Attualità della critica marxiana del mutualismo anarchico e proudhoniano – Centralità sociale del lavoro salariato e funzione storica generale della classe operaia – Sfruttamento e falsa coscienza nel Terzo Settore.
Nappo: Il libro di Alberto Burgio ha il pregio fondamentale di affrontare in modo diretto alcuni nodi politici e teorici che nel dibattito politico di questi anni sono stati spesso, nella migliore delle ipotesi, appena toccati. Nel libro c’è invece uno sforzo di analisi e di ricostruzione di questioni essenziali: il ruolo del lavoro, in generale, nella riproduzione sociale; la figura attuale del lavoro produttivo; il problema del reddito in rapporto al lavoro; la pretesa, la cui fondatezza il libro discute, del cosiddetto Terzo Settore, dell’area delle attività cosiddette no-profit, di costituire un’alternativa alla società capitalistica nel senso di una cooperazione mutualistica che è esterna allo Stato e che si propone come un modello di società. La premessa dell’analisi, della discussione e della critica dell’ideologia del Terzo Settore è la ripresa della critica di Marx a Proudhon e agli anarchici, quindi a quella impostazione della lotta politica per la quale si tratta in sostanza di organizzare una socialità già esistente, quella del lavoro cooperativo semplice, di assicurarne l’indipendenza dal peso dell’interesse bancario o dalle interferenze del potere politico; una sorta di liberazione di una socialità produttiva qualitativamente diversa dal capitalismo che si tratterebbe, appunto, di consolidare nella sua indipendenza. Da questo punto di vista il libro si confronta, anche polemicamente, con quelle elaborazioni interne al movimento anticapitalistico attuale, che puntano anch’esse ad un’alternativa al sistema capitalistico concepita essenzialmente come un processo di separazione dallo Stato e quindi come l’organizzazione di un’indipendenza politica del lavoro di cui esisterebbero già, secondo queste analisi, tutti i presupposti strutturali. Il lavoro sociale avrebbe infatti oggi caratteri di cooperazione che eccedono la logica della subordinazione del lavoro al capitale, subordinazione che peraltro continua nella misura in cui il lavoro salariato non cessa affatto, ma si espande ulteriormente e permea, anzi, tutti gli anfratti e gli interstizi della riproduzione sociale. Forte è invece, da parte di Burgio, la critica alla tesi della fine del lavoro, a quelle analisi che considerano in sostanza soppiantato il lavoro dall’automazione crescente del processo produttivo o lo considerano evidentemente un residuo storico. È questo il presupposto, la premessa di molti teorici del Terzo Settore che appunto considerano il lavoro salariato come un’attività in via di estinzione e quindi come un qualcosa che non costituisce più il fulcro della riproduzione del capitale, donde lo spostamento dell’asse del ragionamento politico, della proposta, ma anche dell’iniziativa di queste forze verso il cosiddetto Terzo Settore, cioè verso lo smantellamento e la privatizzazione dello Stato sociale. Ad esso queste forze offrono una sorta di sostituto o di surrogato, ponendo la loro attività come un’attività capace di assicurare i servizi sociali che prima erano a carico dello Stato, coniugando efficienza e solidarietà nella presunzione che questo tipo di attività d’impresa no-profit, come si autodefinisce, sia aliena dalla logica del profitto e in generale si possa ispirare nei rapporti di lavoro interni a criteri di cooperazione e di solidarietà estranei appunto alla logica del capitalismo. Queste pretese vengono nel libro discusse e criticate, a mio avviso con grande efficacia, riproponendo e attualizzando l’analisi della figura del lavoro produttivo.
Burgio: La prima ragione di attualità secondo me della teoria di Marx, ma in particolare del resoconto che di quella teoria fornisce il Manifesto è l’idea che oggi non solo vi sia ancora il capitalismo, non solo vi sia ancora la lotta di classe, ma che il conflitto la contraddizione fondamentale tra capitale e lavoro costituisca a tutt’ora il fulcro intorno al quale la società capitalista nella quale noi viviamo riconosce se stessa. Questo elemento, questo fatto che esistono ancora le classi, esiste ancora la contrapposizione di classe, esiste ancora un capitale come tipologia del rapporto sociale dominante e che il capitale in quanto rapporto sociale che informa di sé la società nella quale viviamo, vive e si riproduce valorizzandosi attraverso l’estrazione di valore, questa verità è tutt’altro che scontata in quanto è profondamente discussa e secondo alcuni ormai non più tale, mentre a mio modo di vedere lo è. Dire, tuttavia, questo merita di essere commentato e spiegato. Perché oggi spesso tanti compagni e tante voci della sinistra, negano l’attualità del conflitto capitale lavoro e quindi in definitiva l’attualità se non del capitalismo tout-court, certamente di quel capitalismo di cui Marx ha fornito un’analisi critica. Bene, la tesi che si suole elaborare da parte di chi enuncia questa posizione è la seguente: forse c’è il capitalismo, ma non c’è più il lavoro o tendenzialmente non c’è più il lavoro o il lavoro, nella misura in cui c’è, è residuale; comunque non è più la fonte del valore ed è una componente tendenzialmente marginale della riproduzione. Ora io credo che valga la pena, viceversa, di guardare direttamente questa posizione e io ho provato con competenze che forse non sono le più canoniche anche un po’ a smontarla. Ho provato a vedere il tema della disoccupazione come realmente stia nei fatti. Ho cercato di vedere quanto lavoro ci sia in quell’enorme e crescente continente dei lavori atipici, ho cercato anche di ragionare su quel lavoro che c’è, ma non è riconosciuto in quanto lavoro, parlo per esempio del lavoro domestico, ma parlo soprattutto del lavoro – non lavoro, del lavoro che si confonde con la prassi della riproduzione sociale, cioè la relazione sociale e la vita relazionale come possibile luogo di valorizzazione del capitale. È questo il tema di quel cosiddetto Frammento sulle macchine nei Grundrisse dove Marx, mettendo al lavoro la propria straordinaria immaginazione preventiva, pare dire: “Forse ci sarà un momento in cui la crescita del capitale costante e lo sconvolgente sviluppo delle tecnologie faranno sì che non sarà più il lavoro nella fabbrica e nella grande industria il luogo di produzione di valore, ma invece in qualche modo la stessa relazione sociale”. Io ho cercato di vedere dentro questa ipotesi e mi sono domandato quanto e se non si possa mettere in crisi la mitologia della fine del lavoro non solo riferendosi al sommerso, non solo riferendosi all’atipico, non solo riferendosi al domestico, ma anche, in parte, riferendosi a questo che è ovviamente un tema problematico che in qualche maniera bisognerebbe cercare di prendere sul serio. Ecco la prima ragione per cui ho cercato di scrivere questo libro: la non verità della presunta obsolescenza delle analisi marxiane in relazione a questo tema: fine del lavoro e fine della politica come organizzazione della soggettività del lavoro, dunque fine del conflitto.
