Contributo ad una discussione per riunire i comunisti

1. GLI ANTEFATTI

Al congresso di Chianciano di Rifondazione Comunista vengono a “congiuntura” althusseriana più fattori interni, i cui tempi erano stati diversi. Inadeguatamente o tendenziosamente il risultato di questo congresso è stato presentato come l’approdo “identitario” di una crisi tutta ad hoc, partita dalla delusione per il fallimento dell’esperienza di governo, dalla sconfitta della balorda operazione la Sinistra-l’Arcobaleno, imposta al partito, senza discussione, da un pezzo dei quadri dirigenti della sua maggioranza interna, e dal tentativo di darle seguito con lo scioglimento del partito, attraverso un golpe preparato in sedi esterne sempre da questo pezzo di quadri della maggioranza, forti dell’appoggio di D’Alema e dei massmedia vicini al PD. Uniti a questi indubbi (e tutti assolutamente validi) fattori di Chianciano (non si capisce perché una collettività di 80 o 90mila persone debba accettare di essere messa a morte senza neppure la possibilità di dire la sua, inoltre sia illecito che essa reagisca anche rifacendosi ai tratti metapolitici che la fondano), ce n’erano invece molti altri, più immediatamente politici, ugualmente importanti. Li enumero: la crisi dell’idea che contro la destra si debba obbligatoriamente costruire schieramenti con i partiti del centro liberista (DS prima, PD dopo), quindi che si debba obbligatoriamente puntare, nella lotta politica, a governi di coalizione con queste forze; la crisi, parimenti, dell’idea che l’efficacia sociale e l’utilità per il partito (le due cose sono intrecciate) risieda (nelle condizioni di questi anni dell’Italia) nella realizzazione di politiche, in concreto, di “riduzione del danno” recato dalle pratiche del centro liberista, appunto cooperando con esso in sede di governo; la crisi, ancora, di un corso politico che vede (da sempre) l’obiettivo di governi di coalizione a qualsiasi costo a livello locale, parimenti che vede (di fatto e a corrente alternata) nella presenza istituzionale e in quella in sede massmediatica (le due cose sono molto intrecciate) i modi fondamentali di conduzione della lotta politica; la percezione della gravità estrema della crisi, per via di questo corso politico, dell’insediamento elettorale e della credibilità sociale del partito; il fastidio crescente nella base e in una larga parte dei quadri di partito, metà della sua maggioranza compresa, a partire (quanto meno) dalla conferenza di Carrara fino alla rivolta contro il golpe, nei confronti di una gestione centrale sempre più monarchica, clientelare, burocratica, inetta, bizzarramente esibizionista e svoltista, prigioniera (in ciò) dello spettacolo massmediatico; il desiderio crescente della base e di una larga parte dei quadri di una svolta, interna, democratica e repubblicana ed, esterna, “a sinistra e verso il basso” (come recita Chianciano), cioè verso la nostra gente e la materialità concreta dei suoi problemi e delle sue attese.

La migliore riprova di questo carattere democratico-rivoluzionario e di sinistra di Chianciano, giova sottolineare, è in quell’ostilità che continua nei nostri confronti e in quel profluvio di strampalate proposte elettorali a base di scioglimenti o semiscioglimenti che ci è cascato addosso da parte di forze contigue: avendo Chianciano culturalmente e moralmente colpito, oltre al potere monarchico e ai suoi clienti e burocrati in Rifondazione, anche, di fatto, la sacralità forzosa di ogni autorità castale, politica o intellettuale o di movimento o sindacale o mediatica dentro alla sinistra antisistemica, e indicato come il rilancio di una sinistra antisistemica di massa passi in Italia anche per una ripulitura democratica a tutto campo, non solo nei partiti. Né Dio né padroni, recita un vecchissimo attualissimo motto anarchico.

Al PdCI, credo di intuire, è accaduto di vivere, in forme ovviamente proprie, un processo critico non molto diverso da quello di Rifondazione. E’ quest’altro accadimento ciò che effettivamente apre a una possibilità di ricomposizione tra i due partiti: analogamente a come Chianciano l’ha aperta dentro a Rifondazione, invertendo il processo della sua balcanizzazione.

