Contro l’imperialismo

In queste ultime settimane siamo stati di fronte a ciò che alcuni commentatori hanno definito la prima grande rivolta sociale del XXI secolo, ossia la rivolta in Argentina. Quale lettura ne danno i comunisti portoghesi?

La crisi argentina è la conseguenza inevitabile della politica di globalizzazione imperialista, una politica che rende più gravi le ingiustizie e acutizza le diseguaglianze sociali, che in Argentina sono giunte a un livello non più sopportabile.
L’Argentina è uno dei paesi più sviluppati del continente sudamericano, un Paese che in vari periodi della sua storia è giunto a livelli di vita apprezzabili, se paragonati agli altri paesi della regione. La situazione attuale è il prodotto delle politiche neoliberiste e fondamentaliste praticate dal governo Menem e dal tristemente celebre ministro dell’Economia Domingo Cavallo.

Cosa si può sperare per un Paese come l’Argentina, in cui più del 50% della popolazione vive nella miseria e dove l’economia è in uno stato disastroso?

Credo che nessuno può arrischiare previsioni per il futuro. Ciò che è assolutamente chiaro è che la situazione è ormai insostenibile e che lo stesso sistema finanziario internazionale non potrà più intervenire come sinora è intervenuto, e cioè perché nulla si cambi, ma dovrà intervenire per evitare il collasso completo dell’intera struttura economica e finanziaria argentina. E’ comunque del tutto evidente che per superare questa drammatica fase occorreranno politiche radicalmente nuove. Senza alcun dubbio occorrerà una completa inversione di marcia nelle politiche economiche, abbandonando quel disegno che negli ultimi anni è stato caratterizzato dai processi di privatizzazione, dalla politica di indebitamento estero, dal fatto che le principali ricchezze e risorse argentine sono finite ai grandi gruppi stranieri, ecc.
Come queste politiche nuove potranno concretizzarsi dipenderà dalle forze sociali e politiche che saranno in campo, dalle forze della sinistra…

Che appaiono alquanto deboli…

E’ la verità, a partire dalla debolezza del Partito Comunista di Argentina e delle altre forze anticapitalistiche. Il movimento di lotta va delineando nuovi scenari all’interno delle forze politiche e sociali e ciò accade anche all’interno del campo sindacale, sinora egemonizzato dalla demagogia peronista. E’ comunque molto difficile prevedere lo sviluppo delle cose, gli sbocchi del processo in corso…

Ciò che sta accadendo in Argentina potrà avere una grande influenza in tutta l’America Latina…

L’influenza delle lotte argentine già si fa sentire in tutto il Mercosur ( lo spazio comune di commercio che include, oltre l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay e il Paraguay) e può aprire contraddizioni nelle strategie egemoniche nordamericane nel continente, può aprirle in Brasile, il Paese dalla più forte economia regionale. Il ruolo della stessa Europa in America Latina può cambiare, conseguentemente alla crisi argentina e al nuovo quadro continentale che essa evoca. In Spagna, le ripercussioni della crisi si fanno già sentire…

La decisione di sospendere il debito estero è una scelta populista?

Credo che sia soprattutto una scelta realista, e sono curioso di sapere quale sarà la reazione del sistema finanziario internazionale…

E’ una scelta realista perché non si poteva fare altro?

Esatto. Il debito estero argentino, che è nell’ordine dei 135 mila milioni di dollari, è il più alto del mondo. Le risorse del Paese sono state completamente prosciugate dal sistema finanziario internazionale, specificatamente dalle banche nordamericane.

E’ realista l’annuncio di creazione immediata di 100 mila posti di lavoro, come prima tappa di un progetto che punta ad un milione di nuovi occupati?

Questa appare certamente una demagogia populista. E’ chiaro che si è aperto un grande dibattito sul piano internazionale, all’interno del sistema capitalistico e nelle sue alte sfere, relativamente alla risposta che il sistema deve dare alle crisi che esso stesso produce. Ai fini della propria riproduzione il capitalismo si trova oggi di fronte al dilemma: continuare con i tassi di sfruttamento sin qui voluti o rivedere le proprie politiche di spoliazione assoluta ?
Questo dibattito, che preconizza in qualche modo anche risposte neo-keynesiane, chiede un ritorno al ruolo dello Stato, il ritorno a politiche che assicurino una redistribuzione minima della ricchezza.
Ma sebbene tale dibattito nel campo capitalista si stia aprendo, ciò che ancora appare è che la risposta che si vuol dare alle contraddizioni mondiali è una risposta di forza. Nel caso dell’Argentina, numerosi commentatori chiedono una soluzione alla crisi di tipo militare e dittatoriale. La fase che si è aperta in America Latina va seguita con grande attenzione, poiché potrebbe indicarci le attuali tendenze di fondo che caratterizzano la situazione internazionale.