La seconda ragione è quella che com’è noto nel Manifesto Marx polemizza contro le varie forme di socialismi, soprattutto quello borghese e conservatore, che, secondo Marx ha la grande colpa, il grande limite di non comprendere che la modernizzazione capitalistica, lo sviluppo capitalistico se per un verso è certamente un processo dirompente, violento e devastante, tuttavia include delle potenzialità progressive. Agli occhi di Marx, com’è noto, le potenzialità progressive dello sviluppo capitalistico si riassumono nel fatto stesso che il capitale non può non generare la classe operaia, quel soggetto tendenzialmente unitario, omogeneo al proprio interno, che contiene per le sue stesse funzioni riproduttive, le potenzialità del rovesciamento rivoluzionario. L’idea è che quindi il capitalismo pur essendo un sistema di dominio ancor più violento delle formazioni sociali precedenti, tuttavia costituisce un passaggio dal quale si deve uscire in avanti. Marx se la prende durissimamente con quei sedicenti socialisti che, atterriti dalla dinamica violenta della modernizzazione, predicano di uscirne per dir così all’indietro, recuperando cioè, come forme d’organizzazione per una moderna società, l’artigianato, la funzione della proprietà immediata indipendente agricola, le piccole proprietà contadine ecc. Esistono ancora, secondo me, i socialisti conservatori borghesi e il paradosso è che questi socialisti conservatori borghesi si annidano ai miei occhi, almeno in parte, proprio all’interno di quella tendenza che qui si presenta come maggiormente radicale antagonistica, antisistemica, rivoluzionaria e come dire estrema nelle proprie intenzioni rivoluzionarie. Sono quanti predicano che bisogna smetterla appunto di ragionare in termini di lotta di classe, di conflitto anticapitalistico e quindi fanno partire da qui la possibilità di costruire delle enclaves che si sottraggano alla logica stessa della riproduzione capitalistica per una scelta unilaterale, per inaugurare una forma vera dell’interazione e della riproduzione emancipata appunto dallo scambio del mercato e invece insediata sulla logica del valore d’uso, del lavoro concreto e della utilità gratuita, cioè lo scambio gratuito, il dono, la solidarietà. Il problema è che ci sono due cose in questo discorso: una enorme dose di ipocrisia da parte di chi sul volontariato, sul Terzo Settore, sulla privatizzazione dei servizi specula sia per ragioni economiche, sia per ragioni politiche; e una buona dose, in chi non è ipocrita, di astrattezza ideologica che però porta anche la grande responsabilità di legittimare ideologicamente questi processi di privatizzazione del welfare, di sfruttamento del lavoro volontario in forme anche molto pesanti, e neo- servili, e si assume un’altra responsabilità: sottrarre questa area di lavoro salariato comandato e sfruttato alle possibilità di conflitto e vertenzialità produttiva. Secondo me, il lavoro che noi dovremmo fare è far saltar fuori tutto il lavoro che c’è, anche quello che sta letteralmente isolato, e noi non abbiamo strumenti analitici adeguati a riconoscerlo come tale, farlo saltar fuori per organizzarlo come soggetto di conflitto. Da questo punto di vista Io credo che sia anche interessante dialogare con chi chiede retribuzione per questi lavori. L’argomento non dovrebbe essere quello della cittadinanza perché, se io chiedo che venga retribuito chiunque per il solo fatto che è cittadino, rischio di non riconoscere che viceversa ciò che egli ha diritto che gli venga retribuito è la sua partecipazione alla riproduzione e al processo di valorizzazione. I sussidi alla disoccupazione o comunque le opportunità di disporre di risorse economiche che rendano la vita praticabile e dignitosa sono comunque da perseguire, ma se noi vogliamo muoverci in una logica anche di trasformazione, dovremmo cercare non di includere in forme secondo me oggettivamente discriminatorie persone alle quali si dà una piccola elemosina perché così non disturbino, ma invece riconoscere nella misura del possibile quanti lavorano come persone che hanno diritto ad essere retribuite.
Il solidarismo umanitario come tentativo di rimuovere il confltto – La truffa fiscale e sociale del no-profit – L’illusione dell’autogestione senza lotta di classe – La contrapposizione di capitale e lavoro rimane al centro della società dello sfruttamento – Il compito prioritario è la ricomposizione della classe lavoratrice.
Graziani: Dico subito che un libro come questo si legge con grande sollievo dopo tanti e tanti articoli di riviste e di quotidiani in cui gli autori più autorevoli cercavano di spiegarci gli errori di Marx, del marxismo, della sinistra, la necessità di pentirci, di ritrattare tutto quello che abbiamo detto, fatto, pensato e scritto negli anni passati. Finalmente un libro che prende, come si dice, il toro per le corna e sistema le cose con grande chiarezza, senza livore polemico, ma con profonda convinzione. Noi siamo un po’ abituati a sentirci raccontare la ormai solita storia del perché Marx aveva sbagliato, dei suoi grandi errori: Marx prevedeva il declino inarrestabile del capitalismo e questo declino non si è verificato, dicono i nostri critici senza considerare, con scarsa onestà scientifica, la complessità dell’analisi marxiana, l’insieme delle tendenze e delle controtendenze che egli individua.
Marx inoltre ha pronosticato l’impoverimento della classe lavoratrice e questo nemmeno si è realizzato, contestano i nostri critici. Eppure, si potrebbe obiettare a costoro, basta mettere la testa fuori dalla finestra per vedere nelle nostre strade le povertà vecchie e nuove che affliggono i lavoratori e le loro famiglie.
C’è un modo di pensare che in due parole può essere detto così: ormai il capitalismo è superato, è giusto che l’organizzazione del lavoro sia basata su tante forme diverse di prestazione lavorativa e cioè sulla frammentazione, le diseguaglianze sono purtroppo qualcosa che dobbiamo accettare perché sono un meccanismo di maggiore produttività. Noi dobbiamo intervenire, noi della sinistra, della cosiddetta sinistra, soltanto nelle situazioni di estrema miseria e a titolo di benevolenza umanitaria, di carità, di amore fraterno per il prossimo. Presto ci si rifugia, quasi quasi si identifica la propria azione sociale in questa sorta di solidarismo che non si sa se è dettato dal buon cuore, da matrici ideologiche d’origine cattolica (perché poi è la Chiesa cattolica la più attiva, almeno nei nostri paesi, in queste forme di assistenza) o se è semplicemente dettato dalla ragione di voler placare il conflitto, dato che il conflitto potrebbe esplodere. Comunque rimane questa idea che si debba intervenire non per soddisfare il diritto del cittadino, ma unicamente a titolo di carità e di beneficenza per tamponare le situazioni più estreme. Nascono così queste organizzazioni solidaristiche che almeno a parole rifiutano il profitto, le organizzazioni senza scopo di lucro, le organizzazioni cosiddette, all’inglese, no profit. Su queste molto opportunamente Burgio si sofferma per denunciare le magagne di queste organizzazioni. Qui la legge è estremamente generosa, la legge riconosce una serie di benefici fiscali d’ogni genere purchè queste organizzazioni destinino i profitti realizzati a scopi d’eguale contenuto oppure non ne realizzino proprio, ma è molto facile far scomparire i profitti, basta attribuirsi come salari e come stipendi tutto quello che avanza dalla gestione, dopodichè quelli che in un impresa comune si chiamerebbero profitti compaiono invece come costi e il bilancio è chiuso in pareggio o addirittura in passivo. Quindi è evidente che con questo si è aperta una falla di truffa fiscale e di truffa sociale che si sta purtroppo allargando senza fine.
