Controriforma scolastica

*Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Urbino; Presidente della Società Italiana di Pedagogia

Questo inizio d’anno scolastico sarà indubbiamente ricordato. I provvedimenti del Ministro Gelmini sono stati rapidi ed inquietanti. Il ritorno dei voti, la riesumazione del grembiule, il ripristino del voto di condotta, e la restaurazione del maestro unico nella scuola primaria costituiscono un insieme di misure che destano perplessità e preoccupazione nella maggioranza degli insegnanti, anche se riscuotono un’indubbia risonanza mediatica e, è inutile nasconderlo, un certo favore da parte dell’opinione pubblica (inclusi alcuni intellettuali di sicuro prestigio). Cosa dire di questo agglomerato di iniziative? Mi pare che questi provvedimenti abbiano un solo obbiettivo reale, e per il resto siano caratterizzati dall’assenza di una vera strategia per la formazione scolastica, anche se il messaggio che veicolano è caratterizzato da un’indubbia omogeneità ideologica. Vediamo, in primo luogo, l’assenza di una vera strategia per la formazione scolastica. Di fronte alla complessità dei problemi che il sistema formativo deve affrontare, davanti al tenore delle sfide che l’attuale fase storica pone alla scuola, le iniziative del Ministro Gelmini appaiono sconcertanti, ai limiti del patetico. Da una parte stanno le analisi sui bisogni formativi connessi all’avvento di un’economia globale basata sulla conoscenza, i traguardi dell’Agenda di Lisbona, la necessità di una rivoluzione dell’intelligenza sostenuta dal rapporto Unesco, ecc.; questioni che richiederebbero una strategia organica, di ampio respiro, proiettata sul lungo termine. Dall’altra un Ministro che assume iniziative episodiche, slegate, appiattite sulla dimensione del momento; un Ministro che sente il bisogno di occuparsi del grembiule. Veniamo poi all’omogeneità ideologica del messaggio. La frammentarietà dei provvedimenti Gelmini rispetto all’esigenza di un quadro strategico organico non impedisce loro di possedere un’indubbia omogeneità dal punto di vista del contenuto ideologico del messaggio che diffondono. In maniera approssimativa, questo messaggio è più o meno il seguente: le innovazioni erano sbagliate, si torna alla scuola tradizionale. La “tradizione”, com’è noto, è sempre stata uno dei fari ideologici del pensiero di destra, così come il “progresso” è uno dei riferimenti della sinistra. Credo però che interpretare le misure del Ministro come una mera propensione verso la tradizione, naturale per un governo di destra, sarebbe in questo caso errato, e non spiegherebbe il diffuso favore popolare verso tali misure. Ritengo che il senso di queste misure sia quello di diffondere un messaggio rassicurante ad un’opinione pubblica disorientata e angosciata di fronte agli attuali scenari sociali. Per chi vive in quest’epoca – segnata da trasformazioni sociali, economiche ed esistenziali senza precedenti – il futuro non è più una promessa: è ormai un’incognita, spesso di sapore minaccioso. In questo clima, le persone sono preoccupate per il domani, i genitori sono ansiosi, per- fino angosciati, per il destino dei propri figli, la famiglia conosce una diffusa crisi educativa, e spera che la scuola risolva tutti i problemi: deve educare, istruire e garantire un futuro ai giovani. Tuttavia, anche la scuola è in difficoltà ad adeguarsi alla complessità dei problemi che si trova ad affrontare (proprio per questo ci sarebbe bisogno di un quadro strategico organico), e le famiglie hanno così la sensazione che essa non sia più all’altezza dei suoi compiti, che la sperata soluzione del problema del futuro dei figli non sarà loro assicurata. Di fronte ad una situazione di questo tipo – al tenore delle sfide da affrontare, alle naturali difficoltà della scuola a rimettere a regime la propria azione, alle comprensibili preoccupazioni delle famiglie – sarebbe necessaria una progettualità politica di alto livello e di larghi orizzonti, capace di portare a compimento la riforma della scuola (nei suoi aspetti strutturali, culturali e didattici). Il Ministro, e con lei il Governo, sceglie invece la strada di un messaggio semplificante e rassicurante: se la scuola è in difficoltà non dipende dalle ardue sfide a cui deve far fronte, è solo perché le innovazioni scolastiche erano sbagliate; tolte queste innovazioni, restaurata la tradizione scolastica, i problemi si risolveranno. Si tratta di un messaggio semplificante, che banalizza questioni di enorme rilevanza. Ma com’è noto, chi è in preda al timore subisce un rattrappimento delle capacità di ragionamento: accetta più facilmente una soluzione semplice, immediata e rassicurante, rispetto ad un’analisi articolata e un progetto di lungo termine che non promette miracoli. Da qui il consenso popolare di cui sembrano godere le misure Gelmini. Veniamo, infine, all’obiettivo reale. Il rassicurante messaggio del ritorno alla buona tradizione sembra però solo una tattica per creare consenso verso l’insieme delle misure adottate. Tra queste ce n’è una che, probabilmente, racchiude l’obiettivo reale di tutta l’azione del Ministro e che, in questo modo, viene a fruire della legittimazione del ritorno alla tradizione. Questa misura è il ritorno al maestro unico nei primi anni della scuola primaria, e il vero e dichiarato obiettivo è quello di realizzare una consistente economia nella spesa per il personale docente. La giustificazione addotta per questo provvedimento è che la spesa per la scuola se ne va quasi interamente per gli stipendi agli insegnanti, e questo limita le sue possibilità di sviluppo. Inoltre, non vi è alcuna valida ragione formativa per la pluralità dei docenti: era stata introdotta solo per motivi sindacali e occupazionali, grazie alla bieca complicità della pedagogia. I risultati della scuola elementare, infatti, erano già ai livelli attuali nel 1990, prima dell’introduzione del modulo.

