Contributo all’analisi del capitalismo contemporaneo

Il neoliberismo: strategia globale del capitalismo

Il neoliberismo di Reagan e della Thatcher domina oggi il pensiero economico borghese. Tale pensiero è noto : esso denuncia “l’eccessivo potere dei sindacati” per ritornare a forme di dominio della classe capitalista di tempi passati ; attacca le funzioni pubbliche “divoratrici di posti di lavoro” per meglio mettere in discussione le nazionalizzazioni operate dopo la seconda guerra mondiale ed aprire processi di privatizzazione (che rappresentano in realtà l’accaparramento dei beni nazionali da parte dei monopoli) ; punta a legare il processo lavorativo alla “competizione mondiale” per meglio precarizzare il lavoro e flessibilizzare l’orario di lavoro.
Le conseguenze sociali di questa politica sono drammatiche :
– drastica diminuzione del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni;
– accentuata dipendenza dei paesi semicoloniali e neocoloniali;
– aumento della miseria e della disoccupazione su scala mondiale;
– repressione contro le forze del lavoro e i sindacati;
– guerre delle grandi potenze imperialiste per dividersi il mondo secondo le esigenze del profitto.
In questa giungla capitalista, i sindacalisti della rassegnazione sono impegnati a farci credere che “non c’è più grano da macinare” per i lavoratori e che quindi è necessario piegare la schiena in attesa di giorni migliori. Tuttavia tutte le contraddizioni del sistema monopolistico si acuiscono, la collera e le lotte crescono, tanto che alcuni alti dirigenti del grande capitale propongono di creare “una struttura correttiva degli eccessi”, unico mezzo – secondo loro – per garantire il sistema di sfruttamento a lungo termine.

L’approccio teorico del neoliberismo

Alcune domande circolano nel movimento operaio : il neoliberismo è una tappa del capitalismo che prepara il passaggio ad una economia mondializzata o il capitalismo è già mondializzato ? Il capitalismo “trionfante” della fine del XX secolo toglie senso ad ogni speranza di trasformazione rivoluzionaria della società ? La lotta da condurre è solo quella contro “gli eccessi” del neo o dell’ultraliberismo, accettando le leggi del mercato senza le derive della finanziarizzazione ed “orientando i capitali sugli investimenti produttivi” ?
Le risposte a queste domande dipendono dal livello dell’antagonismo: o ci si impegna in un sindacalismo di lotta e di classe contro un padronato che è all’attacco, o si sceglie un sindacalismo che si limita a gestire “al meglio” il sistema capitalista.
Per capire il capitalismo contemporaneo occorre risalire alla sua crisi strutturale, che è cominciata verso la fine degli anni ‘60 e che, al di là di provvisori “maquillages” continua ad imperversare ancora oggi. La sua origine va trovata nel fatto che il livello della domanda non segue la produzione ed è quindi la sovrapproduzione che crea crescenti difficoltà al capitale monopolista nella sua azione di appropriazione del massimo profitto.
Una certa tendenza economico tende a pensare che i profitti aumentino quasi automaticamente, ma questo significa dimenticare il ruolo della politica degli stati capitalisti, che mirano a creare le condizioni per ottenere il massimo del profitto per i grandi monopoli. La tendenza permanente alla riduzione del saggio di profitto, che è una legge di ferro del capitalismo, obbliga in certe fasi il capitale ad una ristrutturazione generale delle società.
Nel secolo appena concluso abbiamo conosciuto due grandi strategie economiche : il keynesismo, ovvero la regolazione monopolista di stato, e il neoliberismo. Né l’uno né l’altro possono essere considerate “tappe” del sistema capitalista, bensì risposte congiunturali volte a scongiurare la crisi capitalista.
Si tratta di due politiche economiche diverse dell’imperialismo, due politiche imperialiste. Contrariamente a quello che pensano alcuni teorici del movimento operaio, il neoliberismo non è “l’ideologia” propria della classe borghese monopolista, esattamente come il keynesismo non è stato l’espressione dei settori meno reazionari del capitalismo.
La prova è data dal fatto che le grandi multinazionali – la General Motors, la Ford, la Toyota, la Renault ecc. – hanno fatto proprie entrambe le suddette politiche economiche ed hanno semplicemente cambiato le carte in tavola quando le ricette di Keynes non pagavano più.