Altri brandelli della sinistra sempre pronti a rifiutare l’interpretazione autentica del capitalismo si sono rifugiati, come ricordava anche adesso Burgio, in altre direzioni. Quelli che non hanno la vocazione umanitaria solidaristica si rifugiano, invece che nella tutela del povero, nella tutela della natura: gli ecologisti, i naturisti, ma qui di nuovo, come dice molto giustamente Burgio, si assiste ad una sorta di mescolanza della ideologia della destra con quella della sinistra. I verdi considerano se stessi una forza di sinistra, però poi non dobbiamo dimenticare quante voci vengono invece da destra le quali fanno l’elogio della vita contadina, della frugalità della classe rurale, del sapersi accontentare di poco, di com’era bravo il contadino di tanti anni fa che lavorava dall’alba al tramonto e mangiava un tozzo di pane. Allora qui si scoprono le carte: sotto questo elogio del ritorno alla natura, io non vorrei essere semplificatore, c’è l’elogio di accontentarsi di un basso salario e di un basso reddito e quindi di dare spazio ad un profitto alto. Quindi bisogna stare molto attenti in questa lettura dell’ecologismo.
Effettivamente vi si coniugano elementi che potrebbero anche essere di autentica tutela della natura, delle opere d’arte, dei monumenti, con tutta un ideologia completamente diversa che non ha un contenuto né naturistico né archeologico, né monumentale, ma un contenuto sociale.
C’è poi, come ricordava ancora Burgio, un altro brandello della sinistra che si illude di creare forme di gestione economica che non siano né tipiche del capitalismo, né primitive, siano però tali da assicurare l’assenza di mutamento, l’autogestione per esempio, un terzo settore che non sia antagonista, che non conosca la lotta di classe; ma evidentemente è un illusione quello di creare un isola in cui si possa creare un sistema diverso da quello capitalistico quando il sistema capitalistico ha invaso con una regola sola tutto il mondo e impone i suoi condizionamenti a tutti quelli che vogliono avere accesso al mercato. È evidente che i monaci possono rinchiudersi in un monastero e vivere dei prodotti del loro orticello, ma questo evidentemente non è una ricetta che si può raccomandare come soluzione per i problemi della società di oggi. Sia l’interpretazione del capitalismo di oggi come un capitalismo ormai diverso in un mondo diverso da quello di una volta perché la classe operaia non esisterebbe più sia le possibilità di creare delle alternative con questi piccoli diversivi sono da respingere e così quindi l’idea che il capitalismo sia stato sostituito da una società postfordista che non sarebbe più la società della fabbrica, non sarebbe più la società dello sfruttamento, sarebbe la società dove il lavoratore è autonomo e indipendente, sarebbe una società senza servi né padroni. Tutto questo in realtà è un mito perché sotto forme diverse noi ritroviamo sempre la contrapposizione tra capitale e lavoro e il problema è soltanto di esserne consapevoli in maniera un po’ più scaltra di quanto fosse necessario un secolo fa.
Veniamo allora al problema del che fare. È evidente che per superare questa situazione noi dobbiamo anzitutto superare questa frammentazione, non dobbiamo accettare sul piano del dialogo l’idea che la classe lavoratrice non esista più, dobbiamo cercare invece di ricomporre questi brandelli di classe lavoratrice divisi tra operai di fabbrica ancora sindacalizzati, lavoratori autonomi indipendenti, lavoratori atipici, lavoratori sommersi, lavoratori precari, tutto questo va ricomposto creando una consapevolezza della medesima appartenenza di classe perché soltanto allora sarà possibile riportare questa società non soltanto ad una diagnosi corretta, ma anche a forme di organizzazione e di lotta e quindi di avanzamento sociale che un tempo, quando davvero la classe operaia era concentrata nelle fabbriche, quando davvero l’organizzazione sindacale funzionava ed otteneva delle vittorie, si potevano realizzare. Oggi evidentemente si tratta di ricostruire quello che tanti anni fa faticosamente era stato costruito gradualmente partendo dalle leghe e poi arrivando al sindacato. Oggi purtroppo bisogna ripartire quasi da zero, ma il primo passo è quello di essere consapevoli della situazione e a questo, a mio avviso, il libro di Burgio dà un contributo concreto e prezioso.
L’inaudita estensione del lavoro produttivo di plus-valore -Realizzazione completa del concetto marxiano di forza-lavoro: il linguaggio messo al lavoro – Il salto di paradigma post-fordista:cooperazione oltre la legge del valore e socializzazione extra-lavorativa della classe operaia – Crollo dell’economia del valore senza rivoluzione e nel pieno del dominio capitalistico.