A proposito di risposte di forza, passiamo all’Afghanistan. Vi è stato un duro intervento militare, il Paese è stato distrutto, ed ora si passerà alla fase della ricostruzione…Continua ad essere l’economia a dettare le sue regole?

Credo che se non si comprende che la guerra contro il popolo dell’Afghanistan sia stata fatta negli interessi del grande capitale e dell’imperialismo, non si può nemmeno comprendere l’essenza della fase che stiamo attraversando, il quadro drammatico che si preannuncia e che potrà materializzarsi se non saremo capaci di costruire un poderoso movimento di resistenza a questa politica imperialista di forza. Tutto potrà accadere per il petrolio, i gas e le risorse energetiche…

Ma le forze capitaliste e imperialiste potevano ottenere il petrolio e i gas di quella regione in forma pacifica. Perché hanno scelto la guerra?

Perché non sono solo gli interessi economici immediati ad essere in gioco. In relazione all’Afghanistan sono in gioco interessi geostrategici fondamentali. La posizione di questo Paese è storicamente strategica, un incrocio di civiltà diverse, un punto di passaggio di vie commerciali, un punto centrale, oggi, del processo di mondializzazione.
I grandi poteri hanno sempre cercato di dominare l’Afghanistan, come dimostra la storia della Russia zarista e della Gran Bretagna soprattutto. E’ nell’esigenza di esercitare la propria influenza ed egemonia su questo Paese geopoliticamente strategico che gli Usa hanno lanciato la loro guerra, in contrapposizione agli interessi dell’Iran, dell’India, della Russia e della Cina. La Cina è considerata ormai da molti osservatori come il vero avversario strategico degli Stati Uniti, e ciò fa comprendere pienamente la politica dell’imperialismo nordamericano nella zona.
Ha pertanto ragioni di carattere strategico il disegno nordamericano di dominio nella regione, anche se le questioni economiche, soprattutto in rapporto all’energia, hanno – secondo ormai molti osservatori – un peso rilevante.
Peraltro, è risaputo che gli Usa confidavano proprio nel regime dei talibani e nella sua stabilizzazione per controllare il flusso del petrolio in quell’area del mondo, come è risaputo che in quel regime confidavano le grandi compagnie nordamericane (e qui emergono gli interessi congiunti del sistema capitalistico Usa: lo Stato e il complesso industriale che domina l’economia) per negoziare la costruzione e la gestione degli oleodotti e dei gasdotti.

Gli attentati dell’11 settembre vengono poi ad alterare il quadro…

Naturalmente. La situazione creatasi attraverso gli attentati consegna agli Usa la possibilità di “portare ordine” nella regione…

Per “portare ordine” e portare se stessi in quell’area…

Esatto. Per la prima volta i nordamericani entrano nel Paese e possono costruire basi militari…

Aiutati dagli attentati dell’11 settembre e dal terrorismo…

Sì. Relativamente a ciò ricordo che il nostro Partito ha condannato sin dal primo momento quegli attentati terroristici, tanto per ragioni di principio quanto per ragioni di realismo politico, poiché tutta la storia delle forze progressiste e antimperialiste mostra che il terrorismo è stata sempre un’arma utilizzata dalla reazione e dalle forze dell’oscurantismo.
Un’altra posizione che prendemmo come Partito fu quella di non aprire una discussione relativamente agli autori degli attentati e al come essi furono possibili nella pratica. Non aprimmo questa discussione poiché ciò che ci interessa principalmente sono le conseguenze ed i processi politici di fondo che sono stati scatenati dall’11 settembre.
Tali processi vanno sviluppandosi con tale rapidità e in modo tanto funzionale agli interessi strategici dell’imperialismo nordamericano, che il minimo che possiamo dire è che la CIA e l’FBI, il Dipartimento di Stato ed il Pentagono da molto tempo, evidentemente, stavano preparando piani di contro attacco e di offensiva nella regione, piani da far scattare nel momento in cui tutte le condizioni per farlo si fossero date.
Il minimo che possiamo dire è che con gli attentati dell’11 settembre l’imperialismo nordamericano ha trovato il pretesto per scatenare la sua controffensiva e per risolvere alcune questioni che erano ormai centrali nella sua politica estera.

Uno di questi problemi era l’isolamento internazionale nel quale si trovavano gli USA?

