Contro il superamento di Rifondazione Comunista

In poche settimane la situazione politica ha subito un’enorme accelerazione e non è azzardato sostenere che una nuova fase si è aperta, per molti versi allarmante. Una breve cronistoria ci dice dell’eccezionalità della situazione.

Le elezioni amministrative hanno segnato la sconfitta del centro-sinistra in un ambito, quello amministrativo, nel quale era sempre stato favorito. Ad essere penalizzato non è stato solo il nascente Partito Democratico, ma anche la componente di sinistra della maggioranza di governo e – segnatamente – Rifondazione Comunista. Il Partito Democratico, uscito malconcio dalle elezioni, nel giro di pochi giorni – con la candidatura a leader di Veltroni – ha riacquistato centralità: i sondaggi elettorali lo ricollocano ora ai suoi massimi storici e, con il rilancio del sistema elettorale alla francese, punta ad esercitare la propria egemonia sull’intera coalizione. Uscendo allo scoperto, il gruppo dirigente di Rifondazione Comunista – e in particolare il suo segretario – ha operato una forzatura nella direzione dell’unificazione con PdCI, Verdi e Sinistra democratica, proponendo liste uniche alle amministrative. I sindacati confederali hanno rotto provvisoriamente col governo sulle pensioni, ma senza lanciare la mobilitazione. Nel contempo è stato approvato un Documento di Programmazione Economia e Finanziaria (Dpef) che, in nome del momentaneo accantonamento dello “scalone” e dell’assunzione di alcune misure sociali, rilancia le privatizzazioni, le grandi opere e il federalismo fiscale.

Come interpretare questi fatti? Rappresentano essi pure contingenze o costituiscono, all’opposto, segnali di una precisa evoluzione (o involuzione) del quadro politico, istituzionale e sociale del paese? Propendiamo per questa seconda ipotesi e cercheremo di dimostrarlo.

LA NATURA MODERATA DEL GOVERNO

E’ inutile rimarcare l’errore macroscopico, compiuto a sinistra, nel valutare le possibilità offerte dall’alleanza di centro-sinistra, nel momento in cui venne sottoscritto l’accordo di governo. Si trattava, in larga misura, di futili speranze. Quello che allora non si colse era la natura della coalizione: un intreccio fra moderatismo politico e rappresentanza sociale interclassista che rendeva, in larga misura, impossibile una vera svolta delle politiche del governo nel segno dell’equità e della giustizia sociale, dopo le esperienze nefaste del governo Berlusconi. Le vicende recenti ne sono l’ennesima prova. Alcuni cardini dell’azione di governo ne escono riconfermati anche nel recentissimo Dpef: l’assoluta priorità assegnata alla riduzione del debito, una vocazione liberista che si sostanzia – fra l’altro – nell’enfasi posta sulle privatizzazioni, un’idea di sviluppo fortemente centrata sulle infrastrutture (con buona pace di molte considerazioni in tema di ambiente), un intervento residuale in campo sociale (attuato attraverso provvedimenti limitati) che non contrasta in ogni caso il proposito di fondo di contenere – se non abbattere – la spesa sociale (a partire dal sistema pensionistico). In particolare, è molto indicativo constatare che tali indirizzi non sono sostanzialmente mutati neppure in presenza di saldi contabili più favorevoli, o di tendenze alla ripresa del sistema economico. La vocazione moderata di questo governo – è la constatazione a questo punto obbligatoria – costituisce una ipoteca non facilmente rimuovibile. Di fronte a questo dato, è il ruolo stesso della sinistra nel paese ad essere messo in discussione. Sia della sinistra sociale, sia di quella politica. I risultati elettorali indicano la difficoltà, per la sinistra di alternativa, a reggere in presenza di un orientamento moderato del governo. Alla fine il suo elettorato, deluso, si rifugia nell’astensione. A livello sociale, il quadro non è meno preoccupante. Lungi dal riunificarsi assumendo un profilo autonomo dal governo, i movimenti tendono a dividersi in ragione della collocazione nei confronti dello stesso governo e con ciò tendono a diventare irrilevanti. Né la forza del sindacato confederale costituisce una stampella particolarmente forte per la sinistra di alternativa. Le titubanze mostrate nella trattativa sulle pensioni, lo slittamento dalla contrarietà allo scalone alla disponibilità ad un suo ammorbidimento e – ancora di più – la rinuncia a priori a far valere la propria capacità di mobilitazione la dicono lunga sull’effetto perverso della sindrome del “governo amico”. Tutti questi fatti conducono ad una considerazione: o la linea di politica economica e sociale del governo subirà una modifica nel corso dei prossimi mesi, o si aprirà una crisi verticale nella sinistra radicale e fra questa e il suo elettorato. La questione della partecipazione o meno al governo della sinistra di alternativa è all’ordine del giorno.