Virno: La specificità della critica del rapporto di produzione non è roba per progressisti, non è roba per gente di sinistra, ha una densità storica, antropologica, di critica dell’economia che in alcun modo può essere ridotta a quella pappetta che talvolta ci propongono coloro, di sinistra appunto, che sono pronti a fare l’autocritica anche a Spartaco. Ora io penso che non è la prima volta che in Italia, naturalmente non solo in Italia, si proclama la disparita della classe operaia. È già successo: la classe operaia è sparita molte volte per poi andare lontano. Quando, per esempio, nei primi anni sessanta-alla fine degli anni sessanta era tutto diverso- vi fu una modificazione delle tecnologie, dell’organizzazione del lavoro, della composizione sociale della classe operaia tali per cui i nuovi strati di forza lavoro non furono riconosciuti immediatamente come classe operaia, gli operai furono considerati degli alieni. Penso anche agli immigrati meridionali al Nord che non avevano la cultura del mestiere, non avevano professionalità, erano forza lavoro senza qualità messa sulle linee di montaggio e che le linee di montaggio si permettavano di detestare e che dunque avevano assai poca etica del lavoro. Essi per giunta molto spesso andavano a Torino o a Milano con la mediazione del parroco, molto spesso nei primi tempi della loro frequentazione della fabbrica aderivano al sindacato giallo. Come ognuno sa, se non altro dai libri di storia, furono proprio costoro, che all’inizio non parvero nemmeno operai propriamente detti, a cambiare in un periodo non breve la faccia di questo paese con i loro conflitti alla fine degli anni sessanta e poi con la lunga stagione di contropotere che furono gli anni settanta. Quindi vi è una difficoltà ad intendere per lavoro produttivo, lavoro produttivo nel senso stretto, produttivo di profitto, produttivo di plusvalore, le nuove figure del lavoro che non si presentano più come quelle che fino a ieri eravamo abituati a considerare per così dire classiche, e quindi si pensa ad una diminuzione numerica, ad una diminuzione qualitativa e quantitativa della classe operaia. Questo avviene peraltro proprio quando, viceversa c’è una diffusione del lavoro vivo, quando il lavoro vivo, subordinato, produttivo di plusvalore, produttivo di profitto si diffonde in attività, settori, scomparti da cui prima era invece escluso o in cui era marginale. Quindi come accade spesso, quando qualcosa riempe tutta la scena, non la si vede più, quando qualcosa è massimamente pervasiva sfugge alla vista. Ora questo è senz’altro avvenuto in quella congiuntura politica che sono stati gli anni ottanta, e poi soprattutto gli anni novanta in Italia che è una congiuntura politica, a mio parere, di controrivoluzione in senso stretto, di replica capitalistica su scala mondiale, con Reagan e Tacher, all’offensiva durata pressochè vent’anni da parte della classe operaia, soprattutto di quella fordista. Il movimento operaio europeo spesso ha scambiato il capitalismo per una prosecuzione lineare dell’Ancien régime, voglio dire del modo di produzione tradizionale basato sul latifondo, sull’aristocrazia, o in concreto ha visto nel capitalismo un rapporto sociale sostanzialmente immobilista, conservatore e redivivo. Pensate, ancora negli anni sessanta e settanta, alla discussione politica nella sinistra italiana sul capitalismo straccione. Come invece Burgio mostra e la nostra esperienza quotidiana ci impone, il capitalismo ha un aspetto mercuriale, di rivoluzione permanente, che manda all’aria ogni cosa che sembra solida, discreta, determinata, ha la vocazione alla rivoluzione ininterrotta. Per altri versi la classe operaia, dice Burgio riprendendo direttamente la definizione marxiana, non è una versione, un prolungamento ulteriore, lo diceva molto bene il professore Graziani prima, dei contadini visti come un corpo sociale conservatore che si perpetua, che ha dei solidi valori che si tramandano di generazione in generazione. La classe operaia è al centro di uno sradicamento permanente in cui mutano le forme della socialità, il tessuto della socialità, in cui mai niente è come prima, quindi è difficile parlare di una tradizione che non sia beninteso la tradizione delle lotte e dell’organizzazione. Non c’è nessuna tradizione del modo di vita, il modo di vita è esattamente il terreno della modificazione ininterrotta. L’abitudine a non avere abitudini, questa è semmai una definizione della moderna classe degli operai.
Detto questo mi permetto un’ osservazione che invece ha pieno diritto di discussione nel libro di Alberto Burgio. Si può, o no, parlare a proposito degli ultimi venti anni, parliamo del nostro Paese, delle nostre città, e più generalmente dei paesi capitalistici sviluppati, di un salto di qualità, di un salto di paradigma all’interno non della società civile, che non so bene che sia, ma all’interno del rapporto fra capitale e lavoro, quindi di un mutamento profondo e qualitativo di paradigma del modo in cui si organizza lo sfruttamento e del modo in cui si costituiscono le soggettività della forza lavoro?
Marx definisce così la forza lavoro: tutte le facoltà contenute nel corpo di un operaio; tutte le facoltà fisiche ed intellettuali contenute nel corpo di un operaio. È questo che un operaio, un’operaia, un lavoratore dipendente, vende sul mercato del lavoro: queste sue facoltà. Ora in realtà nella storia dell’Europa industriale si è pensato di più, rispetto alla forza lavoro, ad alcune facoltà. Certo sul lavoro è stato detto sostanzialmente: si tratta di un uomo macchina; voglio dire si è pensato più ad una certa abitudine o facoltà di tipo psichico e di carattere routinario effettivo. Questa definizione che peraltro in Marx c’è: tutte le facoltà intellettuali e fisiche, diventa vera, a mio parere, solo dopo la fine degli anni settanta. Diventa vero che la memoria, i gusti estetici, l’intelligenza, i giudizi di valore, il nostro sapere parlare e comunicare diventano sostanza immediata della forza lavoro diretta e sono messi direttamente al lavoro.
Conclusione opportunistica e completamente sbagliata: allora se nel lavoro si comunica, nel lavoro si è intelligenti, se nel lavoro si adoperano la memoria e il gusto estetico, si tratta di un lavoro liberato, et voilà! Non c’è più capitalismo e andiamo tutti d’amore e d’accordo. Tutto al contrario! Non c’è nulla di più avvilente e non c’è più nulla che ricordi di più la radice stessa dello sfruttamento allorchè esso riguarda la memoria, la capacità di mettere in valore il linguaggio.
Ora, naturalmente è il contrario: vi è una parte della socializzazione che avviene fuori dal posto di lavoro, a volte proprio cercando lavoro e quindi sviluppando capacità di rapporto e di relazione con un mondo fatto di opportunità, di chances, ma anche naturalmente di frustrazioni e tensioni nel rapporto con i mezzi di comunicazione e con la metropoli.
L’ultimo punto che affronto parte da una discussione che Alberto fa verso la fine del suo libro. Il testo che egli discute è il cosiddetto Frammento sulle macchine contenuto nei Grundrisse, dove Marx afferma delle cose che nel Capitale invece poi tralascia o comunque mette in sordina. Qui Marx sostiene una tesi ben poco “marxista” dicendo che tendenzialmente lo sviluppo capitalistico porta ad una condizione tale per cui non è più l’erogazione immediata del lavoro del singolo la fonte vera della ricchezza, ma semmai il sapere, la scienza così come è raggrumata nel sistema di macchine e l’insieme delle relazioni sociali complessive. Questo apporto produttivo ulteriore, che Marx chiama cooperazione, è appropriato direttamente dal capitalista ed è il sottofondo su cui poi vengono applicate le macchine. Allora il punto è questo: negli anni sessanta questo testo venne utilizzato per una battaglia interessante per dire che il comando capitalistico si intrecciava al sistema di macchine e bisognava considerare la tecnica certo come un guadagno umano sulla natura, ma anche stare attenti agli usi politici che se ne facevano.
Negli anni settanta fu adoperato, con qualche forzatura di troppo, per segnalare l’attualità del comunismo, perché Marx a partire da questa tesi dice anche che su questo sfondo la legge del valore non vale oppure dice che, se vale, vale come un residuo. Il nucleo portante dell’idea del movimento negli anni settanta era l’attualità del comunismo, cioè la possibilità pratica di abolire il lavoro salariato ossia constatare il carattere non più necessario del lavoro sotto padrone, considerarlo come un costo sociale eccessivo. Negli anni ottanta e novanta, dice Alberto Burgio, per alcuni aspetti questo testo è diventato una chiave importante per spiegare delle modificazioni avvenute soprattutto laddove sono state messe al lavoro delle zone dell’esperienza umana che prima al lavoro sembravano relativamente estranee: gli affetti, la comunicazione, l’emotività, diciamo gli aspetti di riproduzione sociale complessiva; per altri aspetti invece Alberto sembra mantenere qualche distanza in ragione del carattere solo tendenziale di tale processo.