L’isolamento crescente dell’amministrazione nordamericana, la caduta di prestigio e di autorità di George W.Bush, sono assolutamente in contrasto con la concezione che gli USA hanno di sé come superpotenza. Una grande opposizione internazionale si è levata contro il progetto di “guerre stellari”; un’onda di critiche si è alzata ad accusare la Casa Bianca per la rottura con il Protocollo di Kioto; uno scandalo mondiale ha suscitato l’abbandono, da parte degli USA e del suo alleato israeliano, della “Conferenza di Durban contro il Razzismo e la Xenofobia”; una vasta denuncia è cresciuta contro la politica nordamericana diretta a non ratificare la legittimità del Tribunale Penale Internazionale (TPI) …

Anche il Partito Comunista portoghese è contrario a tale ratifica, ma per ragioni diverse…

Esattamente. Noi siamo contrari al TPI perché esso rappresenta un’istanza di tipo sovranazionale, in relazione al quale i paesi piccoli, come il nostro, saranno sempre subalterni, data la sfavorevole correlazione di forze attuale. Le ragioni degli USA sono altre, come del resto essi stessi affermano: semplicemente non ammettono che leggi di carattere internazionale possano essere applicate alla più grande potenza mondiale.
Tornando alle questioni precedenti, occorre ricordare l’opposizione degli USA agli accordi e ai protocolli relativi alla messa al bando delle armi chimiche e batteriologiche, delle mine e di altre molte armi, un’opposizione che stava isolando l’amministrazione nordamericana tra gli stessi suoi alleati.
Per tutto questo gli USA sentivano il bisogno di promuovere una “stretta psicologica” – che gli avvenimenti dell’11 settembre hanno propiziato – in grado di riunire di nuovo, sotto la loro egemonia, l’intero campo alleato.

All’interno, gli USA hanno approfittato del clima creato dagli attacchi terroristici per legittimare le loro politiche governative. In questa fase, nella vita sociale e politica nordamericana, assistiamo non solo ad un aumento brutale del livello di disoccupazione – un milione di nuovi disoccupati nel 2001 – ma anche a fortissime restrizioni delle libertà civili, tanto care ai nordamericani…

E’ così. Una prima conseguenza dell’11 settembre, che vale la pena sottolineare, è stata la costruzione della mancante autorità del presidente Bush e della sua amministrazione. La vicenda delle ultime elezioni nordamericane è materia da antologia! I sondaggi davano il presidente eletto in forte calo. E ciò mentre gli USA vivevano già la fase delle piena recessione economica…Credo vi sia qui una questione teorica da affrontare. Dopo la sparizione dell’Unione Sovietica e del campo socialista in Europa fu propagandata l’idea della bontà assoluta e della superiorità del capitalismo, assieme all’idea che lo sviluppo capitalista potesse avvenire senza crisi e senza contraddizioni sociali…

La “fine della Storia”…

Esattamente. Si presentò il capitalismo come un sistema senza alternative, un sistema capace per sempre di trovare al suo interno le soluzioni per le proprie contraddizioni e le proprie crisi cicliche. L’evidenza mostra già ora quanto ciò non sia possibile. La crisi economica degli USA precede di gran lunga l’11 settembre, ma gli apparati mediatici e ideologici nord americani hanno propagato l’idea che la recessione e la crisi economica siano state conseguenza degli attentati dell’11 settembre.
Ciò ha permesso all’amministrazione Bush, sinora, di mascherare le profonde contraddizioni sociali attuali, rappresentate ad esempio dal fatto che nei due mesi precedenti la guerra sono stati eliminati negli USA 800 mila posti di lavoro, giunti ora ad un milione, in un processo negativo che sta continuando.
Ma oltre la questione dell’occupazione un’altra questione avanza prepotentemente: quella dei diritti, delle libertà e delle garanzie dei cittadini.
Sono state adottate, contro lo stesso popolo nordamericano e ancor più duramente contro gli stranieri e contro i cittadini di ascendenza straniera (primi fra tutti quelli di origine araba) misure volte alla restrizione delle libertà individuali di straordinaria gravità. Misure che violano i più elementari diritti e che stanno avendo una pericolosa estensione in Gran Bretagna, Canada, Unione europea. Basta osservare ciò che accade in Portogallo, dove per accogliere tali restrizioni della democrazia si sta alterando la Costituzione, in nome della giusta lotta contro il terrorismo.

Nella situazione attuale, caratterizzata dagli USA quale unica superpotenza, c’è chi sostiene che occorre rafforzare l’Unione europea, specificatamente dal punto di vista militare, per controbilanciare il potere nordamericano.
Che cosa pensi a proposito?