IL POTENZIALE EGEMONICO DEL PARTITO DEMOCRATICO

Se la politica del governo sta provocando gravi guasti, dal punto di vista del consenso elettorale, anche alle componenti moderate della coalizione, ciò non significa che l’opzione moderata sia destinata alla sconfitta. Essa, infatti, non costituisce solo il riflesso di orientamenti politico-culturali presenti nell’Unione, ma incarna un vero e proprio progetto che si sostanzia nella nascita del Partito Democratico, e cioè l’avvio di un disegno bipolare, ispirato al modello americano. Si tratta di un disegno ambizioso. La litigiosità di Ds e Margherita negli scorsi mesi ne ha messo in luce, per una fase, gli elementi contraddittori; la sconfitta alle elezioni amministrative ha fatto intravedere la possibilità del suo fallimento. Ma è bastata la proposta di Veltroni e tutto si è rimesso in moto, segno non solo dell’appeal del nuovo leader, ma anche dell’intima forza del progetto. Tale forza sta, in primo luogo, nella razionalità di una proposta che assume la governabilità come paradigma dell’azione politica e che a tale prospettiva punta ad assoggettare le stesse forme della rappresentanza. Una proposta coerente con l’idea che in un contesto di egemonia liberista e nell’assenza di una prospettiva di trasformazione sociale, centrale diventa il ruolo di governo, depurato da qualsiasi velleità riformatrice. Il Partito Democratico costituisce, però, anche una proposta efficace sul piano della manovra politica. Collocandosi in una posizione di centro, ed essendo comunque indispensabile per costruire lo schieramento progressista, può interloquire sia con le componenti moderate in uscita dalla Casa delle Libertà, sia con quelle della sinistra radicale. La politica dei due forni, insomma, dà a questo progetto anche l’essenziale possibilità di successo. Senza contare, infine, come dimostra la stessa vicenda del sindacato in queste settimane, che l’operazione ha alcune chances a livello sociale, derivanti dalla possibilità di ottenere il consenso di parte delle organizzazioni di massa. La prospettiva della nascita, in associazione con l’affermazione del Partito Democratico, di un sindacato unico è, infatti, molto concreta, anche se questo non significa che vi sarà una precipitazione organizzativa immediata, né che un simile sbocco non comporti rotture e contraddizioni. Per queste ragioni la sinistra di alternativa non può cullarsi sugli allori: essa rischia o di essere emarginata o di essere sussunta.