A mio parere invece esso, nelle sue linee fondamentali, si è ampiamente realizzato, solo che, mentre nel “Frammento” queste tendenze dovevano portare al crollo della produzione basata sul valore scambio, questo processo si è realizzato senza rivoluzione, cioè si è realizzato nel pieno del dominio capitalistico, si è incarnato nella realtà di lavori ad alta socialità, comunicativi, operai, interrativi e però frammentati, ricattati senza momenti unitari. Mai come oggi il sindacato è stato frammentato e ricattato, eppure proprio in queste forme è possibile a mio parere cogliere l’attuale proletariato, ed insieme l’attuale dominio capitalistico.
Infatti dal punto di vista della società, del saper fare, di quello che donne e uomini potrebbero e saprebbero fare, quella forma di riproduzione della vita che è il lavoro sotto padrone, il lavoro salariato, è visibilmente non più necessaria.
Nappo: La natura capitalisticamente produttiva del lavoro non dipende dalle sue caratteristiche tecnico-lavorative – Produttivo è il lavoro che si scambia con il capitale e non con il reddito – La socializzazione produttiva capitalistica non può mai sopprimere la singola forza-lavoro come fonte del plus-valore – Le figure non tradizionali del lavoro salariato produttivo individuate da Marx e la loro espansione – La differenza tra lavoro produttivo e non produttivo sta alla base della composizione tecnica e politica della classe e del suo blocco sociale.
Mi pare che proprio il richiamo comune all’impianto marxiano dovrebbe indurci ad un esercizio di distinzione rispetto alle categorie che stiamo esaminando, e mi pare di capire che Paolo assuma come sinonimi forza lavoro e lavoro produttivo, contravvenendo con questo alla caratterizzazione essenziale del lavoro produttivo che per Marx non dipendeva dalle caratteristiche materiali dell’erogazione di lavoro e tanto meno dall’utilità specifica del lavoro. Produttivo è il lavoro che si scambia con il capitale e che lo valorizza. Se il lavoro si scambia con il reddito non è lavoro capitalisticamente produttivo; entrambi sono un’attività in cui si eroga una generica capacità di lavorare, questa capacità di lavorare ha una dimensione storica per cui evolve, e da questo punto di vista la descrizione che ne fa Paolo è convincente nel senso che il concetto di linguaggio messo al lavoro, che dobbiamo a lui nella discussione e ricerca di questi anni, è molto utile perché aiuta a descrivere le caratteristiche che ha assunto l’erogazione e lo sfruttamento della forza lavoro dal punto di vista delle forze produttive, dei caratteri delle forze produttive.
Questa non è una distinzione da poco dal momento che nello stesso periodo, negli stessi lavori preparatori del Capitale, a cui faceva cenno Paolo prima parlando dei Grundrisse, Marx prende le distanze da una delle due concezioni che Adam Smith aveva proposto parlando di lavoro produttivo, esattamente quella che la legava al fatto che il lavoro producesse un oggetto. Marx insiste molto sul fatto che la natura produttiva, nell’economia capitalistica reale, del lavoro non dipende dalle caratteristiche e dai risultati del lavoro produttivo in termini di valore d’uso, in altre parole riproponeva quello che è un cardine dell’analisi marxista, la distinzione tra il processo tecnico di lavoro e il processo di valorizzazione del capitale. Mentre Paolo parlava l’occhio mi cadeva su questa citazione che avevo trascritto in forma abbreviata da “Teorie del plusvalore”: “Il lavoro in quanto è produttivo di valore rimane sempre lavoro del singolo espresso però in forma generale. Il lavoro produttivo in quanto lavoro che produce valore è sempre lavoro della singola capacità lavorativa dell’operaio isolato, qualunque sia la combinazione sociale con la quale si svolge il processo di produzione. Mentre il capitale rappresenta sempre di fronte all’operaio la forza produttiva sociale del lavoro, il lavoro produttivo dell’operaio rappresenta sempre di fronte al capitale solo il lavoro dell’operaio isolato”.
Virno interrompe: Qui la forza produttiva viene appropriata direttamente nello scambio, non si vede che la forza cooperativa diviene direttamente forza del capitale.
Quello che Marx sottolinea per esempio nel capitolo VI inedito, ma nello stesso Primo Libro nel capitolo sulla cooperazione e anche nella Teoria del Plusvalore, è che c’è qualcosa che nello scambio capitale -forza lavoro non si vede, ma che è decisivo e crescente, e sottolinea che questa interazione, capacità di combinazione tra le forze-lavoro, non entra nel rapporto economico né nel computo della relazione fra lavoro erogato e valore prodotto. È, direi, una virtù del capitale; però ammetto che in questo, come in tantissime altre cose, esistono due o più Marx, anche il Marx a cui si riferiva Franco adesso, e naturalmente la sua interpretazione è più che legittima, solida e va portata alla discussione.
Nappo riprende: La mia naturalmente non era una citazione fatta con l’animo di chi vuole ristabilire l’ortodossia del testo, voglio solo indicare che in Marx c’è sempre, continuamente riproposta, anche nel Marx dei Grundrisse, la distinzione fondamentale tra il processo tecnico lavorativo e il processo di valorizzazione che è alla base della critica dell’economia politica e sulla base della quale distinzione Marx e i marxisti hanno sempre indagato, negli sviluppi storici determinati del modo di produzione capitalistica, la figura materiale del lavoro produttivo. Voglio dire che la figura del lavoro produttivo, nel senso specifico del lavoro che valorizza il capitale, e quindi nel senso dell’attività produttiva fondamentale per questo solo fatto, non si può desumere dalle trasformazioni del processo tecnico- lavorativo perché altrimenti verremmo meno a questa distinzione fondamentale, cosa naturalmente legittima sul piano scientifico, ma che andrebbe motivata al di fuori di quello che secondo me è l’impianto che Marx mantiene qui, se il riferimento a Marx vuole essere coerente con questa distinzione. D’altronde la cosa, secondo me, ha un significato politico attuale e stringente perché l’idea che il lavoro produttivo di valore sia oggi il lavoro subordinato risente secondo me dello stesso equivoco di cui parlavo prima o della stessa sovrapposizione di categorie che vanno invece tenute distinte, perché non sono la frantumazione né la subordinazione del lavoro in quanto tali ciò