Effettivamente vi sono posizioni di questo tipo, anche tra le forze della sinistra. Noi abbiamo un’altra opinione. Crediamo che la lotta contro la superpotenza nordamericana non passi attraverso la costituzione di un’altra potenza – come l’Unione europea – che sul piano economico, politico, militare, giudiziario e dal punto di vista della sicurezza interna abbia le caratteristiche di un nuovo blocco imperialista, egemonizzato dai paesi più forti d’Europa.
Crediamo che non sia questo il cammino, poiché porterebbe ad una spirale di guerra economica, di corsa agli armamenti, di costruzione di condizioni materiali sulle quali si svilupperebbero pericolosi conflitti, compresi conflitti di carattere militare che non possono essere esclusi sino a che esiste l’imperialismo.

Uno degli argomenti invocati per il rafforzamento dell’Unione europea è questo: quando si viveva in un mondo bipolare, con la presenza degli Usa da un lato e dell’URSS dall’altro, la situazione globale era molto migliore di quella attuale, che vede un’unica superpotenza in grado di fare ciò che vuole…

Naturalmente, era un situazione di equilibrio strategico, globale, tra due sistemi sociali diversi, e ciò occorre che sia tenuto in considerazione. Da un lato vi era il campo socialista, che con tutte le critiche che possiamo fare ad un “modello” che ha portato le prime forme socialiste realizzate alla sconfitta, rappresentava un contrappeso poderoso, non solo all’imperialismo nordamericano, ma all’imperialismo in generale. Scomparso questo contrappeso formidabile, sono riemerse in tutta la loro feroce volontà di sfruttamento, aggressione ed espansionismo, le pulsioni imperialiste in generale e dell’imperialismo USA in particolare. E’ bene tenere presente, in un quadro sempre molto contraddittorio nel quale ogni semplificazione è da evitare, che, oltre gli USA, anche il Giappone si riarma e si militarizza, con l’obiettivo di intervenire fuori dei propri confini, specificatamente nell’area asiatica. Così come la Germania, che si è armata e militarizzata intervenendo apertamente nei Balcani e rivendicando una partecipazione attiva, possibilmente di direzione, nell’Afghanistan oggi e in Iraq, Somalia, Yemen, Siria, Libano domani…
Occorre tenere presente che alcune discussioni in corso sul piano internazionale, principalmente tra USA e Unione europea, hanno come tema centrale quello delle armi e della produzione di armi, sofisticatissime e di distruzione di massa.
Si tratta di una pulsione imperialista in generale, naturalmente, ma di un imperialismo caratterizzato dalla volontà degli Usa di imporsi ed egemonizzare i propri alleati. E’ necessario comprendere che le altre grandi potenze capitaliste sono alleate con gli USA in un sistema economico, politico e militare ben definito. Ad esempio il Giappone, nell’estremo Oriente, ha stretto con gli USA un accordo poco conosciuto – il trattato nipponico-nordamericano – recentemente rivisto e approfondito, che stabilisce una unione militare molto stretta tra i due paesi, naturalmente sotto la direzione degli USA.
E’ chiaro che la fase è diversa e ben peggiore di quella precedente della bipolarizzazione. L’unica strada è quella della lotta per il disarmo e contro le politiche interventiste. L’unico cammino, in Portogallo e nell’Unione europea, è quello della pace e della soluzione politica dei conflitti.

Sarebbe questa una politica più praticabile con una Federazione Europea?

Ciò che sarebbe stato necessario era l’applicazione integrale dell’Atto Finale di Helsinki e il funzionamento dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione europea (OCSE), secondo i suoi princìpi.
Ciò che è accaduto è che tale organizzazione è stata completamente svuotata dei suoi princìpi originali e si è trasformata in uno strumento dell’imperialismo e della NATO. Siamo contrari ad una tale situazione. Poiché, a partire da gennaio, il Portogallo presiederà l’OCSE, noi non rinunceremo – nella misura in cui potremo farlo – a porre il problema del rafforzamento di tale organizzazione, in accordo con i principi della Carta del ‘75: ciò è di grande importanza per giungere ad un mondo di pace, amicizia e cooperazione.

