che, infine, non può pagare quanto deve ai produttori di macchinari, ai fornitori di energia, ecc.

Marx ha fondato la comprensione scientifica della genesi delle crisi. È necessario che ci sia un equilibrio tra produzione e richiesta sia dei consumatori sia dei produttori capitalisti. Ma il capitalismo è congenitamente incapace di mantenere tale equilibrio e gli squilibri o sproporzioni che ne risultano sono la base del fatto che il mercante non può più vendere le camicie, che le aziende ad alto contenuto tecnologico perdono migliaia di miliardi e che il capitalismo non può sfuggire alla crisi.

Per la classe operaia gli squilibri capitalistici si traducono in cassa integrazione, tagli salariali, fino alla fame ed alla miseria. Gli stessi squilibri appaiono ai capitalisti come “sovrapproduzione”, cioè produzioni eccedenti, che non possono essere vendute con profitto.

Nel Manifesto del Partito Comunista, i giovani Marx ed Engels sottolinearono le ricorrenti crisi capitalistiche che “mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese”, crisi causate da “troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio”1 Ma il termine “sovrapproduzione” non è più usato solo dai marxisti. Nel mese di febbraio di Fortune, la rivista dell’alta finanza, si legge “Ogni industria soffre di eccesso di capacità”, che sarebbe la sovrapproduzione dei mezzi di produzione che, in regime capitalistico, sono essi stessi delle merci. Fortune scrive pure: “È difficile trovare una sola eccezione: ci sono troppe fabbriche di componenti di computer, troppe acciaierie, troppi pescherecci, troppi pneumatici, autocarri, posti sugli aerei ed automobili, troppa plastica, troppo capitale per fare prestiti e contratti d’assicurazione…Se l’eccesso di capacità era cattivo prima, è tanto più dannoso oggi che l’economia rallenta. Far soldi negli affari in un contesto contrassegnato da eccesso di capacità globali è un problema tremendo.”

Effetti della sovrapproduzione

Per chi e per che cosa c’è “eccesso di capacità”? Per “far soldi”, cioè profitti; ben prima dell’11 settembre, in tutto il mondo capitalista si sono accumulati enormi squilibri, evidenziati dal declino dell’impiego della capacità industriale, dalla caduta dei profitti, dall’aumento delle perdite finanziarie e dell’indebitamento, dall’aumento della disoccupazione e della miseria. In Giappone l’utilizzazione della capacità produttiva ha visto un calo del 20% negli anni ’90 ed un crollo l’anno scorso. Negli Stati Uniti – che rappresentano più del 27% dell’intera produzione mondiale – l’utilizzazione delle capacità di produzione è scesa del 7,1% in un anno. I profitti dei monopoli statunitensi si sono ridotti del 52% nel secondo trimestre del 2001, “il maggior declino mai registrato in un trimestre” secondo Business Week. Gli enormi debiti con le banche giapponesi, secondo Goldman Sachs, arrivano a 1900 miliardi di dollari, e sono aumentati di 40 volte in dieci anni. “In difficoltà” il grande business dei prestiti, raddoppiati nell’ultimo anno negli Stati Uniti, fino a raggiungere i 5200 miliardi di dollari. Negli anni ’90 la disoccupazione è raddoppiata a livello mondiale.

