Crisi del comunismo del Novecento e delle odierne società neoliberiste

Nel primo Lenin o nel giovane Gramsci l’aspetto critico-negativo appare nettamente prevalente su quello ricostruttivo. Ma, a partire dagli anni Venti, la rivoluzione, per sostenere il proprio sforzo edificativo, ha avuto di nuovo bisogno di valori assoluti positivi, di ideologie totalizzanti. Del pensiero di Marx è stata ripresa non la carica critica, ma l’ottimismo progettuale, mentre dalla storicismo e dal positivismo è stata recuperata l’idea di un progresso lineare. L’errore di Marx, continuato ed enfatizzato nel periodo della III Internazionale, è stato di credere che l’uomo possa uscire dai propri condizionamenti biologici e antropologici per tendere a un progresso senza limiti in nome del quale sacrificare il particolare. L’assolutezza astratta dell’universale, identificato nel partito e nella scienza del proletariato in esso incarnata, è stata eretta contro la concretezza del particolare, dell’uomo qui e ora. La verità esisteva di nuovo, ed era garantita dal senso della storia, quale era perfettamente compreso e indicato dal Partito. In nome del Partito, che rappresentava da solo la Rivoluzione e l’assoluto, non potevano che vanificarsi il singolo, l’individuale, il concreto materiale; anzi, potevano essere legittimamente annientati. Il materialismo si rovesciava così in un idealismo volontaristico. Si è in sostanza dimenticato che il comunismo intende gestire, in modo comunitario e a livello dell’intero pianeta, la conoscenza dei limiti materiali della condizione umana, della sua, materiale appunto, particolarità. Negli anni Trenta pochissimi pensatori marxisti (o comunque dal marxismo orientati) si sono sottratti al primato dell’universale: in parte Gramsci, e Benjamin.
Fra anni Venti e Sessanta il comunismo è diventato un valore assoluto, tanto più astratto e irreale quanto più distante dalla realtà della sua presunta attualizzazione nei diversi modelli “socialisti” di capitalismo di stato. Il comunismo è stato in questo periodo l’utopia di milioni di militanti e la “falsa coscienza” di Stati nazionali, che in suo nome erano autoritari all’interno e imperialisti all’esterno. Quando la distanza fra ideologia e realtà è esplosa drammaticamente, il cosiddetto comunismo realizzato è crollato di colpo, come una bolla di sapone trafitta da un raggio troppo intenso di luce.

La tragedia del comunismo è stata tutta nella lacerazione che ha diviso l’entusiasmo utopico, l’aspra pedagogia, la subordinazione coraggiosa al Valore della effettiva realtà di capitalismi di stato che hanno imposto il gretto realismo di nuove gerarchie e nuove sudditanze, di nuovi dogmi e nuove miserie. Da un lato, fra anni Venti e Quaranta, ma saltuariamente anche dopo, e soprattutto negli anni Sessanta, il comunismo è stato una bussola ideale capace di orientare la vita, di darle senso e scopo; dall’altro si è risolto in una gestione economica e militare di potenze statuali del tutto incapaci di giustificare la ufficiale definizione di paesi socialisti. Da questo punto di vista il ’68, con il suo idealismo volontaristico, è stato l’estremo prolungamento degli ideali della III Internazionale: la fine, seppure ricca di slanci generosi, di una vecchia storia, piuttosto che l’inizio di una nuova. E infatti non è riuscito a elaborare una nuova teoria del partito e della rivoluzione, ma ha scimmiottato tutte le possibili varianti del comunismo fra anni Venti e Quaranta.