Passando dal campo di ciò che dovrebbe essere a quello di ciò che è: noi verifichiamo il fatto che tanto l’OCSE quanto l’ONU sono sottomessi agli interessi nordamericani…

E’ vero, ma è necessario lottare nei diversi paesi affinché la politica dei rispettivi governi non sia più subordinata agli USA, ma sia una politica di resistenza, di opposizione e di lotta per il disarmo. Pensiamo ad esempio alla questione del disarmo nucleare. E’ una questione che rischia di essere banalizzata, se assunta come una questione naturale. Oggi, a livello ufficiale, quasi non se ne parla più. Non ne parlano più i governi dell’Unione europea e degli USA. L’obiettivo dell’abolizione delle armi nucleari, della liquidazione e della proibizione di tutte le armi di distruzione di massa è stato abbandonato con la scomparsa dell’Unione Sovietica e del campo socialista. Oggi, al contrario, ciò che si sta facendo è accelerare la corsa al riarmo, e ciò rappresenta il pericolo centrale.

E’ questo nuovo ordine che gli USA pretendono di imporre al mondo…

Certo. E’ un ordine egemonizzato dagli USA, al servizio del grande capitale, dal carattere totalitario. Gli ideologi del capitalismo non lo nascondono, dicendo che il mondo non è governabile senza questa grande potenza, l’unica oggi esistente e che anzi, per gli USA, il governo del mondo è “una missione”. Tutto ciò è di una gravità assoluta.
Ciò che noi diciamo è che questo disegno non deve verificarsi, che spazi di lotta si vanno aprendo, anche all’interno delle Nazioni Unite. Alcune battaglie che sono state condotte da paesi del Terzo Mondo contro le grandi potenze capitaliste lo dimostrano.
Ad esempio la recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla questione palestinese ha costretto gli USA a ricorrere al diritto di veto, cosa che denota il suo isolamento. Questo nuovo ordine, questo dominio totale, questa manipolazione senza limiti delle grandi organizzazioni internazionali da parte degli USA è tuttavia una realtà. Ma un movimento si profila all’orizzonte, che potrà cambiare questa situazione.

E ha la forza per farlo?

Una nuova situazione più favorevole alle forze della pace e del progresso sociale, una nuova situazione in cui le pulsioni aggressive e sfruttatrici del grande capitale possano essere respinte, limitate, esige una nuova correlazione di forze a livello mondiale. Questa nuova correlazione di forze può essere data dallo sviluppo delle lotte e la materializzazione di processi di trasformazione progressisti e rivoluzionari in diversi paesi del mondo, in tempi che non siamo in grado, oggi, di prevedere.
Questi ultimi dieci anni, dati come gli anni della “morte del comunismo” e delle forze anticapitalistiche, sono stati anni nei quali né i lavoratori né i popoli hanno deposto le armi della lotta, in nessuna parte del mondo.
Hanno continuato a resistere e lottare e possiamo dire – anche se non si può asserire che siamo stati di fronte allo sviluppo di nuovi processi di emancipazione nazionale e sociale – che tale resistenza si sta allargando e cresce un poco in ogni parte, esprimendosi con forme nuove e interessanti, ad esempio attraverso i movimenti antiglobalizzazione, come è accaduto a Genova.
Pensiamo che una nuova correlazione di forze e la capacità di invertire il segno politico della fase passi per uno sviluppo delle lotte in generale. Al contrario di ciò che pensano alcuni settori e membri del nostro Partito, il tempo che abbiamo di fronte è il tempo della dura lotta e dei grandi conflitti antimperialisti.
Non può che passare per qui, da questa lotta contro l’imperialismo, come la Storia dimostra, la costruzione di nuovi rapporti di forza che permettano di porre termine all’attuale offensiva del capitale.

In questi nuovi movimenti che stanno emergendo il ruolo dei partiti non è molto determinante. Che lettura possiamo dare di tale fenomeno?

Ciò che possiamo dire relativamente a tali processi è che essi esprimono lo sgretolamento della base sociale e politica d’appoggio del capitalismo. Segnano l’entrata in lotta di nuovi ceti e settori della società, principalmente ceti intermedi, settori intellettuali, giovani; senza pretendere di mettere a fuoco un quadro rigoroso, poiché si tratta di un movimento in marcia e molto eterogeneo, possiamo dire che vi sono all’interno di tale movimento settori con obiettivi rivoluzionari, col disegno di trasformazione socialista della società, con al fianco settori dagli obiettivi limitati, come l’annullamento del debito estero o la Tobin tax…
E’ chiaro che un movimento di tali caratteristiche e nel quadro degli attuali rapporti di forza non può che avere al proprio interno una grande discussione, un’intensa lotta ideologica e contraddizioni all’interno delle proprie iniziative e delle proprie azioni. Ciò è naturale. Si sviluppano, all’interno di tali movimenti, da un lato posizioni chiaramente antimperialiste e, dall’altro, posizioni tendenti ad esprimere opzioni di tipo neo-keynesiano, sulle quali tentano di esercitare egemonia settori della socialdemocrazia.
Questa lotta esiste, è una lotta politica, di idee, e noi stiamo all’interno di essa. Pensiamo sia importante dare forza a tali processi, pensiamo sia importante, per i partiti comunisti e le forze rivoluzionarie esserci, all’interno dei movimenti, senza che questo voglia dire sciogliersi nei movimenti o perdere i propri obiettivi strategici.