LA SINISTRA DI ALTERNATIVA NELLA GABBIA DEL “GOVERNISMO”

Può sembrare paradossale (ma in verità non lo è) che di fronte al lancio della candidatura di Veltroni a leader del Partito Democratico si siano dovuti sentire, fra i commenti positivi, non solo quelli di esponenti moderati, o quelli – inquietanti – di Montezemolo, ma anche quelli – più sorprendenti – di Bertinotti e di diversi esponenti della sinistra radicale (seppure espressi con maggior cautela degli altri). La ragione di tali apprezzamenti è, alla fin fine, abbastanza semplice – ed è anche filtrata in alcune dichiarazioni. In ultima analisi, essendo il Partito Democratico il perno obbligato per la realizzazione di un’alleanza di centro-sinistra, è preferibile che a guidarlo sia una personalità che ne possa consentire il successo elettorale, a condizione che si dimostri disponibile a mantenere invariato il quadro delle alleanze attuali. Questo schema di ragionamento rende evidente la crescente propensione governista che sta pervadendo le forze della sinistra radicale e che le conduce, passo dopo passo, a porsi a difesa del sistema dell’alternanza. Né deve tradire la rivendicata competizione con il Partito Democratico. Tale competizione, infatti, è tutta interna a questo schema, presupponendo che la componente moderata e quella radicale si concepiscano comunque come complementari. Che questo sia l’approccio, peraltro, è confermato anche dalle teorizzazioni a suo tempo formulate da Bertinotti. Dietro l’affermazione che “l’alternanza è il mezzo per conseguire l’alternativa” cosa c’è se non la scelta strategica della partecipazione della sinistra di alternativa ad alleanze di governo con il polo moderato? Non solo. Vi sono forze nella sinistra radicale che già oggi teorizzano la centralità del ruolo del governo. La Sinistra Democratica non ne fa mistero, le sue stesse dichiarazioni di apprezzamento di Veltroni muovono, appunto, dalla volontà di garantire nel tempo l’alleanza di governo con il Partito Democratico. Ma non è l’unica forza ad avere quest’obiettivo. Quanto a Rifondazione Comunista, il soggetto che con più convinzione ha sempre rivendicato un atteggiamento critico nei confronti dell’opzione di governo, è evidente la contraddizione fra tali dichiarazioni e la pratica concreta, molto segnata dal timore di essere ricollocata al di fuori di un ruolo di governo. Non si tratta solo del timore di un nuovo ’98, ma anche del portato della scelta compiuta al congresso di Venezia che, derubricata la stagione del movimentismo, assumeva la prova di governo come terreno essenziale per ricostruire una legittimazione a livello sociale. La sinistra di alternativa, dunque, ponendosi all’interno del quadro bipolare e assumendo la prospettiva dell’alternanza, di fatto finisce col collocarsi in una posizione subal- terna, favorendo oggettivamente il disegno egemonico del Partito Democratico.

