Mentre scriviamo, il mondo vive una speranza sino a ieri inattesa. Pochi giorni fa, il 17 settembre, l’Iraq si è dichiarato disponibile all’ingresso degli ispettori dell’Onu e in questo modo ha sparigliato le carte di Bush, scompigliando le file dei suoi alleati favorevoli all’aggressione e allontanando l’inizio in grande stile della nuova guerra americana. È una buona notizia, che dà forza a quanti, nel mondo e nel nostro paese, si oppongono ai piani di guerra e di sopraffazione della più grande potenza imperialistica del pianeta. E che dimostra che c’è ancora spazio per un’offensiva di pace, che non è vero che gli Usa possono tutto quel che vogliono, che essi non sono, come pare a molti, anche a sinistra, il nuovo, onnipotente Signore della terra.
Ma questa notizia positiva non ci deve fare perdere di vista il fatto che la situazione resta drammatica e densa di pericoli. La guerra che forse oggi si allontana resta purtroppo all’orizzonte. Dobbiamo saperlo e dobbiamo quindi concentrare sin d’ora ogni sforzo affinché in Italia, in Europa, nel mondo, coloro che vogliono la pace si mobilitino, facciano sentire alta la propria voce, incalzino i governi, le forze politiche, gli organismi internazionali. C’è qui un enorme lavoro da fare, e non dobbiamo lasciarci scoraggiare. In Italia siamo appena all’inizio di una grande stagione di lotte contro il governo Berlusconi. Dopo la manifestazione nazionale del nostro partito, indetta per il 28 settembre, ci attende lo sciopero nazionale proclamato per il 18 ottobre dalla Cgil e dal sindacalismo di base. È necessario che il no alla guerra sia una delle principali parole d’ordine in tutte queste mobilitazioni, proprio come avverrà il 9 novembre – lo segnaliamo con viva soddisfazione – in occasione del Forum Sociale Europeo di Firenze. Ed è necessario che – qualora alla guerra si arrivasse – venga proclamata un’altra giornata nazionale di lotta. Il paese dovrà fermarsi, rendere visibile a tutti che la stragrande maggioranza degli italiani non vuole macchiarsi di altro sangue innocente per assicurare ai potenti della terra ulteriori privilegi. Ma c’è ancora qualcosa che possiamo e quindi dobbiamo cercare di fare in queste settimane. Dobbiamo provare a dar vita, insieme a tutti i soggetti (movimenti, associazioni, partiti, gruppi e individui) che considerano il rifiuto della guerra e la difesa della pace una assoluta priorità, a un grande Forum per la pace, che deve diventare un permanente punto di riferimento per tutte le forze pacifiste del paese, accrescendone la capacità di mobilitazione e l’efficacia politica. Proprio perché la guerra è diventata una componente costante della costituzione materiale del sistema di dominio imperialistico, occorre attrezzarci dotando il movimento pacifista di strutture stabili, non effimere, in grado di contrastare in modo durevole le iniziative dei signori della guerra e dei loro fedeli servitori.
La guerra, dicevamo, resta purtroppo all’orizzonte. Questo non perché essa sia di per sé un destino ineluttabile, ma perché a suo favore parteggiano forze formidabili. La guerra – non solo questa eventuale nuova aggressione all’Iraq, ma la catena di conflitti che da oltre dieci anni segnano la carta geografica tra i Balcani e l’Asia centrale – è tornata al centro della scena perché per mezzo di essa gli Usa tentano di puntellare un’egemonia mondiale in crisi, di garantirsi il controllo di risorse energetiche fondamentali (petrolio e gas), di esorcizzare lo spettro di scandali finanziari che minano alla radice la credibilità del capitalismo, di porre riparo a un disastro economico di dimensioni inimmaginabili. In una parola, la guerra è ritornata protagonista della scena mondiale contemporanea perché il capitalismo non riesce a riprodursi senza generare contraddizioni sociali e politiche che culminano, in ultima istanza, in conflitti militari.
Ha ragione Samir Amin nell’osservare che il capitalismo è per natura imperialistico, che l’imperialismo è la fase permanente del capitalismo. E che non ha alcun senso scambiare l’indiscutibile metamorfosi dell’imperialismo (un fatto ovvio, che va indagato nelle sue caratteristiche materiali e non agitato come un’arma ideologica) per la sua presunta estinzione. Si tratta di una voce di ragionevolezza, ascoltare la quale induce qualche rimpianto per il tempo perduto in discussioni troppo spesso pretestuose e sterili. Né Amin è il solo a sostenere una tesi confortata da ogni evidenza. Al cospetto della crescente conflittualità internazionale si sono via via moltiplicate le analisi tese a ribadire l’attualità della categoria di imperialismo.