L’apparizione di tali movimenti significa che viviamo in un periodo di regressione democratica o è il segno dell’incapacità dei partiti di dare risposte ai problemi?

E’ inevitabile che, nell’indebolimento delle forze progressiste e rivoluzionarie in generale e dei partiti comunisti e del movimento comunista internazionale in particolare, avanzano altre forze. Questo fenomeno segna la fase, come ha segnato altri periodi della Storia.
E’ importante capire, intanto, che la lotta antimperialista non si esprime principalmente attraverso questi movimenti, per quanto importanti siano. Certi aspetti di questi movimenti sono fortemente volti all’effetto “mediatico”, per la loro natura sociale e per la novità che rappresentano, e anche ciò attiene al quadro di lotta ideologica di cui parlavamo.
Questi movimenti esprimono una certa disaffezione , un disincanto, rispetto alla democrazia, sentimenti che producono forme nuove di intervento politico, alcune delle quali errate, anche se poi nella loro ideologia, il problema del potere politico è messo ai margini. Tutto ciò potrebbe essere compreso all’interno di un quadro generale di degenerazione del sistema rappresentativo liberal borghese…

E qual è l’alternativa?

Questi movimenti non rappresentano né l’unica né la principale espressione della lotta contro la globalizzazione imperialista. La principale forma di lotta è quella che viviamo qui, in Portogallo, e che si manifesta in Palestina, in Colombia, in Argentina, nel Cile, in tutto il mondo, e che non ha nulla a che vedere con quella che viene chiamata “l’agenda antimondializzazione”. E’ una lotta contro lo sfruttamento, contro l’oppressione, contro il neoliberismo, contro il capitalismo, contro l’imperialismo, una lotta che è stata lanciata dalle forze progressiste e che si sviluppa da molto tempo. Se parliamo della Palestina parliamo dell’OLP e delle forze ad essa legate; se parliamo del Sahara parliamo del Fronte Polisario; se ci riferiamo alla Colombia dobbiamo parlare del Partito Comunista di Colombia … Ciò che occorre dire è che i movimenti restringono il loro raggio d’azione all’interno del quadro politico liberal borghese senza altre prospettive, rinunciando a forme più radicali di contestazione. Queste posizioni sono molto contraddittorie, gli obiettivi sono chiusi all’interno di un progetto di “sviluppo della società civile”, e la questione del potere politico non è posta…

E dov’è la forza dei partiti comunisti e operai?

Nel nostro penultimo Congresso asserivamo che il movimento comunista viveva una crisi, e nel XVI Congresso che tale crisi non era stata superata. Valorizzavamo, contemporaneamente, il fatto che i partiti comunisti, di minori o maggiori dimensioni, interni o meno al potere politico, continuavano a resistere e in diversi casi a progredire. Ma senza che ciò rappresentasse un recupero globale del movimento comunista e rivoluzionario; al contrario, dicevamo di essere di fronte ad un periodo di resistenza, di difesa delle posizioni, un periodo segnato dalla necessità del rinnovamento , in accordo col mutare della vita e in relazione alle lezioni dell’esperienza storica.
Credo sia giusto sottolineare che uno degli aspetti principali della controffensiva degli USA sul piano internazionale, dal punto di vista della costruzione dei meccanismi per gli interventi militari volti alla difesa dei propri interessi, sia rappresentata dal tentativo di demonizzare tute le forze internazionali che, battendosi contro le politiche iperliberiste che abbattono ovunque libertà e diritti, mettono in discussione l’egemonia imperialista.
Da questo punto di vista vi è il tentativo di assimilare il terrorismo alle forze che resistono e lottano contro il capitalismo e l’imperialismo, per legittimare gli interventi militari nelle aree del mondo ove si sviluppano processi di trasformazione progressista e rivoluzionaria della società.