La crisi di sovrapproduzione nel mondo capitalistico degli anni ‘90

Negli anni ‘90 l’economia USA e il prodotto industriale americano sono cresciuti significativamente, ma c’erano già importanti e coerenti indizi di una crisi di sovrapproduzione del mondo capitalistico che si è dispiegata fin dal 1990, e che è stata moderata solo dalla straordinaria crescita della Cina.
Tra gli indizi di tale crisi va annoverato il fatto che almeno il 22% della capacità industriale del mondo capitalista è stata forzatamente rallentata o distrutta a partire dal 1990 – circa il 16% nell’ex Unione Sovietica e negli altri paesi del Patto di Varsavia, che rappresentavano un terzo della produzione industriale alimentare mondiale prima della controrivoluzione e restaurazione capitalistica; circa il 2% in Giappone, dove l’utilizzazione delle capacità industriali è caduto dal 90 al 70% negli anni ’90; il resto è il risultato delle distruzioni imperialistiche delle economie dell’Iraq e della Jugoslavia con le guerra e le sanzioni, ed il rallentamento dell’Indonesia e di altri paesi investiti dalle crisi del 1997.
Un’altra evidenza dei crescenti squilibri nell’economia capitalista a livello mondiale negli anni ’90 fu il grande aumento di pesanti debiti contratti dalle banche giapponesi, francesi, brasiliane, russe, sudcoreane ed altre.
Infine l’enorme aumento della disoccupazione mondiale che è il riflesso sociale della “sovrapproduzione”, ossia delle sproporzioni che, in ultima analisi, conducono alla crisi capitalistica. Disoccupazione e sottoccupazione colpiscono ora più di un miliardo di persone.
Anche la “povertà assoluta” è un’altra conseguenza della “sovrapproduzione”. Negli anni ’90 è cresciuta del 40% circa nei paesi capitalisti, secondo le stime della Banca Mondiale. Solo in Cina e nel Vietnam, ossia due prodotti delle rivoluzioni socialiste, vi sono state significative diminuzioni degli indici di “povertà assoluta”, sempre negli anni ’90. Secondo lo storico dell’economia Angus Maddison, i redditi personali in 144 paesi (capitalisti) sono diminuiti dello 0,8% all’anno dal 1973 al 1995 (Wall Street Journal, 11 gennaio 1999). Questa è certamente una stima errata per difetto, giacché, è difficile valutare correttamente la drastica caduta del tenore di vita nell’ex URSS.
La presenza di una crisi di sovrapproduzione mondiale negli anni ’90, spiega anche il fatto che quella americana non fu nemmeno un’espansione economica pacifica. Quando celebravano l’espansione economica degli USA degli anni ‘90, i mass media dei monopoli USA dichiararono che ciò era avvenuto “in tempo di pace”, diversamente dalla precedente fase espansionistica che si verificò durante la guerra del Vietnam. Ma ciò è falso. L’imperialismo USA è stata la forza principale nelle due guerre molto pubblicizzate (ma non concluse) che hanno avuto luogo durante quest’ultima espansione, quelle contro l’Iraq e contro la Jugoslavia. Esso fu ed è la forza principale dietro molti conflitti importanti in America Latina, Africa ed Asia. Le spese reali del Pentagono e delle agenzie associate, nell’ordine di oltre 300 miliardi di dollari l’anno, sono almeno pari a quelle del 1965 durante la guerra del Vietnam.

Il fallimento dei paradigmi interpretativi degli economisti borghesi

Negli anni ’90 l’economia USA aveva superato il precedente record di durata dell’espansione economica toccato durante la guerra del Vietnam: quasi nove anni consecutivi senza declino o crisi (anche se il 3,1% di tasso medio annuo di crescita negli anni ’90, è inferiore a quello degli anni ’60 e di vari altri decenni). Ora che la crisi dell’economia degli USA è divenuta evidente, è importante riflettere sulle cause della sua precedente stabilità come premessa temporale e logica della fragilità dell’odierna situazione economica a livello mondiale.

I quasi nove anni consecutivi senza declino o crisi dell’economia americana negli anni ’90 e la sua apparente stabilità, avevano indotto perfino taluni esponenti del movimento operaio a chiedersi se il capitalismo non avesse imparato a regolare i suoi cicli, se non a superare le proprie contraddizioni.