Elmar Altvater, per esempio, ha scritto di un nuovo “imperialismo liberale”, impiegando la stessa categoria usata – con ben altro giudizio di valore – dal consigliere personale di Blair, Robert Cooper. A sua volta, James Petras ha dedicato pagine istruttive allo studio delle caratteristiche del nuovo “imperialismo mercantilista”. Mostrando con dovizia di argomenti e di dati come nessuna tesi sia più infondata di quella che sostiene l’ormai avvenuta perdita di sovranità degli Stati nazionali. Nulla depone a sostegno dell’avvento di un presunto Impero che avrebbe unificato il mondo sotto un governo “unipolare”, ponendo fine all’epoca dei conflitti interimperialistici. Del resto, lo stesso Toni Negri, al quale si deve l’invenzione di questa tesi assurda, è stato costretto dai fatti a intraprendere una plateale marcia indietro, gettando sulle cinquecento pagine del suo Impero un’ombra di involontaria ironia.
L’Impero, ha dichiarato non senza malinconia, sarebbe una buona soluzione ai conflitti che permangono in tutte le regioni del mondo. A suo favore agirebbero quelle forze naturalmente progressive e pacifiche che sono – a suo dire – i mercati. Peccato che qualcuno si è messo di traverso, impedendo il dispiegarsi degli effetti progressivi dell’ordine imperiale. E chi è mai questo dispettoso guastafeste se non George W. Bush, proprio il capo della Casa Bianca nel quale gli entusiasti lettori di Negri avevano sino a ieri ritenuto di scorgere il nuovo Imperatore?
Lasciamo andare. Non mette conto cercare di decifrare la logica di simili escogitazioni, ammesso che una logica le sorregga. Limitiamoci ad osservare il decadimento della discussione politica odierna, che rischia di avvitarsi per mesi intorno a invenzioni intellettuali astratte, contraddette dalle più manifeste evidenze e smentite persino dai documenti ufficiali e dalle prese di posizione più autorevoli dei maggiori protagonisti della scena politica internazionale.
Si diceva del petrolio e del gas; si accennava all’esigenza di distrarre l’opinione pubblica dalla catena di scandali che ha travolto alcuni colossi della New Economy e alla necessità per gli Usa di tappare in qualche modo, per mezzo della guerra, l’enorme falla di un deficit annuo superiore al Pnl degli stessi Stati Uniti. Non basta. C’è ancora un’altra ragione alla base delle guerre scatenate, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, in Medio Oriente, nella ex-Jugoslavia e in Afghanistan. Questa ragione non richiede, per essere riconosciuta, una grande fatica nel ragionamento. Basta leggere le dichiarazioni pubbliche degli strateghi del Pentagono o le analisi degli intellettuali più in voga, gli Huntington, i Fukuyama e da ultimo, nell’ambito della sinistra critica, lo stesso Walden Bello, intervistato in questi giorni dal manifesto.
Il problema – questo dato emerge univoco da tutte le fonti – è ancora quello classico, novecentesco, della competizione geopolitica e del conflitto strategico tra gli Stati Uniti e le altre aree di potenza mondiale. La Russia, l’India, l’Iran, l’Unione Europea. E, soprattutto, la Cina, i cui tassi di crescita annuale da oltre un decennio legittimano proiezioni che tolgono il sonno ai consiglieri militari dei Presidenti americani. Il fatto che nell’ottobre del ‘98 il Pentagono abbia preso sotto di sé il controllo diretto dello scacchiere eurasiatico e che gli Usa considerino sempre più urgente arginare la crescita del potenziale economico e militare cinese, è scritto a chiare lettere su documenti e riviste specializzate di pubblico dominio. Basterebbe leggere per capire. Sempre che si sia disposti a guardare in faccia la realtà, deponendo la pretesa che essa obbedisca ai nostri desideri o ai nostri schemi ideologici.
A proposito di schemi ideologici che ci hanno tormentato in tempi recenti, c’è motivo di credere che finalmente di uno di essi stiamo per liberarci. Per anni siamo stati afflitti da grandi teorie sulla imminente o incipiente “fine del lavoro”. E sulla conseguente perdita di centralità della contraddizione lavoro-capitale. Un giorno sì e l’altro pure ci veniva spiegato, con una prosopopea degna di miglior causa, che le tute blu appartengono ormai al passato, che il lavoro operaio classico (la “grande fabbrica fordista”) è scomparso senza lasciare eredi, portando con sé negli archivi della memoria anche il lavoro subordinato, fonte di valore. Ebbene a cosa assistiamo oggi in tutto il mondo, se non all’aumento impetuoso del lavoro salariato e dipendente? E che cosa ci ha insegnato la fase politica che stiamo vivendo proprio nel nostro paese da un anno a questa parte, se non la prepotente riconquista del centro della scena sociale e politica da parte del conflitto di classe e dei suoi più classici protagonisti, la classe operaia – a cominciare dai “vecchi” metalmeccanici – e il sindacato?