che fa del lavoro, lavoro produttivo dal punto di vista marxista, ma esclusivamente il fatto che la forza lavoro come lavoro sociale astratto, al di fuori appunto della sua figura concreta, tecnico -lavorativa, si scambia con il capitale; in ogni rapporto di lavoro in cui non c’è questo non c’è produttività in senso capitalistico. Questo non significa, Marx lo affronta ampiamente e lo descrive minutamente, che non esista lavoro salariato non produttivo, che non esista lo sfruttamento del lavoro salariato non produttivo, per esempio la categoria del pluslavoro può valere anche per il lavoro salariato non produttivo, ma non è evidentemente sinonimo di plusvalore. Dunque quando noi oggi analizziamo il mercato del lavoro e l’organizzazione del lavoro, credo che ci troviamo di fronte certamente ad una molteplicità di figure e collocazioni produttive, ad una pluralità di contratti, all’impossibilità di ricondurre le condizioni di vita e di lavoro della forza lavoro nei termini omogenei di una rappresentazione uniforme. Credo però che sia importante non confondere le categorie fondamentali perché altrimenti è difficile venire a capo di alcune questioni politiche attuali. Quando Alberto Burgio affronta il problema, in questo libro, del reddito, della necessità, cioè, di assicurare la partecipazione alla ricchezza sociale prodotta al di fuori dello scambio lavorativo tradizionale prende in considerazione la figura del lavoro immateriale confrontandosi, peraltro in modo molto interessante, con le analisi di tutta un’area di ricerca da Lazzarato allo stesso Paolo Virno, con quel settore di analisi di ascendenza marxista di cui Virno ci ha presentato stasera un piccolo saggio, legando l’erogazione del reddito che si chiama politico al lavoro immateriale e considerandolo senz’altro come lavoro produttivo di plusvalore, egli ripropone secondo me lo stesso problema di cui ho trattato più volte, cioè che le caratteristiche materiali concrete del lavoro vengono assunte a discriminante tra lavoro produttivo e improduttivo, di modo che anch’egli mi pare riproponga un’ idea indistinta del lavoro produttivo che in qualche modo gioca a favore di quelle impostazioni che sono opposte alla sua, quelle per le quali la figura della classe operaia tende a diluirsi nell’attività sociale in quanto tale, fino ai limiti estremi, in taluni casi, di identificarsi con l’esistenza in quanto tale, con la vita in tutte le sue espressioni, con una abbastanza chiara distruzione di ogni determinatezza analitica del discorso politico, della critica politica del capitalismo. D’altronde io non volevo soltanto richiamare, prima, l’esistenza di un lavoro salariato non produttivo e con ciò richiamare la necessità di leggere oggi la figura della classe operaia anche al di là del lavoro produttivo come oggi si configura. La mia distinzione era propedeutica ad un altro svolgimento analitico che ritengo importante: capire oggi quali sono le figure di lavoro produttivo che Marx già considerava concettualmente nei suoi scritti, ma che da un punto di vista empirico considerava poco importanti per la loro scarsa incidenza e che oggi hanno invece un’estensione notevolissima. Per esempio Marx afferma nello scritto che ho citato “Una cantante che vende il suo canto di propria iniziativa è una lavoratrice improduttiva, ma la stessa cantante ingaggiata da un imprenditore che la fa cantare per far denaro è una lavoratrice produttiva perché essa produce capitale”. Quindi non si tratta qui di fissare feticisticamente la figura del lavoro produttivo, di evocare le tute blù, per intenderci; ma di indagare piuttosto, se condividiamo naturalmente le categorie di Marx, qual è la figura del lavoro produttivo in rapporto agli sviluppi storici del capitalismo. Da questo punto di vista il risultato di questa analisi darebbe un profilo, un contorno della classe operaia molto diverso da quello tradizionale e potenzialmente aperto in molte direzioni. Quindi “il linguaggio messo al lavoro” va bene, mi convince come linea d’analisi, ma mi interessa capire a quali condizioni questa sottomissione al lavoro salariato definisce lavoro produttivo, e non è una curiosità accademica da soddisfare. Si tratta di capire qual è la composizione materiale della classe operaia da un punto di vista tecnico e politico, si tratta di capire qual è la figura complessiva di una classe lavoratrice al di là della distinzione tra lavoro produttivo e lavoro non produttivo. Ed è questa la condizione anche per interloquire sul piano sociale e politico con classi lavoratrici che storicamente sussistono, il cui lavoro non è produttivo né improduttivo da un punto di vista capitalistico, perché non ha un carattere capitalistico, penso, per esempio, all’artigianato che certo non è sparito, al fine politico di individuare le basi del blocco sociale anticapitalistico di cui parliamo, perché uno degli esiti o dei rischi di questa non distinzione, lo dico ad Alberto Burgio, può essere quello di non riuscire più a tracciare la differenza tra la classe e il blocco sociale, identificando indifferentemente l’una con l’altro. Per esempio io credo che nell’elaborazione del Prc, di cui Burgio è un autorevole dirigente, e che è il partito, tra quelli presenti nella vita istituzionale, certamente più vicino all’impianto di Marx, questo tipo di problema non sia stato risolto dal punto di vista analitico. Mi riferisco naturalmente ai testi congressuali, quelli in cui il problema aveva la possibilità di un approfondimento, fermo restando che il partito in quanto tale non ha il compito di elaborare teoria ex cathedra; parlo infatti dell’attenzione che deve esserci tra la ricerca teorica interna e soprattutto esterna al partito e il programma e l’elaborazione teorica del partito.
Migliore: Le attività del Terzo Settore possono avere la stessa funzione delle prime relazioni mutualistiche del Movimento Operaio? – Al di là delle mistificazioni, le esperienze del Terzo Settore, nella loro parzialità, rappresentano elementi di resistenza sociale e chiedono un’interlocuzione politica che non si può far cadere, nonostante le loro contraddizioni – Contro il reddito garantito, per forme di reddito politico che promuovano politicamente soggetti di massa e rispondano a bisogni sociali reali – Le soggettività politiche parziali, anche quella del Partito, esigono una rinnovata critica della neutralità della scienza.