Il neoliberismo è dunque – a nostro parere – la risposta del capitale finanziario agli sviluppi strutturali e congiunturali del capitalismo.
Il grande capitale ha una sola “ideologia”, quella che gli assicura il massimo profitto e la continuità del sistema. La crisi del 1929, così brutale e improvvisa, e dalle pesantissime conseguenze sociali – milioni di disoccupati, impoverimento assoluto dei lavoratori nella maggior parte dei paesi, rovina dei piccoli risparmiatori, chiusura delle imprese – ha indotto il capitale monopolista, ed i governi al suo servizio, a ridisegnare le società ai fini del profitto.
Le teorie di Keynes, specialmente quelle relative alla necessità dell’intervento economico dello stato borghese, sono state applicate in molti paesi. Ricordiamo che per Keynes lo stato doveva prendersi carico degli oneri sociali (a cominciare dalle imposte dirette ed indirette sui redditi per le quali i lavoratori assicurarono il gettito principale, cosa che implica la presenza di un forte settore pubblico nell’economia, con tariffe privilegiate per i monopoli privati).
Queste misure rappresentarono una rottura con i precedenti metodi di regolazione dell’economia che erano basati sul “lasciar fare”, metodi tipici dello sviluppo del capitalismo di stato durante la prima guerra mondiale, specie per quanto riguarda il complesso militare-industriale.
Nel giro di qualche anno il keynesismo consentì al capitalismo di superare in buona parte la propria crisi, anche se i costi per l’umanità furono altissimi, dato che lo scatenamento della seconda guerra mondiale è strettamente legato alle misure assunte dal capitalismo per il rilancio dell’economia.
Dopo il 1945, di fronte ad un mondo devastato, il costo degli investimenti per la ricostruzione era tale che la borghesia dovette ricorrere più che mai all’intervento o alla regolazione monopolistica dello stato, avendo cura però di scaricare i costi sui lavoratori, attraverso lo sfruttamento e la tassazione (diretta ed indiretta).
Inoltre, le condizioni obiettive erano sfavorevoli al capitale. La vittoria sul fascismo hitleriano e giapponese andava nel senso di rafforzare le aspirazioni democratiche e sociali, quelle di liberazione nazionale dei popoli coloniali , mentre la lotta di classe giungeva in tutta una serie di paesi sino alla rottura con il capitalismo ed approdava alla formazione di un vasto campo socialista che raggruppava un terzo dell’umanità.
Tutti questi fattori, presi nel loro complesso, obbligarono il capitale a manovrare in ritirata. Concessioni vi furono : nazionalizzazioni, sicurezza sociale, previdenza, diritti sindacali riconosciuti, conquiste democratiche. Il capitale non aveva altra scelta per salvare il sistema dal contagio rivoluzionario: fare delle “concessioni” e, al tempo stesso, contrattaccare su tutta la linea non appena le circostanze avessero permesso la controffensiva dei monopoli e degli stati rappresentanti i monopoli: guerra di Corea, guerre coloniali condotte dalla Francia, colpi di stato in tutto il mondo contro le forze del progresso, spedizione coloniale di Suez, ecc.
Il “compromesso” keynesiano è durato alcuni decenni., limitando relativamente gli effetti della sovrapproduzione con il relativo miglioramento del livello di vita nei paesi del capitalismo sviluppato. Il “compromesso ” era basato sulla “socialpartnership”, vale a dire sugli accordi fra il padronato ed i sindacati riformisti, sull’aumento della produttività del lavoro a fronte di un modesto aumento dei salari, e su vantaggi sociali accordati per limitare le richieste dei movimenti di lotta. I fautori del capitalismo pensarono allora di aver trovato il modo per risolvere le contraddizioni interne al sistema.
La crisi degli anni ‘70, che dura tuttora, sta a dimostrare il carattere poco scientifico e poco razionale di quelle speranze. “Lo stato previdenziale” vola in pezzi perché la nuova crisi di sovrapproduzione dimostra l’impossibilità della regolazione monopolistica dello stato capitalista; come dimostra l’incapacità delle teorie keynesiane volte a limitare e a bloccare la crisi ( assicurando il massimo profitto) in fasi di recessione economica.
L’epoca delle “concessioni” è finita, la controrivoluzione ha distrutto l’Urss e i suoi alleati. Il capitale si è posto l’obiettivo di riprendersi quello che aveva dovuto cedere in una situazione di diversi rapporti di forza nel mondo.