L’EVANESCENZA DELLA PROPOSTA DEL “SOGGETTO UNICO” DELLA SINISTRA

Per far fronte a questa debolezza strategica, derivante dall’assunzione del modello dell’alternanza, la sinistra di alternativa avanza un’unica proposta: la costituzione di un nuovo soggetto politico, attraverso l’unificazione di Rifondazione, Verdi, PdCI e Sinistra Democratica. Il presupposto è quello indicato più volte da Bertinotti: fare “massa critica” per reggere la concorrenza del Partito Democratico. La proposta è accattivante ma non convincente e muove dall’ennesimo paradosso: viene motivata come soluzione di emergenza – l’ex – trema ratio per evitare la colonizzazione del Partito Democratico – per prospettarne poi una autonoma capacità propulsiva. Non è la prima volta, in verità, che si ricorre a tali paradossi logici. Un esempio noto è quello dell’argomento utilizzato dall’allora gruppo dirigente del Pci per proporre la liquidazione del partito: la rimozione dell’identità comunista era obbligata dopo la caduta del muro di Berlino, ma al tempo stesso costituiva una grande opportunità per sbloccare il sistema politico. Come sia andata a finire lo sappiamo. In realtà l’operazione appare viziata da alcuni limiti evidenti. In primo luogo, muove dalla necessità di salvaguardare alcuni ceti politici in difficoltà, utilizzando lo spazio lasciato aperto dalla ridislocazione dei Ds nel Pd. Ciò fa sì che – ed è il secondo grave limite – non solo la sua identità sia sfuggente, ma che tale indeterminatezza venga addirittura teorizzata. Un soggetto politico senza aggettivi – è stato detto – non temendo di finire nel ridicolo. Non solo. La stessa questione della base politico-programmatica viene rimossa dalla discussione, semplicemente mettendo da parte differenze anche assai rilevanti. Vale per i riferimenti internazionali, per l’atteggiamento nei confronti del governo, ma anche per questioni più specifiche: dalla opportunità di manifestare contro Bush, al giudizio sull’allungamento dell’età pensionabile. In una recente intervista su Liberazione, Rossana Rossanda, che pure è uno sponsor (oggi in verità molto più tiepido) dell’operazione, sollecitava il nuovo soggetto ad assumere la prospettiva anticapitalista. Ma davvero l’anticapitalismo è nelle corde della “cosa rossa”? Francamente, oltre ad un’ispirazione genericamente antiliberista e moderatamente pacifista (ci ricordiamo le posizioni assunte sulle missioni militari?) è difficile andare. Se vi è un elemento da salvare dell’- operazione in corso è il tentativo di costruire un minimo di iniziativa comune intorno ad alcuni obiettivi. L’esempio del raccordo fra i gruppi parlamentari su alcune proposte in tema di politica sociale è in sé positivo. Ma cosa c’entra questo con la costruzione di un nuovo soggetto politico? Queste convergenze alludono alla necessità di dar vita ad uno schieramento per influire sul quadro politico, ma a maggior ragione l’efficacia di una simile iniziativa dipende dalla estensione dell’alleanza, oltre che dalla bontà dei suoi contenuti. Richiederebbe che non venisse limitata entro i confini angusti della costruzione di una nuova forza politica. Sarebbe necessario un intreccio fra soggetti politici e sociali, con un atteggiamento di grande autonomia rispetto al governo, e non un’operazione che sottende alla costruzione di un partito o di qualcosa di simile.

PER IL RILANCIO DI RIFONDAZIONE COMUNISTA, CONTRO IL SUO SUPERAMENTO

La proposta del soggetto unico della sinistra si presenta, quindi, come poco credibile e, nel contempo, comporta la liquidazione di un’esperienza – quella di Rifondazione Comunista – che ha avuto il merito di mantenere aperta una prospettiva anticapitalistica. Anziché favorire il consolidarsi di un’opzione alternativa a quella prospettata dal Pd, alla fine condurrebbe ad un’ulteriore arretramento della sinistra italiana, in un processo di continua rincorsa all’omologazione che ne segnerebbe la fine. Per queste ragioni siamo contrari al superamento di Rifondazione Comunista in un altro soggetto politico e non ci convincono le sollecitazioni “nuoviste” a trascendere le identità e ad andare oltre alle attuali forze politiche. Peraltro è noto come la questione dell’identità non sia mai stata separata dai contenuti. Valse per il Pci nella sua trasformazione in Pds, ma vale a maggior ragione ora, nel momento in cui il superamento di Rifondazione significherebbe la definitiva eliminazione nel paese di un riferimento comunista, con tutte le inevitabili ripercussioni in tema di prospettiva di cambiamento. Il superamento di Rifondazione Comunista, per molti mesi mantenuto in sospeso, è ormai diventato una possibilità molto concreta. Il passaggio decisivo si è avuto con la proposta avanzata di recente dal suo segretario di dare vita a liste uniche di sinistra in occasione delle prossime elezioni amministrative. E’ sconcertante a tale riguardo l’ambiguità che ha caratterizzato il dibattito nel partito da molto tempo. Sulla presunta inconciliabilità delle posizioni presenti nella maggioranza si è discettato a lungo, al punto che su questa base si è divisa la minoranza di Rifondazione, con una parte che è accorsa in aiuto della componente “partitista” della stessa maggioranza. Col senno di poi, la querelle evidenziava nulla più che una contrapposizione motivata dall’esigenza di tutelare i singoli gruppi dirigenti più che il partito in quanto tale. Nel merito, la proposta delle liste uniche costituisce un azzardo. Innumerevoli esperienze compiute in molte tornate elettorali hanno dimostrato che questa scelta è elettoralmente perdente, perché gli elettorati delle singole forze entrano in competizione e si disperdono. Nonostante il fatto sia acclarato, il gruppo dirigente di Rifondazione Comunista, assecondando richieste provenute da alcuni, ha fatto il passo decisivo, mettendo a repentaglio il suo stesso partito, per rendere irreversibile la scelta del nuovo soggetto. E’ la parabola di un processo di lungo periodo, avviato da Bertinotti e teso a sostituire Rifondazione con una forza non connotata ideologicamente, radicale e – ultimamente – spendibile a livello politico. Il gruppo dirigente che sostenne questa operazione ora ne completa la realizzazione.