Io partirei dalla polemica, che è stata anche occasione di una risposta ad un articolo di Burgio sulla Rivista del manifesto da parte di alcuni compagni, legati all’esperienza di Carta e dei Cantieri sociali ed impegnati direttamente nell’attività del Terzo Settore, sulla linea che in questa fase noi possiamo avere in esso, su che cosa rappresenta anche per noi, per l’elaborazione di una linea, di un programma politico completo, ma anche della relazione con segmenti di società che dicono di voler stare con noi e quindi in questo senso oggettivamente pongono la loro presenza come una potenzialità di alleanza contro l’ordine costituito dal pensiero unico, dalle tendenze liberiste. La ferocia con la quale il Terzo Settore viene criticato e attaccato da Alberto Burgio in parte sinceramente la condivido, in quanto comprendo innanzitutto tutte le critiche che riguardano la mistificazione di un lavoro parasubordinato come elemento che poi va a collidere con l’idea del welfare e con l’idea universalistica dei diritti acquisiti attraverso questa forma collettivamente astratta che è quella dell’organizzazione dello Stato. Pertanto non aumenterò il volume di fuoco contro queste organizzazioni, ma cercherò di interloquire col testo di Burgio a partire da alcune domande che mi sono venute leggendolo e che quotidianamente si pongono proprio per la parzialità della nostra funzione rivoluzionaria all’interno di questa società e quindi anche per la parzialità della nostra lettura di quali possano essere effettivamente i processi rivoluzionari che possano trasformare in modo efficace la realtà, non solo segnare la tendenza. Ho pensato a quale potesse essere un’idea non omologante di un’attività umana come quella che si esplica attraverso il cosiddetto Terzo Settore; cioè se è possibile in una fase come questa che proviene da una sconfitta storica e da una riaffermazione capitalistica, considerare le potenzialità intrinsecamente non ancora chiare ma soggettivisticamente espresse da alcuni settori del Terzo Settore, dell’impresa sociale, come una funzione magari non definita, magari impropria, ma di accumulo di risorse e di energia per contrastare quello che è il dato dominante dell’organizzazione capitalistica e della sua attuale declinazione neoliberista. Mi sono chiesto se, cioè, esista una funzione interna al Terzo Settore che possa avere la stessa cogenza delle prime relazioni mutualistiche del Movimento Operaio che, anche in forma conflittuale ed esterna alla organizzazione statuale, poi si affermano come conflitti che devono essere riassorbiti con una pratica condivisa. Mi chiedo se siamo di fronte alla possibilità di individuare in questa nostra parzialità, parzialità espressa anche da questo ambito specifico dell’organizzazione sociale e produttiva, un terreno di coltura di una cultura potenzialmente antagonista. In questo senso io vedo alcuni dei fermenti che sono parsi interessanti in questi ultimi anni, non negli ultimissimi naturalmente, a partire dalle considerazioni di Wallerstein sulla categoria dell’interstizio permanente tra conflitti e organizzazioni extra-mercantili come una trincea nella quale praticare i luoghi di socialità, tesi poi sviluppate anche, in modo parzialmente condivisibile, da altri. È vero che in questa tesi si riscontra spesso, anche all’interno del nostro partito, una indeterminazione nell’idea dell’accumulo dei conflitti, nell’idea che i conflitti possano determinare la massa critica rispetto alla quale misurarsi e stare in campo, mantenersi pronti ad una controffensiva rispetto alla quale avere anche una capacità di direzione politica che non matura astrattamente, ma che diviene nel momento in cui si tratta. Ma è questo uno dei motivi per il quale io sono convinto che alcune delle contraddizioni che pure si manifestano in questo ciclo capitalistico, come anche quelle di Seattle, vanno indagate a partire non dalla definizione delle categorie marxiane, ma dalla possibilità di leggere questi dati della realtà come dati che devono interrogare la nostra capacità di avere una funzione positiva nei confronti di modificazioni sostanziali dell’attuale realtà politica. Ciò non significa trascurare anche effetti secondo me potenzialmente molto pericolosi di americanizzazione delle stesse forme di lotta e degli stessi movimenti che a Seattle si sono espressi, non solo sul versante della critica al corporativismo, critica fatta più volte ai movimenti sindacali da venti anni a questa parte, ma anche sul terreno della partecipazione alla quale questi movimenti ci chiamano nel momento in cui si bypassa la politica come rappresentanza, si cancella lo spazio pubblico come uno spazio generale e si trasformano quelli che sono dei pezzi singoli in elementi di pressione diretta, cosa che spesso accade anche in concreti fenomeni conflittuali che agiscono anche sui nostri territori, e penso in particolare al movimento dei disoccupati.
In questo senso penso che sia utile interrogarsi di più da parte nostra sulle potenzialità, andando però fino in fondo nella critica strutturale di quella che è un’ organizzazione del Terzo Settore che di per sé non può rappresentare l’elemento antisistemico, e in questo io condivido profondamente l’analisi di Burgio. Così come rispetto alla questione del reddito credo che il nostro compito, quello di produrre una concreta proposta politica, debba essere tarato anche rispetto a quella che è un’esigenza di rappresentanza sociale che in quel momento un partito politico come Rifondazione comunista deve avere nei confronti di bisogni inespressi che nel caso della mole gigantesca della disoccupazione meridionale non trovano altre risposte se non quella non mediata della prosecuzione, attraverso una perequazione salariale, o di reddito, più propriamente, di quei soggetti che invece sono espulsi dai processi produttivi, che non riescono ad entrarci, e che da questa espulsione derivano anche un’esclusione sociale che si concretizza direttamente sulla loro funzione politica e quindi anche sulla cosiddetta atomizzazione della funzione dei soggetti sociali. Pertanto, personalmente non sono mai stato a favore del reddito garantito anche perché mi hanno convinto sempre i rischi che hanno richiamato Mazzetti e altri sui temi dell’inflazione come decrescita del potere contrattuale dei soggetti. Penso che il cosiddetto reddito politico, legato anche a prestazioni lavorative che introducono, anche qui in una forma parziale, alcuni soggetti nel ciclo produttivo promuovendo la loro soggettività politica, deve essere praticato. In questo senso mi convince la proposta assai discussa nel nostro partito sul salario sociale, sul pacchetto dei servizi in modo che in alcune forme residuali possa contribuire alla promozione di conflitti sul terreno della lotta a questo Governo. Penso alla questione dei lavori socialmente utili, mi rendo perfettamente conto che c’è una bella differenza tra reddito e salario, ma nel caso per esempio dei lavoratori socialmente utili, così come in quello dei lavoratori di pubblica utilità, l’aver subìto quello che è poi un concetto legato anche a culture progressive dell’ambientalismo, quello della possibilità di considerare i lavori ad uso sociale come effettivamente interni ad una richiesta di soddisfazione di bisogni materiali, ha sostenuto all’interno dei movimenti organizzati del precariato l’unico settore che può avere oggi una sua dignità politica. Pertanto anche alcune proposte che sono parziali hanno segnato un avanzamento del punto di conflitto rispetto all’organizzazione del lavoro e rispetto soprattutto alle politiche del Governo. Un’ ultima questione è legata alla funzione epistemologica di una nostra riflessione che è il tema, ritengo sottovalutato dalla discussione politica anche attuale del nostro partito e che secondo me ha una forza che non a caso negli anni dell’espansione della forza del movimento operaio negli anni sessanta e settanta aveva una titolarità maggiore all’interno dei dibattiti politici, cioè quale sia oggi lo spazio di una critica ispirata alla non neutralità della scienza, di una capacità di leggere quali sono i processi effettivi che invece dominano la valorizzazione del capitale e la questione di quale debba essere l’uso delle tecnologie che non può accontentarsi ovviamente di una analisi luddista come quella che viene proposta anche in alcune riflessioni dei centri sociali. È necessario un approfondimento, una lettura intelligente di quali possono essere i punti deboli di questo capitale a partire per esempio da quelle che, banalizzando, vengono definite crisi congiunturali del capitale e che secondo me sono strettamente legate all’incapacità spesso strutturale del capitale di rispondere alle sue contraddizioni a causa della sua organizzazione centralizzata, della sua tendenza all’ espansione illimitata della propria forza. Tali contraddizioni potrebbero essere affrontate attraverso la critica della non neutralità della scienza con maggiore efficacia dal Partito comunista, o che voglia dirsi tale, e che secondo me in questa fase non riesce né a farlo né a produrre avanzamenti concreti.