Sono già stati annunciati nuovi interventi…

Col pretesto della lotta a Bin Laden e al terrorismo si annunciano già nuove aggressioni militari. Ciò è inquietante, poiché al di là dell’annuncio in sé, quella che viene rivelata è una concezione terrificante che si ha del nuovo ordine mondiale, delle relazioni internazionali, dello stesso quadro planetario…

Non vi è anche un tentativo di ridisegnare la mappa del mondo? Gli ultimi interventi nordamericani sembrano evocare una strategia volta alla balcanizzazione dell’intero pianeta. Non è solo il caso della Jugoslavia, ma anche quello dell’Iraq e dell’Afghanistan…

Di fatto avanza una linea ideologica tendente alla “svalorizzazione” del ruolo degli Stati Nazionali. L’obiettivo dell’imperialismo in generale è quello di smantellare le frontiere nazionali, in modo che merci e capitali possano circolare liberamente e in modo da ridurre i governi a puri gestori delle strategie economiche di lucro delle grandi multinazionali.
Per giungere a tale obiettivo occorre, per l’imperialismo, ridisegnare la mappa del mondo. Un processo che possiamo chiamare di ricolonizzazione. Se questo potrà passare attraverso la frantumazione degli Stati Nazionali, all’interno della vecchia politica del divide et impera e dell’abbattimento delle opposizioni antimperialiste, è chiaro che sarà tentato con tutte le forze tentato.
E occorre osservare, parlando specialmente dei paesi con ruolo determinante nelle aree del mondo, che è partito un processo di riaggregazione delle forze favorevoli all’imperialismo.

E’ ciò che sta accadendo in Russia, per esempio?

Esattamente. Il che è molto inquietante. La Russia è stata introdotta al liberismo dalla politica di Eltsin; Putin segue fondamentalmente la stessa politica di classe, una politica contraria agli interessi nazionali, che trova un’opposizione nel Partito Comunista della Federazione Russa, il maggior partito della Russia…
Sul piano interno, Putin continua la stessa linea di privatizzazioni, di apertura al capitale estero, di denazionalizzazione della terra, creando grandi contraddizzioni economiche e politiche per il futuro.
Ma parlando della riorganizzazione delle forze filoimperialiste facciamo un altro esempio: l’India.
In questo momento si riacutizzano le tensioni tra India e Pakistan, e ciò avviene, curiosamente, nella fase dell’intervento militare USA nella regione e, curiosamente, tra una dittatura che appoggiava i taliban e un governo del fondamentalismo induista (un governo che ha portato l’India ad abbandonare, per la prima volta nella sua storia, la politica di non allineamento scegliendo invece di appoggiare gli USA nell’aggressione contro l’Afghanistan). Ciò che sta accadendo in India, con questo governo e in questa congiuntura, può bene indicare un pericolo: quello che diversi paesi possano abbandonare quella politica di pace e di disarmo perseguita dal Movimento dei Non Allineati.

In quanto alla Cina?

La Cina è sempre stata un elemento molto importante in questo processo.
Per comprendere la situazione, anche rispetto alla questione dell’Afghanistan e della guerra in Asia Centrale, occorre ricordare che la Cina confina con l’Afghanistan. Non dubitiamo del fatto che sulla Cina siano state esercitate , esternamente ed internamente, forti pressioni.
La Cina rappresenta uno dei punti strategici fondamentali della politica estera nordamericana. Si ricordi il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado, che oggi sappiamo essere stato un bombardamento voluto, atto a saggiare la reazione cinese; si ricordi l’incidente dell’aereo-spia nordamericano e le sue conseguenze; è bene rammentare il gravissimo contenzioso che esiste con Formosa, che vive una fase di forte riarmo; è importante tener presente che il trattato nippo-statunitense, volto all’egemonia sul Pacifico, ha un valore essenzialmente anticinese; che la questione del Tibet ed altre situazioni sono agitate dall’esterno… La Cina, come è riconosciuto da numerosi specialisti, rappresenta un fattore che ostacola gli obiettivi di egemonia planetaria degli USA…

Nel contempo vediamo la Cina entrare nell’Organizzazione Mondiale per il Commercio e iniziare a svolgere un ruolo molto importante nell’economia mondiale…

Senza dubbio. La Cina rappresenta ormai un soggetto centrale nel quadro mondiale. Se manterrà – come gli analisti suppongono – i ritmi di sviluppo di questi anni, diverrà una delle maggiori potenze, entro la prima metà di questo secolo. Non si può nascondere l’importanza della Cina sul piano internazionale, come non si può fare a meno di riconoscere il carattere complesso, e per certi versi contraddittorio, dei processi di sviluppo cinese sul piano interno come sul piano internazionale.

Delineato il panorama mondiale, che prospettive abbiamo per il futuro?