CHE FARE?

Dovrebbe essere chiaro, dalla ricostruzione dei fatti, che quello che si profila è un processo di destrutturazione della sinistra all’insegna del governismo e del moderatismo. L’esito potrebbe essere esiziale. Quello che altresì traspare è che una sinistra anticapitalistica oggi si costruisce (o ricostruisce) sulla base di due scelte fondamentali: il recupero di un’autonomia critica rispetto al governo e il rifiuto della tentazione politicista. Abbiamo dinanzi a noi alcuni appuntamenti decisivi: Dpef, pensioni, finanziaria. Si tratta di un test decisivo per il governo. La costruzione di un’unità con altre forze politiche e sociali per vincere la sfida è essenziale. Ed è altrettanto essenziale sostenere una mobilitazione sociale, ivi compreso il ricorso ad iniziative di lotta eclatanti, come lo sciopero generale. E’ evidente che sulle pensioni non è tollerabile l’allungamento dell’età pensionabile e la modificazione dei coefficienti. Così come non è pensabile che nella finanziaria non vengano affrontate questioni fino ad ora rimosse, come la precarietà e il reddito. Se su questi temi dovesse confermarsi la linea liberista del Ministro dell’economia, va posta in discussione l’appartenenza di Rifondazione Comunista al governo. Per questo un confronto di massa va aperto nel paese. Esistono ancora le condizioni per garantire un appoggio a questo governo? Parallelamente va detto qualcosa di chiaro sulla prospettiva del partito. Siamo per un’ampia unità a sinistra sulle cose. Un programma è necessario, e occorre darsi gli strumenti per sostenerlo, ma l’autonomia di Rifondazione Comunista – a partire dalla presentazione elettorale – non deve essere messa in discussione. Per questo alle prossime elezioni amministrative non è pensabile dar vita a liste uniche della sinistra. Rifondazione deve garantire la sua presentazione autonoma, anche se – come si è verificato nel corso delle recenti elezioni – questo non esclude la convergenza con le altre forze della sinistra di alternativa su candidati a sindaco e presidente della provincia – anche in alternativa a quanto proposto dal Partito Democratico – o la promozione di liste apparentate quando ve ne siano le condizioni. E va riproposta la questione di uno sviluppo coerente della prospettiva della Rifondazione Comunista. Esistono a sinistra oggi due opzioni in campo: quella socialista e quella comunista. Pensare di superarle mettendo in campo un soggetto privo di identità che dovrebbe abbracciare un po’ tutti non ha senso. Il punto è dare futuro al progetto di Rifondazione Comunista concependolo come percorso di radicamento e di raccolta di nuove forze e, nel contempo, stabilire alleanze e convergenze più ampie. Su questi obiettivi è oggi necessario che si costruisca nel partito la convergenza delle forze che non intendono assecondare un processo di omologazione, di deriva moderata e di snaturamento dell’identità del partito. Il congresso di Venezia è già superato, si è detto, ed è vero. Allora si discuteva dell’entrata al governo. Oggi è in gioco la sopravvivenza del partito.