Il neoliberismo si impone come la nuova politica economica delle classi dominanti.
La particolarità della situazione attuale, legata all’ampiezza planetaria della crisi, sta nel fatto che il neoliberismo è diventato il programma mondiale dell’imperialismo, tanto è vero che si parla di globalizzazione.
In realtà, spinto dalla necessità imperativa di nuovi sbocchi per la conquista di mercati, il capitalismo allarga la sua sfera d’influenza su tutto il globo e tutte le attività umane sono sottoposte alle leggi del mercato. Le ricchezze prodotte sono accaparrate dall’oligarchia finanziaria con conseguente rafforzamento della polarizzazione da una parte e crescenti ineguaglianze dall’altra : tre multimiliardari possiedono più del prodotto interno lordo di 48 paesi, fra i più poveri, messi insieme ! 80 paesi hanno visto il loro livello di vita diminuire sino a tornare a quello del 1980. In Africa i consumi sono diminuiti del 20 % in vent’ anni ! Questi sono i risultati della politica neoliberista.

Le grandi linee del liberismo

Si è visto come, di fronte a crisi strutturali gravi, il capitale abbia sempre cercato la via d’uscita con la ristrutturazione del sistema, con il rimodellamento delle società per garantire sia il massimo profitto che la salvaguardia del capitalismo stesso.
Il neoliberismo indica una svolta economica reazionaria su tutta la linea ; come a suo tempo il keynesismo, questa nuovo disegno mira a far pagare la crisi ai lavoratori ma ad un livello di supersfruttamento mai raggiunto prima.
A tal fine, si tratta per i monopoli di riprendersi tutto quanto avevano ceduto nel periodo nel quale la classe operaia era all’offensiva, di inasprire le forme di dominio di classe. Così si è impostata una politica di deregolamentazione generalizzata con l’obiettivo di modificare i contenuti della rgolazione monopolista di stato (questa “deregolamentazione” concede ogni libertà ai monopoli più antisociali, più antipopolari, più antinazionali).
Per il capitale finanziario, lo stato deve essere totalmente orientato all’applicazione del neoliberismo. In tal modo lo “stato previdenziale” è svuotato di ogni contenuto e le spese sociali dello stato sono sempre più limitate.
Se consideriamo il processo di privatizzazione dei servizi pubblici, possiamo misurare la portata di questa “deregolamentazione monopolista di stato”.
In Francia, dopo la seconda guerra mondiale, il capitalismo monopolistico di stato (CME) controllava numerosi settori produttivi, settori finanziari (banche ed assicurazioni), l’alluminio, la chimica, l’elettronica, il petrolio, il gas, l’elettricità, le ferrovie, il trasporto aereo.
Lo stato era fortemente presente nei settori del vetro, dell’automobile, dell’informatica con i quali assicurava la metà della produzione, così come nell’edilizia, nei lavori pubblici, nella farmaceutica.
Il settore delle imprese pubbliche nel momento della sua massima espansione rappresentava il 18 % dei salari, percentuale questa che è scesa al 10 % nel 1985 e che attualmente, con la marcia forzata delle privatizzazioni – condotta da tutti i governi che si sono succeduti a prescindere dalle etichette politiche – è ridotta a meno del 5 % dei salari.
Questo disimpegno della stato fu, ed è, spettacolare : settore finanziario, informatico, siderurgico, difesa nazionale, automobilistico, telefonico ecc. Privatizzazioni rampanti sono lanciate con l’apertura al capitale privato, imprese nazionale quali l’Air France, France-Telecom, Eléctricité de France, Gaz de France, significano ben 550 miliardi di franchi (l’equivalente di 200.000 miliardi di lire) di beni pubblici passati al capitale privato in dieci anni.
Questa politica, di saccheggio della proprietà pubblica, mira ad assicurare il massimo profitto in settori estremamente lucrosi quali la ricerca, l’informatica, la telefonia.
Queste privatizzazioni riguardano tutti i paesi che si erano dotati di un forte settore pubblico.
La deregolamentazione riguarda anche il diritto al lavoro. E’ noto che , grazie alle lotte, molte costituzioni borghesi riconoscono il diritto al lavoro, almeno dal punto di vista formale. Alcuni economisti hanno chiamato il periodo keynesiano il periodo del “pieno impiego”. Ciò appare un poco eccessivo in quanto la disoccupazione è organica al capitalismo; tuttavia la crisi attuale si è tradotta in una disoccupazione di massa. Le 500 più grandi aziende del mondo hanno licenziato 550.000 lavoratori all’anno! Le statistiche ufficiali calcolano in 800 milioni i disoccupati nel mondo, mentre milioni di salariati sono esclusi dal processo produttivo per una notevole parte della loro vita.