Qualcuno suggerì che la stabilità esibita dagli USA fosse dovuta alla riduzione dei salari. Ma come Victor Perlo indica in The Unstable Economy e altrove, né gli alti né i bassi salari evitano le crisi all’economia capitalista: gli alti salari erodono i profitti ed accelerano l’inizio della crisi, i bassi salari riducono la domanda e contribuiscono a squilibrare l’economia. Il problema fondamentale è il carattere anarchico della produzione capitalista, incapace d’impedire che questi inevitabili squilibri si esacerbino e mettano in crisi l’economia.
Gli economisti borghesi avevano avanzato quattro motivi principali della precedente stabilità americana, ciascuno dei quali implicava che il capitalismo avesse raggiunto il controllo dell’economia: 1) la regolazione dei tassi di interesse ad opera della Federal Reserve, presumendo che tassi minori favorissero una crescita più veloce dell’economia e tassi maggiori, invece, la rallentassero; 2) le spese governative, altrimenti chiamate “meccanismi keynesiani”; 3) lo sviluppo tecnologico; 4) le assicurazioni sui depositi bancari.
In realtà, tutti questi motivi hanno contribuito alla stabilità ed alla crescita degli USA degli anni ’90, ma non ne sono la ragione principale. Un modo semplice per verificare questa affermazione è quello di controllarne gli effetti su altri paesi capitalisti.
Perché l’Indonesia non usa gli stessi meccanismi per stabilizzare la propria economia e raggiungere una crescita stabile? Perché non li usa il Brasile? Si rispose allora che queste non sono economie sviluppate, ma che dire allora del Giappone che si vanta di essere la seconda maggiore economia di mercato? Nell’ultimo decennio l’economia giapponese ha ristagnato, con produzione declinante in molti settori, la disoccupazione è più che raddoppiata. Eppure il Giappone ha seguito tutte le “ricette” USA per la stabilità e la crescita. Negli ultimi dieci anni la sua banca centrale ha abbassato i principali tassi di interesse a meno dell’uno per cento, virtualmente a zero. Nessuna crescita. Il suo governo ha speso parecchie migliaia di miliardi di dollari in programmi per stimolare l’economia. Nessuna crescita. L’economia nipponica è tecnologicamente avanzata. Nessuna crescita. Le sue assicurazioni bancarie sono state anche più generose che quelle del governo degli USA. Ancora nessuna crescita. Il principale risultato ottenuto è che ora il governo giapponese è immerso fino al collo nei debiti e si trova a fare i conti con una profonda crisi finanziaria. Il 65% delle tasse riscosse copre solo gli interessi del debito nazionale giapponese (Business Week, 19 giugno 2000).
Evidentemente i “motivi” della stabilità e della crescita degli USA degli anni ’90, indicati dagli economisti borghesi non sembrano validi per il Giappone. Altrettanto dicasi per la Germania, la terza economia capitalista, che nell’ultimo decennio, ha provato stagnazione, flessione della produzione e disoccupazione crescente. Non sembrano poter essere applicati al Brasile, alla Nigeria, all’Indonesia e a tanti altri paesi capitalisti che sono andati incontro a crisi negli stessi anni.
In realtà la più lunga espansione degli USA, negli anni ’90, è stata il temporaneo ed instabile prodotto del saccheggio, dello scambio ineguale, della stagnazione e della distruzione delle capacità produttive di altri paesi, mentre si intensificava la crisi capitalistica mondiale di sovrapproduzione.
Solo la Cina, creata da una rivoluzione socialista, ha mantenuto stabilità e crescita significativa dal 1990.