Burgio:
Il salto di paradigma di cui parla Virno riflette mutamenti produttivi effettivi ma in alcun modo significa transizione da un modo di produzione all’altro – Nei Grundrisse Marx non parla della fine della legge del valore ma intravvede la possibilità che la stessa relazione sociale si trasformi in lavoro produttivo – La dinamica lavorativa attuale coinvolge tendenzialmente, nella sua pervasività, la società e il tempo di vita? – Carattere regressivo della ” critica alla neutralità della scienza”, formulazione ideologica della critica dell’ideologia – Il reddito sociale come una delle molteplici risposte alle urgenze sociali – Solo un giudizio politico chiaro sul Terzo Settore può consentire una discriminazione politica tra gli opposti interessi di classe che lo attraversano.
A Virno, a proposito del salto di paradigma, risponderei che bisogna intenderci perché secondo me sicuramente ci sono dei mutamenti nei sistemi produttivi, tuttavia ciò che l’idea di salto di paradigma rischia di suggerire è che il mutamento del sistema di produzione comporti una transizione da una formazione sociale all’altra e questo, secondo me, è sbagliato e bisogna evitare anche solo il rischio che sia invece ciò che si pensa.
Per quello che riguarda il Frammento sulle macchine il discorso secondo me è questo. Io non credo che nei Grundrisse Marx stia parlando della fine della legge del valore, sta dicendo una cosa diversa. Secondo me molto semplicemente l’idea è: posto che il capitalismo, per Marx, senza lavoro e senza produzione di valore non si ha, quello che Marx intravvede è una modificazione dei sistemi di valorizzazione tale da trasformare la stessa relazione sociale in lavoro produttivo, e qua vengo anche alla domanda e all’obiezione di Nappo. Il discorso è questo: è certamente una pista di lavoro sulla quale, secondo me, bisogna interrogarsi, ma io nel libro non sposo la tesi del lavoro immateriale. Dico però questo: c’è o non c’è attraverso lo sviluppo tecnologico attraverso la modificazione dei sistemi di produzione e attraverso la moltiplicazione delle stesse figure lavorative, una pervasività della dinamica lavorativa come produttiva, cioè come fonte di valore che coinvolge tendenzialmente la società o comunque il tempo di vita? Questa è una domanda, peraltro una domanda che Marx pone a se stesso già nel primo libro del Capitale quando, analizzando la storia delle lotte di classe intorno alla giornata lavorativa, parla della tendenza del capitale a confondere tempo di lavoro e tempo di vita. Ci sono pagine in cui Marx, ovviamente senza che ciò comporti l’obliterazione della distinzione essenziale tra salariato e schiavo, in chiave metaforica spiega che il salariato si ritrova o almeno rischia di trovarsi, per una delle tendenze del capitalismo ad essere ricacciato nella stessa condizione dello schiavo, cioè di un soggetto la cui vita nel suo intero è trasformata in lavoro. Questo è ciò su cui dobbiamo interrogarci, fermo restando che io condivido con Nappo l’idea che contro ogni indistinzione noi dobbiamo tenere ferma l’idea che lavoro in senso capitalistico c’è laddove si tratta di attività produttive di valore.
Per quello che riguarda Migliore, egli pone moltissime domande e non credo di essere in grado di rispondere a tutte, per esempio questo slogan della non neutralità della scienza io credo che faccia dei danni e dei guasti assolutamente irreparabili, perché io penso che una declinazione assolutistica dell’ idea marxiana di critica dell’ideologia tale per cui ogni asserzione sarebbe ideologica, incappa in quello che i filosofi chiamano il paradosso del mentitore. Marx non ritiene assolutamente che la sua posizione sia ideologica, ritiene che la sua posizione sia scientifica; certo ritiene che sia una scienza suscettibile di diventare uno strumento di lotta politica del proletariato, ma ritiene che ciò sia tanto più probabile, tanto più efficace in quanto essa è vera. In Marx io credo che l’idea della verità e della scienza come approssimazione alla verità oggettiva è tutt’altro che parziale, altro discorso sono gli usi che se ne fanno naturalmente, credo che essa sia assolutamente non parziale e invece assolutamente neutrale. Questo tema della non neutralità della scienza mi somiglia molto a quella polemica vagamente ecologistica che si muove nei confronti di quanti dicono che la tecnica è un sapere sociale ed è un valore che va assolutamente difeso e sottratto semmai all’uso capitalistico.
Ma vado al dunque: reddito e Terzo Settore. Sul reddito sociale sono assolutamente d’accordo con Migliore, tant’è che una delle ragioni per cui ho scritto questo libro è quella di dire: bisogna smetterla di pensare che si sia a favore di misure di welfare o invece a favore del reddito di cittadinanza o a favore di altro. Io credo che proprio perché sul terreno politico le urgenze e le istanze non sono alternative l’una all’altra, ma invece si sommano, e quindi pongono istanze ad un’agenda che deve saperle registrare tutte, io sono del parere che le urgenze sociali alle quali si faceva riferimento meritano assolutamente una risposta. Credo di averlo scritto, quindi ritengo che il problema della molteplicità delle risposte che il Partito deve saper dare di fronte ad una situazione sociale così acuta vada assunto e affrontato con la massima duttilità ed elasticità.
Sul problema del Terzo Settore, io credo che la questione che Migliore pone sia assolutamente seria e tuttavia la risposta che mi sento di dargli è la seguente: tu poni questo problema: se soggetti dicono di voler stare con te perché tu non devi sapere assumere questa loro volontà e investire politicamente sulla loro volontà, sulla loro disponibilità, sulla loro intenzione. Bene, mi viene in mente quel piccolo passaggio di Marx che nell’Introduzione del ’59 alla critica dell’economia politica dice: che cosa sia una società, che cosa sia una persona non lo devi chiedere a lei; sei tu che devi sapere cosa è una persona, cos’è una società. Allora il problema nostro è questo: intanto cerchiamo di metterci d’accordo su che cosa è il Terzo Settore, sulla sua realtà oggettiva, perché su questo io temo che non ci siamo; dopodichè, se noi poniamo la mia tesi, e cioè che il Terzo Settore oggi è uno strumento di privatizzazione dei servizi e di sfruttamento di lavoro senza garanzie, quando incontro il Terzo Settore io immediatamente, avendo fatto questa analisi, quindi avendo fatto una scelta di campo, mi comporto a seconda che a venire da me sia un dirigente del Terzo Settore, perché io lo considero, scusami la brutalità, uno sfruttatore, o mi viene il lavoratore del Terzo Settore, perché io lo considero uno sfruttato il cui conflitto mi propongo di organizzare. Quello che il nostro Partito invece non fa è precisamente un’analisi in relazione alla quale si distinguano le figure in conflitto tra di loro, quindi una scelta di campo, quindi nel rapporto col Terzo Settore una netta distinzione preliminare all’organizzazione del conflitto.
Questa è la mia tesi. Dopodichè, conflitto o conflitti? Dipende. Se ci muoviamo sul terreno delle forme fenomeniche, dobbiamo dire assolutamente conflitti. Il nostro compito è però quello di capire che queste forme nella loro pluralità hanno un valore politico se sono essenzialmente conflitto contro il capitale.