Le misure di “accompagnamento” della disoccupazione (gli ammortizzatori sociali) non sono che tentativi per cercare di assicurare il minimo vitale, ma anche per generalizzare e sistematizzare la condizione di appartenenza all’esercito industriale di riserva. L’impoverimento assoluto, la marginalizzazione di alcune categorie del proletariato escluse dalla produzione, diventano la regola anche nei paesi di capitalismo sviluppato.
La concorrenza fra i salariati, così tanto celebrata dai neoliberisti, comporta non poche conseguenze. Nei paesi imperialisti, per ribassare il “costo del lavoro”, i monopoli, tendenzialmente, cercano di eliminare dai lavori non qualificati i lavoratori autoctoni (nazionali) e ricorrono agli immigrati, scacciati dai loro paesi dalla miseria, dalle dittature, dalle guerre e dalla minaccia della carestia : questi lavoratori immigrati sono pagati in media il 30 % in meno.
Tale ricorso all’immigrazione è una delle ragioni per le quali il capitale diffonde razzismo e discriminazione attraverso l’intermediazione dei partiti fascisti al fine di seminare discordia e disunione fra i proletari. L’altro metodo consiste nella dislocazione delle imprese nei paesi nei quali i salari sono notoriamente più bassi : Asia del sud-est, Europa dell’est, ex repubbliche sovietiche.
Tutte queste misure mirano a diminuire direttamente od indirettamente i salari, con la conseguenza della pauperizzazione assoluta e relativa, degli attacchi contro gli statuti dei lavoratori e della messa in concorrenza dei lavoratori in qualche modo garantiti con quelli privi di lavoro e di diritti.
E c’è il ricorso alla precarizzazione : piccoli lavori, contratti a tempo determinato, nuovi lavori, lavoro interinale, tutte espressioni che mascherano la bieca realtà del lavoro senza garanzie, dell’assenza di diritti sindacali, dei bassissimi salari, dell’abolizione del tempo completo e dell’anzianità.
I “nuovi lavori” a volte riguardano compiti a livello di funzionariato, ma non comportano né la garanzia dell’impiego né il livello di stipendio né il riconoscimento di stato. Un altro modo di camuffare la disoccupazione e di supersfruttare i giovani è quello di aggredire propagandisticamente i “garantiti”, presentati dalla stampa come servi dei padroni, persone privilegiate.
L’obiettivo è quello di livellare verso il basso, non offrendo ai giovani impieghi stabili e qualificati ma generalizzando il precariato. Il neoliberismo intende cancellare ovunque i diritti acquisiti e i diritti sindacali.
A questo proposito, negli stati imperialisti si osserva lo sviluppo di una economia parallela, di un “mercato e di un lavoro nero” con il ricorso, fra gli altri, a lavoratori immigrati clandestini, autentici schiavi moderni.
In un paese come la Francia si valuta fra il 13 ed il 20 % del Prodotto interno lordo la parte di ricchezza prodotta dai lavoratori “clandestini”. I giovani, le donne, l’immigrazione sono le categorie utilizzate quali cavie del capitale per sperimentare quella che dovrà essere la società deregolarizzata. In Francia il 40% del salari di coloro che hanno meno di 25 anni corrisponde a lavoro precario ed in complesso già un lavoro su tre è lavoro precario!
Ai giovani la società capitalista mostra la propria natura profonda: un sistema senza lacciuoli giuridici, né limiti allo sfruttamento. Ed è per questo che il rimodellamento della società passa attraverso lo sconvolgimento delle condizioni e delle forme del lavoro.
L’obiettivo che i monopoli si pongono è chiaro: produrre di più con meno lavoratori ; il neoliberismo moltiplica la flessibilità degli orari di lavoro secondo il noto modello Toyota: si tratta di adattare la produzione e la vendita della forza-lavoro alle necessità del mercato e questo lo si ottiene con la annualizzazione dei tempi di lavoro.