Cosa c’è dietro il modello americano

Innanzitutto si deve notare che l’espansione record dell’economia USA degli anni ’90 non è stata un boom per i lavoratori americani, e non per caso. Nonostante che ad un certo punto si sia raggiunto il più basso tasso ufficiale di disoccupazione in trent’anni, almeno 9,6 milioni di persone rimasero disoccupate o “in attesa di lavoro” (queste sono categorie separate nelle indagini governative, oggi si stima che la disoccupazione negli USA abbia cominciato a risalire a ritmi di 150.000 disoccupati al mese, negli ultimi 10 mesi). Un buon terzo degli impieghi negli USA è oggi ascrivibile al precariato puro e semplice contro un quarto nei meno stabili anni ’80. Al netto dell’inflazione, i salari operai rimasero ancora al livello del 1973, mentre il costo reale della vita specie delle abitazioni e delle assicurazioni sanitarie è andato alle stelle. Di conseguenza, i senza casa ed il numero delle persone senza assicurazione negli USA è cresciuto con l’espansione economica. Nel 1999, quasi dieci milioni di persone sono rimasti almeno temporaneamente senza un tetto (non tutti costoro sono senzatetto tutto l’anno, o per strada, perché molti vivono con la famiglia o con amici). Ma nello stesso tempo, quasi 15 milioni di case ed appartamenti e 1,4 milioni di camere di albergo sono restati liberi ogni notte nel 1999 – un vero crimine del sistema della proprietà privata (circa un terzo di questi alloggi sfitti sono case di lusso, seconde o terze case; appartenenti a persone abbienti che possono permettersi di aspettare che qualcuno paghi “adeguati” fitti o prezzi per gli alloggi sfitti e le case invendute). E un numero record di 44 milioni di persone nel 1999 è senza assicurazione sanitaria mentre sempre più numerosi sono gli ospedali e le strutture sanitarie negli USA che devono affrontare problemi di “sovraffollamento”, perdite, bancarotta e chiusura.
Tuttavia, se paragonati agli altri paesi capitalisti, gli USA sembrano un’isola di crescita e di stabilità in un mondo di instabilità, povertà, disoccupazione e guerre. Dall’analisi di uno storico risulta che delle otto peggiori crisi dagli anni ’30, sette si sono verificate negli anni ’90 – tutte fuori dagli USA. E in ogni anno di questa decade ci sono state almeno 25 guerre e molti più conflitti minori.

Come abbiamo visto sia gli Stati Uniti che il Giappone hanno applicato gli stessi principi. Perché, allora, i risultati sono stati diversi per quasi un decennio?
Se si considera che nel 1999 l’economia degli Stati Uniti, col 4,5% della popolazione mondiale, ha attratto a sé e usato il 72% dei profitti mondiali e dei risparmi personali (Business Week, 1 novembre 1999, da uno studio della banca Credit Suisse First Boston), e che il Giappone, invece, ha sofferto una perdita netta di risparmio, sia per finanziare il deficit della bilancia commerciale degli USA col Giappone stesso sia per tamponare il suo enorme debito nazionale, si capisce che c’è una grande differenza!
Nei tre mesi che seguirono l’inizio dei bombardamenti NATO, sotto la direzione degli USA, contro la Jugoslavia (marzo 1999), affluirono negli USA capitali dall’Europa, dal Giappone e dal resto del mondo ad un tasso record. In che quantità? Nella primavera del 2000, arrivarono ad un tasso annuo di 1109 miliardi di dollari; complessivamente nel 1999, secondo la pubblicazione trimestrale della U.S. Federal Reserve Bank Flow of Funds Account (giugno 2000), affluirono negli USA 699 miliardi di dollari dal resto del mondo e più di 472 miliardi nel 1998. Questi capitali sono stati usati per investimenti industriali, specie in “alta tecnologia”, nelle comunicazioni ed in Internet, per speculazioni immobiliari ed altro, o anche per acquisizioni di società giapponesi, europee e brasiliane a prezzi di svendita. Ancora una grande differenza tra gli Stati Uniti ed il Giappone.
Non inaspettatamente, dunque, qualche mese dopo questo massiccio afflusso di capitali, il tasso di crescita dell’economia statunitense accelerò, nonostante l’aumento dei tassi di interesse operato dalla Federal Reserve. Nello stesso tempo, invece, l’economia giapponese scivolò nella terza recessione in otto anni, mentre la sua banca centrale aveva abbattuto il tasso di interesse interno quasi a zero!
Neppure l’Europa si sottrae: “Un torrente di soldi è corso via dall’Europa da quando affaristi ed investitori hanno fuggito le anemiche economie del Continente. Solo l’anno scorso, un totale netto di 160 miliardi di dollari in investimenti liquidi ha lasciato l’Europa… I miliardi persi (dall’Europa) convergono per la maggior parte negli Stati Uniti – surriscaldando i mercati e gonfiando l’economia…” (Business Week, 15 maggio 2000).