Sia sul piano nazionale che a livello internazionale abbiamo una prospettiva chiara: la necessità di unire le forze contro la politica aggressiva dell’imperialismo nordamericano e delle altre grandi potenze che vogliono imporre al mondo un nuovo ordine istituzionale e giuridico contro i lavoratori e contro i popoli; un nuovo ordine mondiale volto ad impedire la realizzazione degli obiettivi di emancipazione per i quali si battono non solo i comunisti ma molte altre forze rivoluzionarie, progressiste e di sinistra del mondo.
Vi è l’esigenza particolare di mettere in campo un vasto e forte movimento di lotta per la pace, per il disarmo e per la solidarietà internazionalista.
E’ un fronte di lotta che si è indebolito negli ultimi anni, ma che va rivitalizzandosi, anche all’interno di quel movimento noglobal che non aveva nel suo orizzonte e nei suoi obiettivi la questione della lotta per la pace e per il disarmo, contro la guerra e contro l’imperialismo, e che ora inizia, in alcune sue parti, a porsi il problema della conquista di obiettivi non solo di carattere economico, ma anche politico, a porsi il problema di una lotta anticapitalistica e antimperialista.
E’ assolutamente necessario porre all’ordine del giorno l’eliminazione delle armi nucleari. La sottovalutazione del pericolo di guerre nucleari è esso stesso uno dei problemi attuali più drammatici. Non mi riferisco solo al fatto che la maggioranza dell’opinione pubblica degli USA – secondo alcuni sondaggi – riterrebbe necessario, in caso di “bisogno”, l’utilizzo delle armi nucleari; mi riferisco anche al fatto accaduto in Pakistan, dove degli irresponsabili hanno, in questa fase, dichiarato come “naturale” l’esigenza di utilizzare armi non convenzionali in una eventuale guerra contro l’India. Tali posizioni sono state esplicitate e divulgate senza commenti critici, e ciò rende ancora più grave la questione…

Come grave appare ciò che sta accadendo a Tora Bora, in Afghanistan…

Tora Bora è un mistero da decifrare. Ciò che quantomeno possiamo dire è che è stata fatta in quella zona “un’esperienza”, riguardo all’uso di armi di sterminio. Non saranno forse state armi di tipo nucleare, ma certo è che ciò che è stato utilizzato per bombardare vìola di gran lunga le convenzioni internazionali. Anche da ciò occorre partire per rimettere al centro la lotta contro il riarmo e per l’abolizione delle armi nucleari, chimiche e batteriologiche. Per questa lotta, che deve tornare ad essere centrale, occorre costruire un ampio movimento che superi le barriere di classe e le divisioni politiche tra i partiti, che sul piano della lotta contro la strategia dello sterminio possano unirsi. Un altro aspetto della lotta per la pace è l’esigenza della ricostruzione della solidarietà internazionalista con i popoli in lotta.

Pensiamo immediatamente alla Palestina…

Certo. E’ necessario mettere in campo un ampio movimento di solidarietà col popolo palestinese, che sta subendo uno dei massimi crimini di Stato che la Storia ricordi. E’ cinico, crudele, sofisticato, il disegno di quella che viene chiamata la democrazia israeliana volto a trasformare la Palestina occupata in una terribile prigione e in un grande campo di morte. Ciò che stanno portando avanti Ariel Sharon e i suoi alleati è un orrore che dovrebbe far indignare e reagire tutti i popoli del mondo. Sarà soltanto attraverso la costruzione di un grande movimento di solidarietà col popolo palestinese che sarà possibile far retrocedere l’imperialismo. Non dobbiamo mai dimenticarci la guerra contro il Vietnam. E’ solo attraverso l’organizzazione persistente del movimento per la pace e la solidarietà internazionalista con i popoli oppressi che si potrà mutare il quadro attuale.

C’è chi teorizza la necessità di una risposta globale alla globalizzazione, ponendo un problema: che le lotte in ogni paese potrebbero rappresentare una dispersione delle forze…

La nostra posizione relativamente a ciò è molto chiara: nulla può sostituire la resistenza e la lotta dei lavoratori e dei popoli nel quadro del proprio paese. Contemporaneamente, nell’epoca in cui viviamo, caratterizzata da una intensa internazionalizzazione dei processi produttivi, è assolutamente necessario intensificare le azioni comuni e la cooperazione tra i lavoratori ed i popoli di tutto il mondo. Rispetto a ciò vi è una grande carenza, che segnala un pericolo. Da parte nostra, faremo tutto ciò che ci sarà possibile per superare positivamente questa situazione.

* tratta da Avante!, settimanale del Partito Comunista Portoghese (4 gennaio 2002).

Traduzione a cura di Fosco Giannini