Ultima tessera, che si accompagna alla flessibilità, è l’austerità, politica posta in essere da almeno due decenni ma che si va appesantendo nella misura in cui prosegue l’offensiva neoliberista. Per realizzare questi obiettivi, che rappresentano un vero e proprio regresso di civiltà, lo stato borghese non rallenta il proprio ruolo nell’economia ma lo modifica. Il periodo keynesiano, le teorie dello “stato previdenziale” hanno fatto nascere delle illusioni di tipo riformista circa la natura di classe dello stato.
Durante gli anni ’60 alcuni teorici del movimento operaio avanzarono la tesi che “lo stato grazie al capitalismo monopolistico di stato non è soltanto proprietario del capitale ma è anche l’espressione del rapporto di forze fra le classi antagoniste.” In altre parole, le lotte (senza trasformazioni sociali rivoluzionarie) potevano arrivare a modificare ed a indebolire il potere di classe del capitale.
“Lo stato previdenziale” era concepito in tale ordine di idee, cioè come stadio irreversibile imboccato dal capitalismo che garantiva un certo livello di vita anche se le ingiustizie e le disuguaglianze permanevano, e tutto questo giustificava il riformismo sindacale come quello politico. La crisi di sovrapproduzione e la politica neoliberista hanno dimostrato l’inconsistenza scientifica di queste “teorie” anche se sul keynesismo c’è chi continua a farsi delle illusioni.
E’ anche bene ricordare che gli insegnamenti di Keynes hanno consentito il varo, da parte dell’oligarchia finanziaria, di una politica che assicura, grazie allo sfruttamento salariale, il saccheggio coloniale dei paesi subordinati, il massimo profitto dei monopoli ed una politica che, pur essendo meno brutale della attuale politica neoliberista, raggiunge i medesimi obiettivi di classe .
La imprese di stato nazionalizzate non erano per niente “isole di socialismo”, ma del capitalismo di stato, anche se qualche volta – periodi di concessioni obbligate – le garanzie, i diritti acquisiti dai lavoratori erano generalmente più elevati che non nei monopoli privati. Ricordiamo che le acquisizioni ed anche i salari erano finanziati in notevole misura dal saccheggio e dalla dominazione imperialista o dal bilancio dello stato e dai prelievi sui redditi dei lavoratori attraverso la tassazione. Se le caratteristiche permanenti del capitalismo si ritrovano sia nel keynesismo che nel neoliberismo (plusvalore accaparrato dal capitale, proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio, sfruttamento dell’uomo sull’uomo, contraddizione fra il carattere sociale delle produzione ed il carattere privato dell’appropriazione del profitto) le differenze non possono essere ricercate nell’obiettivo strategico, ma nei metodi, nelle forme, nei tempi che derivano dalla modifica dei rapporti di forza su scala mondiale: offensiva operaia e popolare ed allora riforma keynesiana ; offensiva del capitale ed allora neoliberismo.
Il termine “ offensiva” non significa che il capitale non incontri più ostacoli, al contrario, la crisi lo spinge a scelte antipopolari che potrebbero mettere in pericolo, col tempo, la sua politica di dominio. Il passaggio da una politica all’altra è stato reso necessario dalla crisi della regolazione monopolista di stato , impotente ad impedire o a circoscrivere la crisi di sovrapproduzione. Ne consegue che il neoliberismo non ha convenienza a sopprimere certe funzioni dello stato borghese, ma preferisce modificarle.
Il CME (capitalismo monopolista di stato) non è d’altra parte uno “ stadio supremo della stadio imperialista”, come alcuni sembrano pensare, ma una politica congiunturale derivante da rapporti di forza dati. Noi lasciamo agli specialisti il compito di determinare se il CME continua ad esistere o meno: in ogni caso con il neoliberismo abbiamo già parlato di una “deregolamentazione monopolista di stato” perché la politica reazionaria del capitale è portata avanti con tutta l’autorità e la potenza dello stato dei monopoli.
Lo stato, grazie alla intermediazione dei governi che sono al suo servizio, applica e sistematizza le misure monetarie e neoliberiste in ogni Paese : deregolamentazione, austerità, flessibilità, precariato, disoccupazione di massa.
Lo stato è all’avanguardia nella riduzione delle spese sociali (previdenza sociale), nel “lasciar fare” quando si chiudono delle imprese, nell’avanzare progetti per le pensioni su base di capitalizzazione, nel privatizzare progressivamente la sicurezza sociale, nel preparare la legge sul risparmio obbligatorio in modo da stornare una parte dei salari sulla speculazione borsistica.