REGRESSIONE

Le cose non stanno così. Vi erano ottime ragioni formative per archiviare il maestro unico. Il problema si pose agli inizi degli anni ’80, contestualmente alla riforma dei Programmi della scuola elementare, poi emanati nel 1985. Nel dibattito che ne accompagnò la preparazione, e poi nella lettera di trasmissione della Commissione Fassino, fu chiarito che per insegnare Programmi culturalmente più forti e impegnativi era necessario superare il maestro unico. L’introduzione della pluralità dei docenti fu dunque dovuta alla necessità di assicurare agli alunni un’alfabetizzazione “forte” sui saperi linguistici, storici e matematici fin dall’inizio della scuola primaria, per migliorare le loro chance di vita nel mondo in cui si sarebbero trovati a vivere, e per favorire la crescita democratica e la salute socio-economica del nostro Paese. Questa scelta sembra aver prodotto effetti positivi sui livelli d’apprendimento dei nostri alunni. Se si prende una competenza fondamentale come la comprensione della lettura, si può osservare che nelle indagini internazionali Iea- Pirls del 2006 la scuola elementare ha ottenuto un lusinghiero sesto posto, con un punteggio ben superiore alla media internazionale (551 contro 500). Non solo. Rispetto all’indagine del 2001 ha guadagnato 10 punti, e si colloca ormai a ridosso della prestazione migliore: facendo pari a 100 il punteggio migliore, l’Italia era al 96,4 nel 2001 ed è al 97,5 nel 2006, mentre nel 1991 era solo al 93 (non sembra perciò vero che l’elementare era già ai livelli attuali prima dei moduli). Non vi sono perciò buone ragioni formative per tornare al maestro unico, ma a questo si cerca di supplire con l’alone positivo creato dal complessivo ritorno alla buona tradizione, di cui questa figura rappresenta parte integrante. L’unico vero motivo di questa scelta è legato ai tagli di personale che determina, all’economia di spesa che consentirà di realizzare. Per l’istruzione elementare, si dice, si spende troppo. Ma è davvero così? Gli stanziamenti del nostro Paese sull’istruzione primaria e secondaria (escludendo cioè l’istruzione terziaria) rispetto al Pil sono inferiori alla media Ocse: il 3,3 contro il 3,8 (dati Ocse 2008), e ci collocano nella ventiseiesima posizione. Inoltre dal 1995 al 2004, mentre il Pil è cresciuto del 13,5%, gli stanziamenti per l’istruzione (incluso quella terziaria) sono stati incrementati solo del 7%, una delle performance peggiori dell’area Ocse (dati Ocse 2007). In altre parole, in proporzione sul Pil negli ultimi anni abbiamo speso sempre meno: dal 3,6 del 1995 al 3,3 del 2005 (dati Ocse 2008 riferiti a livello primario e secondario). Allora il punto è: il Ministro Gelmini considera la formazione scolastica una risorsa strategica per lo sviluppo civile economico e democratico del Paese, o uno spreco?