Il Giappone deve pagare un premio a Wall Street sui grandi prestiti concessi agli USA in quanto questi sono considerati a rischio. Ma il capitalismo americano ha goduto l’uso praticamente libero dei massicci capitali che affluiscono nel paese fin dalla Guerra del Golfo. Nel 1993, ad esempio, i capitalisti americani ebbero un incasso netto superiore ai 2 miliardi di dollari dal resto del mondo, sebbene fossero debitori al resto del mondo di qualcosa come 600 miliardi di dollari. Nel 1998 gli USA pagarono meno di 12 miliardi di dollari sul debito estero cresciuto oltre i 1600 miliardi. In altre parole il resto del mondo paga un tributo al potere imperiale! Anche in questo caso vi è una grande differenza tra gli USA ed il Giappone!

I monopoli americani intrattengono pure cospicui scambi disuguali con il resto del mondo, Giappone incluso. Marx mostrò che nello scambio diseguale il plusvalore viene trasferito dal capitalista più debole a quello più forte sia quando questo vende merci sopra il loro valore, sia quando ne acquista beni sotto il loro valore. Vi sono ragioni per credere che tramite lo scambio diseguale, il servizio al debito ed altri meccanismi, i capitalisti statunitensi siano i maggiori beneficiari economici degli acquisti cinesi da altri paesi capitalisti, anche quando i diretti venditori sono le società giapponesi o europee. E secondo un recente rapporto della Conferenza della Nazioni Unite su Commercio e Sviluppo (UNCTAD), dal 1960 c’è stato un peggioramento almeno del 60% nelle condizioni del commercio (scambio disuguale) tra i monopoli imperialisti e i paesi capitalisti poveri.

Il Giappone importa il 99% del petrolio e oggi paga più di 30 dollari per un barile che ai monopoli imperialisti costa in media alla produzione 2,60 dollari. Il Giappone paga due o tre volte il loro valore i piani di guerra antisommergibile USA, mentre vende sotto il loro valore macchinari sofisticati ed elettronica agli Stati Uniti.
Tramite il servizio al debito, le speculazioni, le manipolazioni valutarie ed altre manovre, Wall Street draga ogni anno altri milioni dollari dal Giappone e dal resto del mondo.

L’immigrazione è stata un’altra importante fonte della “prosperità” degli USA. E questa è un’altra differenza dal Giappone e dagli altri maggiori paesi imperialisti. Da un recente articolo su una pubblicazione regionale della Federal Reserve Bank (Southwest Economy, Federal Reserve Bank of Dallas, maggio-giugno 2000), si ricava che negli anni ’90 si è registrata la maggiore ondata di immigrazione legale e clandestina negli USA dall’inizio del XXo secolo. In questa decade sono entrati negli USA circa 9 milioni di immigrati “legali” e, si stima, 2,8 milioni di “clandestini”. Al confronto, nello stesso periodo sono entrati in Giappone poco più di 50 mila immigrati, meno dell’uno per mille della forza lavoro. L’immigrazione ha contribuito per oltre il 25% alla crescita della forza lavoro negli USA degli anni ’90.
Uno studio del 1997 commissionato dall’ Accademia Nazionale delle Scienze Sociali U.S.A. (The New Americans, National Accademy Press, James Smith and Barry Edmonston) ha valutato gli effetti fiscali dell’immigrazione sull’economia. Si stima che ogni immigrato ed i suoi discendenti contribuiscano alle casse del governo in media con 80.000 dollari (al valore attuale del dollaro) o con 88.000 dollari per immigrato considerando l’effetto della “riforma” dello stato sociale del 1996. Cioè circa mille miliardi di dollari di entrate nette dall’immigrazione degli anni ’90 – più i profitti (come è tipico per gli accademici borghesi, lo studio non stima i profitti ricavati dal lavoro degli immigranti). E nello studio non appare neanche il risparmio ottenuto per il fatto che le spese di allevamento e di scolarizzazione degli immigrati (la cui età media di arrivo è di circa 25 anni) ricadono su altri paesi.
Se gli immigrati contribuiscono tanto all’economia degli USA, per quale ragione essi sono oggetto di tanta denigrazione e discriminazione? Per gli stessi motivi della persistente discriminazione contro afroamericani e portoricani, cioè per mantenere divisa la forza lavoro ed abbassarne il costo: infatti nel 1960, i salari dei neo-immigrati erano in media del 12% inferiori a quelli dei lavoratori nati negli USA, mentre nel 1998 la differenza arrivava al 33% a sfavore degli immigrati. Come i capitali cercano rifugio negli USA, così gran parte se non la maggioranza dei migranti fugge la povertà, l’instabilità e le guerre che nascono da un mondo capitalistico sempre più in crisi profonda. Negli USA poi, la maggioranza di essi trova bassi salari, povertà, sovraffollamento e mancanza di casa.