Le sovvenzioni pubbliche dello stato al capitale privato diventano una regola del bilancio statale. Lo stato si colloca nella politica di spartizione del mondo fra le grandi potenze imperialiste e consente la chiusura di settori giudicati “non redditizi”.
Lo stato propone “piani sociali” differenti per il personale licenziato e va a prendere gli “aiuti” dal bilancio pubblico. Si vede dunque che l’intervento economico dello stato rimane sotto la sigla del ne-liberismo e che le parole degli ideologi sul “meno stato” sono semplici futilità.
Questa politica neoliberista rappresenta, l’abbiamo visto, una risposta contingente all’attuale crisi economica per scongiurarne l’esplosione di una serie di fallimenti aziendali o di altre manifestazioni acute di un male organico, ma le contraddizioni non si attutiscono, anzi si inaspriscono, tanto che le caratteristiche disumane ed i limiti storici del capitalismo emergono con chiarezza, naturalmente per chi le vuole vedere.
Per reprimere i lavoratori lo stato borghese rafforza gli apparati repressivi : l’esercito, la polizia, la magistratura, ad un livello mai raggiunto prima.
La politica di globalizzazione capitalista spinge l’esercito delle grandi potenze imperialiste, quello degli Stati Uniti in testa, ad assumere più che mai il ruolo di gendarme del capitalismo contro i paesi insofferenti, a diversi livelli, del “nuovo ordine mondiale” : Irak, Jugoslavia.
Gli stati imperialisti curano anche l’applicazione delle sanzioni economiche : embargo, blocchi contro gli stati che rifiutano la globalizzazione capitalista come, ad esempio, Cuba. Se la globalizzazione condotta in nome della onnipotenza delle società multinazionali si scontra con la sovranità nazionale, compresa quella degli stati sviluppati, oppure conduce alla ricolonizzazione del “Terzo Mondo”, tutto questo non elimina affatto le potenzialità politiche ed economiche degli stati nazionali.
Il neoliberismo non implica affatto l’impiego esclusivo di metodi coercitivi. “Si fanno ancora concessioni anche se questo non vale tanto nei confronti di classi e settori sociali quanto nei confronti di individui e da questo nasce il “sindacalismo adattativo”
Quali forme assumono queste “concessioni ? Prima di tutto la ricolonizzazione del “Terzo Mondo” attraverso il supersfruttamento dei popoli: ciò consente di mantenere un certo standard di vita a certe categorie di salariati. Questo è lampante negli Stati Uniti, dove il debito delle famiglie è superiore al debito pubblico ma lo è anche nei paesi dove l’offerta di sinecure di ogni tipo per funzioni direttive ha prodotto una autentica burocrazia operaia sulla testa della classe proletaria che, date le sue aspirazioni, si apparenta alla piccola borghesia.
C’è poi il ricorso massiccio all’azionariato dei salariati nei paesi imperialisti che tocca soprattutto i lavoratori delle imprese precedentemente nazionalizzate, e questo con lo scoperto proposito di legare i dipendenti che hanno comprato azioni ai risultati economici delle “loro” imprese.
Se tutto ciò non rappresenta vantaggi sostanziali, si diffonde comunque una mentalità piccolo borghese nella classe operaia ; nello stesso modo i fondi pensione che sequestrano una parte del salario in cambio di azioni-parte del capitale delle società. In questo modo aumenta la dipendenza dei lavoratori nei confronti del capitale : uno sciopero può provocare la caduta del valore di Borsa delle azioni!
L’obiettivo delle multinazionali è di carattere strategico : integrare la classe operaia alla piccola borghesia, ai punti di vista e agli obiettivi del capitale.
In altre parole : generalizzare e globalizzare la politica espressa negli Stati Uniti nei confronti degli operai bianchi.
Anche in un paese come la Francia, con le sue tradizioni di lotta di classe, queste iniziative non mancano di avere effetto: l’80 % dei salariati di France Telecom hanno azioni della Società, e il complesso di 6 milioni di azionisti presenta un aspetto più “popolare” di prima. E’ chiaro che questo non cambia niente nella sostanza, in fatto di proprietà dei monopoli, ma ritarda la presa di coscienza e può seminare illusioni sul sistema capitalista.