Certo è rimasta ancora qualche voce impenitente, che – c’è da giurarlo – continuerà a ripetere le proprie inossidabili certezze come un disco rotto, a dispetto di ogni smentita. In questi anni il compagno Marco Revelli ha via via teorizzato la fine del lavoro, celebrato i fasti del no profit (nuova forma di comunità “fuori mercato”, scriveva: peccato che lo sviluppo del Terzo settore sia servito in realtà alla privatizzazione del welfare), sentenziato la morte storica delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio. Qualcuno si sarebbe forse aspettato che almeno oggi, al cospetto del nuovo protagonismo operaio e sindacale, egli si fermasse un momento a riflettere e magari accennasse a un ripensamento.
Niente di tutto ciò. Al contrario, con un tono più stentoreo che mai, Revelli ci spiega adesso che la Cgil è irrimediabilmente superata – antistorica – perché è ancora insediata su una cultura “sviluppista, industrialista, lavorista, progressista”.. E che, con buona pace dei milioni di compagni scesi in piazza in occasione delle manifestazioni e degli scioperi, il sindacato sarebbe perciò inadeguato a guidare il conflitto. Come Negri, Revelli segue imperturbabile i propri percorsi, e non appare granché impensierito per le sonore smentite che le sue posizioni ricevono. Se la realtà non obbedisce, tanto peggio per essa. Costa così poco, dopo tutto, discorrere. È così gratificante dare a se stessi l’illusione di capire e persino di potere dar lezioni.
Ma torniamo a noi. Sono trascorsi sei mesi dal V Congresso del nostro partito. Come i compagni sanno, vi abbiamo preso parte con passione, dando il nostro contributo senza risparmiarci, affinché la discussione interna si sviluppasse con ricchezza e consentisse al partito di crescere più forte e più unito, come era nei patti. Oggi possiamo dire che quel nostro lavoro è servito. Ha contribuito a introdurre nella riflessione comune dei compagni elementi che altrimenti ne sarebbero rimasti esclusi. E ha impedito, per ciò stesso, che il partito si trovasse spiazzato al cospetto degli avvenimenti che si sono succeduti negli ultimi tempi.
I temi che abbiamo posto al centro dei nostri emendamenti si sono rivelati centrali, e le posizioni che abbiamo affermato hanno ricevuto indiscutibili conferme dagli avvenimenti successivi.
Abbiamo manifestato perplessità nei confronti della tesi secondo cui la “globalizzazione” avrebbe cementato, tra tutte le maggiori potenze politiche ed economiche, una Santa Alleanza guidata dagli Stati Uniti del pianeta, una grande coalizione che l’attentato dell’11 settembre avrebbe ulteriormente rinsaldato. Contro questa lettura, abbiamo sottolineato il permanere di contraddizioni strutturali, riconducibili a fattori geopolitici ed economici. Ebbene, le difficoltà incontrate oggi dai falchi della Casa Bianca nel tentativo di ottenere un ampio consenso all’ennesima guerra ci danno ragione, e smentiscono platealmente l’interpretazione sostenuta nelle tesi integrali della maggioranza, che danno per acquisite le convergenze della Cina e della Russia sulle linee strategiche degli Stati Uniti, e non sono quindi in grado di fornire una lettura persuasiva degli attuali sviluppi della situazione internazionale.
Lo stesso vale, se possibile in modo ancor più marcato, per la questione della centralità del conflitto di classe e della contraddizione capitale-lavoro. Quando abbiamo concepito la tesi integrativa su questi argomenti, non c’era stato ancora lo sciopero generale del 16 aprile, ma avevamo già vissuto la stagione di lotte cominciata tra la primavera e l’estate del 2001 con gli scioperi dei meccanici e culminata nella grande manifestazione del 23 marzo. Appariva dunque già chiaro il peso che questo ritorno della classe operaia e del mondo del lavoro al centro della scena politica e sociale del paese subito gettava sul quadro dei conflitti e sugli equilibri di forza nel paese. Per questo ci è parso indispensabile integrare le tesi della maggioranza ribadendo questo punto fondamentale. Gli avvenimenti seguiti al congresso – a cominciare dallo sciopero generale di aprile e dalla decisione di proclamare un nuovo sciopero generale per questo ottobre – non hanno fatto che aggiungere elementi a sostegno di questa nostra impostazione. Oggi tutto il partito è concorde nel riconoscere la centralità del sindacato – a cominciare dalla Fiom e dalla Cgil – e delle sue lotte. E, correggendo un errore di valutazione esplicitamente riconosciuto dal Segretario nazionale, ha deciso di essere – al di là e indipendentemente dalle scelte politiche individuali di Cofferati, che ci interessano ma che come tali non ci coinvolgono in alcun modo – a fianco della Cgil (il che non ci impedisce, d’altra parte, di mantenere severe critiche nei confronti delle scelte concertative compiute dal sindacato nel periodo di governo del centrosinistra, né di cogliere e criticare oggi i limiti della sua piattaforma).