La realtà del modello americano è l’imperialismo preminente

Se l’imperialismo USA non controlla la profonda crisi capitalistica mondiale che va aggravandosi, che cosa controlla allora? Ritorniamo ancora all’insegnamento di Marx. Nel Capitale discutendo come si possono risolvere le crisi capitaliste in mancanza di una rivoluzione, Marx mostra che “la perdita (…) non colpisce affatto in uguale misura i diversi capitali particolari; la sua ripartizione viene invece decisa in una lotta di concorrenza nella quale, in relazione ai vantaggi particolari o a posizioni già acquistate, essa si ripartisce molto inegualmente e con manifestazioni assai diverse, cosicché un capitale viene lasciato inattivo, un secondo distrutto, un terzo subisce solo una perdita relativa o una diminuzione di valore temporanea, e così via” 2.
È evidente che Wall Street usa la sua posizione di preminenza tra le potenze capitalistiche – risultato di due guerre mondiali e di posizioni conquistate nelle crisi precedenti – come pure lo sviluppo delle comunicazioni e dei trasporti, non già per innalzare il tenore di vita della popolazione, ma per scaricare sui paesi più deboli le contraddizioni del capitalismo, a partire dalla disoccupazione e dalla povertà, abbassandone il costo del lavoro, rallentandone e distruggendone le produzioni, al contempo esasperando lo scambio diseguale, e depredando tali paesi di plusvalore e capitali. E ciò comprende anche la razzia di “capitali intellettuali” nota anche come “drenaggio di cervelli” di scienziati ed ingegneri che vengono attratti negli USA dai paesi più poveri, Cina compresa. Ma il “Venerdì nero” o la “Grande Depressione Americana” non sono stati evitati. Sono stati temporaneamente dirottati sull’Africa, sugli afro-americani e sulla classe operaia degli Stati Uniti, sull’Iraq e sulla Jugoslavia, ma anche su Ucraina, Polonia, Romania e in genere, sugli Stati che hanno subito la controrivoluzione a partire dal 1989. Anche il Giappone è preso tra una crisi mondiale crescente di sovrapproduzione ed i ”vantaggi speciali” dell’imperialismo USA.
Le precedenti stabilità e crescita degli USA non si possono comprendere col metodo degli economisti borghesi. Le leggi del capitalismo scoperte da Marx ed Engels non sono state abrogate. La “prosperità” raggiunta con le rapine e le distruzioni è necessariamente instabile e non si basa su un’attività economica che si ripete giorno per giorno. Il futuro del capitalismo, se lasciato a se stesso, non è affatto la “prosperità” degli USA, ma la povertà e le guerre in Africa o nelle repubbliche dell’ex URSS ora dominate dal capitalismo.

Come si aggravano gli squilibri economici dopo l’11 settembre

L’11 settembre ha introdotto ulteriori squilibri, insicurezze e rischi in un capitalismo mondiale già gravemente squilibrato. Nel più grave pericolo vi sono diversi paesi molto stressati come l’Indonesia, la Malesia, l’Argentina, il Brasile, la Turchia e ancor più seriamente il Giappone. In cima alla piramide dell’intera struttura c’è Wall Street.