Inoltre lo sviluppo dei servizi, la desettorializzazione di certi monopoli e la nascita di piccole e medie imprese (5 milioni in Francia), di filiali e di aziende subalterne, favoriscono lo sviluppo di nuovi ceti medi che costituiscono una base sociale per il riformismo e per il vassallaggio al capitale.
Nei paesi in via di ricolonizzazione la dominazione imperialista cerca sostegno presso la grande e media borghesia locale diventata compradora, arricchendosi come intermediaria nello scambio ineguale.
Infine, nel mondo intero il crescente parassitismo del capitalismo si riflette nel lassismo degli stati di fronte ai “soldi facili” di traffici diversi : droghe, armi, prostituzione. Si assiste alla diffusione del lumpen-proletariato composto di elementi destinati ad una estrema miseria, i quali per sopravvivere credono di trovare un salvagente in attività illecite che consentono di guadagnare in poche ore quanto un operaio guadagna in un mese ; si tratta anche di forme non trascurabile di corruzione dei lavoratori: il lumpen-proletariato serve a soddisfare i bisogni inconfessabili del regime capitalista.
Parallelamente il capitale necessita del sostegno sociale e politico all’interno del movimento operaio. Il neoliberismo ricerca anche l’appoggio del riformismo sindacale e politico. La crisi economica ha determinato quella del riformismo che aveva visto aumentare, e di molto, la propria influenza all’insegna della politica di regolazione monopolista di stato, chiamato “stato previdenziale”. La politica di compromesso evidenziava la funzione delle organizzazioni sindacali che accettavano e firmavano accordi il contenuto dei quali, al di là di qualche briciola d’aumento, andavano nel senso del rafforzamento dei ritmi produttivi nelle fabbriche.
La linea di rifiuto di concessioni economiche limita lo spazio accordato al riformismo e di conseguenza questo deve adattarsi, trascinato dalla svolta reazionaria, a diventare un sindacalismo di sostegno, apertamente filo-padronato.
Date queste condizioni, in effetti, le organizzazioni riformiste si trasformano in uffici notarili ed in casse di risonanza della politica dei monopoli. La collaborazione di classe viene presentata come l’ultimo grido della modernità.
Ma le condizioni oggettive per la classe operaia si aggravano, i salari diminuiscono e questo minaccia, prima o poi, l’influenza di massa di un riformismo sempre pronto a firmare accordi forieri di regressione sociale che sono lì a dimostrare tutta l’inefficacia della collaborazione di classe.
Il sindacalismo di classe è perciò ad un bivio. Le ristrutturazioni industriali, la pressione della disoccupazione hanno creato ai lavoratori ed ai sindacalisti nuove difficoltà ed in una situazione di rapporti di forze sfavorevoli sul piano internazionale.
Occorre affrontare e vincere le nostre insufficienze (provvisorie) :
a) – organizzando insieme lotte sul piano internazionale, vivendo nella pratica la solidarietà di classe nelle case-madri delle metropoli così come nelle filiali nei paesi dominati ;
b) – collegando sul piano nazionale le lotte attualmente disperse, vincendo il corporativismo che ancora sussiste;
c) conducendo una battaglia teorica e pratica incessante contro il riformismo, cercando di staccare le masse dai capi integrati nel sistema grazie all’ unità d’azione su basi di classe e a una piattaforma chiaramente rivendicativa.
Per fare questo bisogna cercare di non sbagliare bersaglio. Il neoliberismo non è uno stadio “insuperabile” del capitalismo e tanto meno può essere considerato una deriva finanziaria in rapporto ai “buoni, vecchi tempi” del capitalismo industriale : si tratta invece dell’adeguamento delle leggi permanenti del capitalismo all’attuale congiuntura. E non è un caso che alcuni ideologi neoliberisti, come Jeffrey Sachs, preconizzano, a fronte delle conseguenze del crac finanziario in Asia, di “nazionalizzare le banche, comprese quelle giapponesi”.
La relativa pausa nella crisi, largamente basata su una ripresa economica artificiale e fragile, induce alcuni economisti a ritornare a Keynes ; non è ancora un pensiero vincente, certo, ma bisogna vigilare su certi progressisti che raccomandano l’adozione di una “economia regolata o controllata” o la “democratizzazione degli organismi finanziari sovranazionali”, credendo di aprire, in tal modo, sul fallimento del neoliberismo, la strada per il ritorno alla politica economica precedente.

traduzione a cura di Sergio Ricaldone ed Enrico Penati