Anche sulla nostra storia riteniamo di avere avuto ragione rivendicando con orgoglio la nostra identità e il valore della nostra esperienza. Non ci siamo mai sottratti alla fatica di riflessioni e bilanci anche severamente autocritici, perché non abbiamo una concezione mitica o fideistica della vicenda del movimento operaio e comunista. Ma diciamo con grande nettezza che la necessità dei bilanci non può valere per una parte soltanto. Aspettiamo ancora una parola di autocritica da parte delle grandi potenze coloniali per la loro storia di genocidi e di sfruttamento della schiavitù. E per quanto riguarda il nostro paese, siamo ancora in attesa di sapere cosa pensi oggi il vicepresidente del Consiglio, l’on. Gianfranco Fini, di Mussolini (che appena un paio d’anni fa egli definì “il più grande statista” del Novecento) e del suo maestro politico, Giorgio Almirante, già redattore della “Difesa della razza” e fucilatore di partigiani al tempo della Resistenza. Questo, sino a prova contraria, è il passato di Fini, mentre nel nostro passato di comunisti italiani c’è Gramsci, c’è la lotta partigiana che ha liberato il paese dalla tirannide nazifascista, ci sono le lotte democratiche degli anni 50 e 60, che hanno dato il più grande contributo alla realizzazione dei principi della carta costituzionale.
Per quanto riguarda il partito, ribadiamo la necessità del suo rafforzamento, della sua crescita, del suo radicamento. I compagni sanno come questa posizione non implichi in alcun modo un giudizio riduttivo nei confronti dei movimenti. Siamo sempre stati convinti che i movimenti – a cominciare dal cosiddetto popolo di Seattle, che ha avuto l’enorme merito di generalizzare tra i giovani la coscienza della distruttività dello sviluppo capitalistico – svolgono una funzione insostituibile nel rilancio del conflitto di classe. Ma pensiamo anche che esistono ruoli e compiti diversi, confondere i quali nuocerebbe tanto ai movimenti quanto al partito. Se caratteristiche dei primi sono l’informalità, la creatività, la capacità di dare espressione e visibilità “in tempo reale” ai soggetti che si costituiscono sulla scena del conflitto, il partito ha, da parte sua, la prerogativa – e l’onere – di conferire continuità e stabile forza d’urto alle istanze poste dai movimenti, elaborandole e ricercando le condizioni politiche per la loro realizzazione.
Questi temi sono stati materia di discussione nell’anno che sta alle nostre spalle. Si è trattato, a nostro giudizio, di un dibattito utile per tutti, ma oggi sarebbe sbagliato persistere in questa discussione. Altri sono ora i compiti all’ordine del giorno, proprio perché il rilancio della lotta di classe nel paese ha dischiuso un grande spazio di manovra per il nostro partito. Una premessa fondamentale deve costituire il punto di partenza della nostra pratica politica. Dobbiamo essere consapevoli che la presenza di un partito comunista in questo paese è un elemento decisivo nel quadro politico e sociale disegnato dal risveglio della mobilitazione di massa. Il nuovo protagonismo dei movimenti, del sindacato e del lavoro, del popolo della sinistra sceso in piazza il 14 settembre contro la vergogna delle leggi di Berlusconi e Pecorella sulla giustizia, rischierebbe forse di piegarsi su posizioni moderate se non trovasse in noi un interlocutore attento e saldo, rispettoso delle diverse ragioni in campo ma, al tempo stesso, impegnato in uno sforzo di unificazione del più vasto schieramento di lotta.
Ma proprio per questa ragione diciamo senza reticenze che è giunto il momento di porre davvero fine a un dibattito congressuale che sottotraccia permane aperto, seminando fratture, generando artificiose contrapposizioni, impedendo la ricomposizione effettiva della maggioranza che ha preso forma nel congresso. Questa maggioranza (della quale i compagni e le compagne che hanno sostenuto gli emendamenti costituiscono ben il 33%) deve essere democraticamente riconosciuta in tutte le sue componenti e deve essere posta, come era negli accordi, in condizione di dirigere il partito senza disperdere le proprie potenzialità in un conflitto interno cui viene meno, ogni giorno di più, qualsiasi ragion d’essere.