Oltre alla crisi di sovrapproduzione giungono a scadenza i debiti che pesano sui consumatori, sulle aziende e sui governi. In tutto il mondo il debito è cresciuto più rapidamente del PIL ed oggi è arrivato ai valori massimi. Poiché i creditori sono inflessibili e “vogliono essere pagati a prescindere dalle circostanze economiche e politiche”, molti debitori, compresi alcuni monopoli e governi non potranno resistere al disastro economico.

Un terzo fattore destabilizzante, importante anche se spesso trascurato, è la speculazione. Quando il capitale non può più tessere profitti nella produzione si butta nella speculazione. Il portafoglio degli speculatori si calcola superi di molto i 100.000 miliardi di dollari, mentre la produzione mondiale di merci e servizi è di solo 40.000 miliardi di dollari all’anno. Con il calo dei profitti dalla produzione, le iniziative sempre più piratesche degli speculatori avranno l’effetto di parecchi uragani successivi su un edificio già fatiscente. Ed è la speculazione che ha innescato l’esplosione della crisi del 1997-98 che ha devastato l’Asia, il Brasile ed altri paesi.

La risposta dei capitalisti alle perdite per sovrapproduzione è quella di abbassare il costo del lavoro, rapinare e distruggere l’eccesso di capacità. Quando le perdite diventano serie, i capitalisti sono spinti alla guerra come la strada più rapida proprio per abbassare il costo del lavoro, rapinare e distruggere. Di qui l’odierno bellicismo degli USA. “Con quale mezzo riesce la borghesia a superare la crisi?”, “Per un verso”, scrivono Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista, “distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quali mezzi dunque? Preparando crisi più estese e riducendo i mezzi per prevenire le crisi.“ 3 .

La classe operaia ha tutto da perdere nella crisi e dunque è di cruciale importanza la lotta contro la guerra, la speculazione e per cancellare i debiti. L’alternativa, infatti, è la disoccupazione di massa, la miseria, la distruzione e la morte.
La Cina, Cuba e gli altri esiti della Rivoluzione proletaria, sono potenzialmente una forza decisiva a favore della stabilità economica e contro il bellicismo imperialista, anche se verranno attaccate in tutti i modi dall’instabilità e dal bellicismo dell’imperialismo.

Reali fattori della stabilità mondiale

Per una esatta comprensione dei fattori di stabilità e di instabilità nell’economia mondiale bisogna applicare un’analisi di classe, materialista. È impossibile capire l’economia degli USA o di qualsiasi paese in un sistema nazionale isolato e senza un’analisi di classe. Il punto di partenza è che vi è una sola economia mondiale. Eventi e mutamenti che si verificano in una regione influiscono inevitabilmente sull’intero complesso, come è stato da più di quattro secoli ma specialmente con lo sviluppo di mezzi di trasporto rapidi e dei sistemi telegrafici internazionali dal XIX secolo in poi. Certo l’economia mondiale è più disuguale e disomogenea che mai: eppure resta un tutto unico.
Ma fin dal 1917 ad oggi, l’economia mondiale ha contenuto due sistemi sociali, uno capitalista, l’altro basato sulla classe operaia al potere. I due sistemi sono regolati internamente da leggi diverse, il sistema capitalista dalle leggi cicliche, di crescita e depressione della produzione e dello scambio di merci, così ben descritte da Marx, mentre le economie formate dalle rivoluzioni socialiste sono non-cicliche, regolate da leggi di pianificazione, anche quando comprendono la produzione merci, come in Cina.
Necessariamente i due sistemi sociali interagiscono tra loro perché fanno entrambi parte della stessa economia mondiale. Ciò vuol dire anche che le economie non-cicliche create dalle rivoluzioni socialiste risentono inevitabilmente dalla crescente anarchia e del caos del mondo capitalistico. A partire dalla metà degli anni ’70 i crescenti problemi di sovrapproduzione dell’imperialismo – e la connessa corsa agli armamenti – disgregarono le economie della Polonia, dell’URSS e dei paesi del patto di Varsavia. Queste condizioni furono dei fattori importanti, sebbene non decisivi, del loro crollo.