Chiunque sia stato in URSS negli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta può avere constatato di persona un incredibile scollamento: da un lato, alla base, una popolazione sempre più attratta dai miti consumistici dell’Occidente, sempre meno disposta a produrre e a lavorare e sempre più inconsapevole della storia e dei fini del comunismo; dall’altro, al vertice, una classe dirigente che copriva con una mano di vernice ideologica scelte politiche ed economiche che ormai non avevano più niente a che fare con la prospettiva del comunismo. Erano due mondi, separati fra loro, incomunicabili. Due verità, opposte e inconciliabili: quella diurna, dichiarata nei convegni e negli incontri ufficiali, e quella notturna, in qualsiasi casa privata, intorno a un bicchiere di vodka.
Quando la prima è venuta meno, è saltato il coperchio di una pentola che ormai bolliva da troppo tempo per conto proprio. Si spiega anche così il crollo fulmineo dell ’89. Senza neppure una reazione, senza resistenza. Non ha vinto una controrivoluzione, perché non c’era più da tempo la rivoluzione. È solo scomparso un gruppo dirigente che ormai era solo una inutile superfetazione.

Non è vero che in URSS ha dominato la logica del lavoro e della produzione, se non negli anni dello stakanovismo, della industrializzazione forzata e dunque dello stalinismo. È vero invece il contrario: che per almeno tutto il quarto di secolo che ne ha preceduto il crollo nessuno più lavorava seriamente, e la disciplina del lavoro era del tutto assente in quasi tutti i corpi sociali (si salvavano solo alcuni settori dell’esercito e dell’industria). In genere si cercano le ragioni economiche della crisi. Ma erano evidenti invece le ragioni morali e politiche. Perché e per chi lavorare? Per quale modello di Stato? Per quale affermazione individuale? Quando una comunità non è più in grado di legittimarsi, e di legittimare la vita dei singoli, semplicemente si decompone.

Il problema oggi è che, venuto meno il comunismo come prospettiva, il mondo si ritrova di colpo senza un senso da dare alla vita. La legge del mercato e il neoliberismo trionfante pongono l’uomo di fronte alla nuda realtà del capitale, alla sua fondamentale amoralità e indifferenza etica. La distruzione di tutte le solidarietà, l’annientamento di ogni identità, l’annullamento di qualsiasi entità collettiva e comunitaria sono sotto gli occhi di tutti. La logica del mercato, con il suo egoismo e utilitarismo, non può tenere in piedi una comunità. Senza valori condivisi, non si dà comunità. L’ideologia neoliberista del postcomunismo non può neppure spiegare perché i giovani non debbano gettare i sassi dai cavalcavia.
Paradossalmente si sta realizzando, nel mondo della globalizzazione capitalistica, una situazione per qualche verso analoga a quella che esisteva nei paesi di capitalismo di stato cosiddetti “socialisti”. La legge del più forte domina incontrastata. Fra i “valori” del benpensanti e la pratica del mercato mondiale, fra le ideologie del progresso, della libertà e della democrazia e la realtà della vita si è aperto un abisso. Manca un vero centro ideale, un riconoscimento collettivo, un valore unificante. Ogni comunità si spappola. Al posto della società di massa, con i suoi movimenti sociali, la solitudine multipla ed eguale degli individui isolati; al posto dei luoghi e delle radici, i non-luoghi dove tutti confusamente s’incontrano e nessuno si conosce; al posto dell’esperienza vissuta, quella virtuale; al posto della democrazia, l’obbedienza “spontanea” e im- materiale al comando televisivo e massmediologico. In questa situazione non possono non rinascere – come erano rinati in URSS – i fondamentalismi, le sette, la valorizzazione delle diverse etnie, delle tribù, dei localismi, la ricerca di identità nel passato, dato che non è più possibile sperarla nel futuro. Il capitale nell’epoca della sua globalizzazione rivela una debolezza sostanziale nella sua incapacità di autolegittimazione, nel suo sostanziale nichilismo, nella sua trionfante insignificanza.

Tutto ciò avviene, però, nella più totale assenza di alternative. Se non lavoriamo a ricostruirne una, quando salterà il coperchio, rischia di saltare anche la pentola, e noi con lei.