Tuttavia, anche ad un’osservazione empirica appare evidente che la sola vera stabilità nell’economia mondiale dalla II Guerra Mondiale in poi è derivata dalle economie che si sono affermate con le rivoluzioni socialiste. Si confrontino i soli otto anni e dieci mesi della più lunga espansione degli USA nell’arco di due secoli con gli oltre 70 anni senza cicli economici nell’URSS prima della controrivoluzione o i 50 anni della Cina senza un ciclo (guerre e crisi politiche hanno colpito le economie dell’URSS, della Polonia, della Cina, ecc., ma queste non sono la stessa cosa dei cicli economici).
Il 1973, il 1980-82 ed il 1990 hanno visto, nel mondo capitalista, fasi qualitativamente sfavorevoli di sovrapproduzione, accompagnate sempre da contrazioni o crisi delle economie capitaliste. Ma le economie dell’Unione Sovietica e dei paesi esteuropei – prima di crollare a seguito della controrivoluzione – e quella della Cina, sebbene colpite da questi eventi, continuarono a crescere.
Tre anni dopo quel 1990 così amaro per il capitalismo mondiale, Morgan Stanley, l’economista internazionale capo della banca di Wall Street, ammise che senza la crescita della Cina ci sarebbe stato il “caos mondiale” (Global Finance, dicembre 1993). Egli menzionò in particolare che dalla Cina vi fu un aumento di acquisti dai paesi capitalisti principalmente finalizzati alla soddisfazione di esigenze interne. Confrontò la Cina con un paese “diretto all’esportazione” come la Corea del Sud, che importa materie prime per esportare manufatti in un mondo capitalista già sazio di ogni cosa, dall’acciaio alle automobili, alle navi. Il ruolo di stabilizzazione della Cina nell’economia mondiale divenne anche più evidente dopo il 1997, quando la crisi capitalistica si approfondì e le economie tailandese, sudcoreana, indonesiana, brasiliana, russa ed altre sprofondarono.
Ciò mostra la potenza delle rivoluzioni socialiste che per la prima volta nella storia hanno permesso il controllo dell’uomo sull’economia. Non solo, ma anche che ogni azione destabilizzatrice dell’imperialismo nei loro confronti si riflette negativamente sull’economia dell’intero pianeta.

In sintesi

Oggi si sta dispiegando una crisi generale del “vecchio ordine”. Ma la classe operaia, se preparata ed organizzata, può aprire la strada ad un “ordine nuovo” di autentica liberazione.
La crisi economica e la guerra imperialista rappresentano la maggior sfida per la classe operaia e le sue organizzazioni, che comprendono sindacati, organizzazioni di massa, partiti politici – soprattutto i Partiti Comunisti – e i residui stati sorti dalle rivoluzioni socialiste – Cina, Vietnam, Laos, Corea del Nord e Cuba.
La classe operaia può far fronte a queste sfide solo con la preparazione e l’organizzazione; ciò richiede la comprensione scientifica della crisi del capitalismo, l’impegno nelle lotte per i diritti democratici, contro la guerra imperialista ed il razzismo, per posti di lavoro stabili e dignitosi per tutti, per l’uguaglianza sociale, politica ed economica, negli USA ed in tutto il mondo. Di grande importanza è pure la difesa di un’informazione tempestiva e veridica ed il diritto di organizzazione e di stampa, senza alcun limite. Questi diritti sono le prime vittime della guerra.

Può essere di aiuto in questa fase, a volte ardua, ricordare i due precedenti periodi di crisi e di attacco alla classe operaia di questo secolo. Dopo reali sconfitte, il primo si chiuse con la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, il secondo con la vittoria di quella cinese e di altre Rivoluzioni.

Traduzione di Fernando Visentin

Note

1 K.Marx/F.Engels, Opere Vi, Ed. Riuniti, Roma 1973, pp.491-2

2 Il Capitale, libro III, Ed. Riuniti, Roma 1994, p306

3 K.Marx/F.Engels, Opere Vi, Ed. Riuniti, Roma 1973, pp.491-2