2. LA QUESTIONE NON E’ SOLO DELL’UNITA’ DEI COMUNISTI MA ANCHE DELLA SINISTRA SISTEMICA

Per tutto questo non mi meraviglia, né mi trova polemico, che il tema della ricomposizione dei due partiti si sia fatto bruciante, nella testa di molta parte della loro militanza. Che si riesca a trarre buoni risultati dai momenti elettorali è, inoltre, tra i fattori importanti della credibilità sociale di ogni partito, quindi della sua capacità di espansione: e siamo sotto elezioni europee. Condizione di questa credibilità e di quest’espansione, infatti, è di riuscire a non abbandonare all’avversario sociale e politico il controllo di nessuna o rispetto a nessuna delle “fortezze” statali (non solo di quelle della società civile), quindi che in ogni “fortezza” o rispetto a ogni “fortezza” si possano combattere battaglie (ciascuna in forme proprie), sia per l’ottenimento di risultati parziali immediati che per il compattamento in “blocco storico” democratico e socialista della maggioranza sociale ovvero per l’egemonia nella società.

Abbiamo così il dovere, come gruppi dirigenti di Rifondazione e del PdCI, di agire seriamente e sollecitamente alla realizzazione delle condizioni per una ricomposizione. Abbiamo anche il dovere di proporla ad altre formazioni comuniste, e in presenza di un rifiuto di ricercare terreni parziali di cooperazione anziché sviluppare polemiche. Parimenti vorrei mettere in guardia le compagne e i compagni rispetto a una (a mio avviso) ingenuità e rispetto all’errore (sempre a mio avviso) di una possibile “riduzione” dello “spettro” e delle forme della ricomposizione delle forze antisistemiche. L’ingenuità. Dobbiamo essere tutti consapevoli di come la partecipazione unitaria alle prossime elezioni europee (indubbiamente un momento importante di avvicinamento, di cooperazione, di discussione, di annodamento o riannodamento di relazioni anche personali) non esaurisca quanto di importante vada comunemente ragionato e costruito in funzione di una ricomposizione. Rifondazione è assorbita dalle code e dai danni organizzativi e di immagine sociale della sua scissione, ciò che la obbliga a concentrarsi su uno sforzo di ricostruzione e su quello orientato al recupero dei suoi rapporti sociali e con organismi sociali e di movimento; inoltre, e soprattutto, le questioni sulle quali la nostra partecipazione alle prossime elezioni europee si incentrerà non toccano una parte significativa delle questioni sulle quali un’intesa va delineata, se il suo obiettivo vuole essere appunto una ricomposizione. Quel che voglio dire è che la ricomposizione unitaria va fatta bene affinché non precipiti più o meno alla svelta in scontri di fazione, facendo rivivere alla nostra gente l’indecente spettacolo autodistruttivo di questi diciotto anni. Il danno a oggi di quest’andazzo si è “limitato”, per usare un forte eufemismo, a periodici tracolli elettorali e alla perdita, tenendo conto della militanza complessivamente transitata per Rifondazione, di 500-600mila compagne e compagni (quasi la quantità di quelli che il PDS di Achille Occhetto mandò a casa). Con questo non è che sto tirando il freno a mano: è solo un invito a molto senso di responsabilità dinanzi ai nostri militanti e alla nostra gente. Dobbiamo essere tutti consapevoli di come l’obiettivo di una ricomposizione delle forze antisistemiche non riguardi solo il rapporto tra Rifondazione e PdCI (ed eventuali altre formazioni comuniste), ma anche uno spettro molto ampio di organismi non partitici, larga parte dei quali, inoltre, non si qualifica rispetto ad appartenenze storico-politiche bensì lo fa rispetto a esperienze di movimento, come l’altermondialismo (benché molti loro aderenti abbiano la tessera o siano simpatizzanti di formazioni comuniste). Naturalmente, se guardando alla prospettiva del rapporto tra Rifondazione e PdCI, essa può essere la ricomposizione, in un unico partito o in una federazione, guardando alla prospettiva del rapporto a organismi non partitici non può essere la medesima cosa, salvo eccezioni, ma una relazione più o meno a rete e più o meno agilmente strutturata. In questa prospettiva Rifondazione sta rilanciando la proposta aggregativa di Sinistra Europea: che, fino alla vigilia della Sinistra-l’Arcobaleno, stava dando notevoli risultati, e che la Sinistra l’Arcobaleno stroncò.

Quest’altro lato della ricomposizione delle forze antisistemiche è molto importante. Nelle condizioni attuali dell’Italia, di notevole frammentazione a sinistra, ma più in generale nelle condizioni di gran parte delle formazioni sociali attuali del pianeta, per via dell’elevata complessità dei loro tessuti sociali e culturali, non si può pensare che sia sufficiente l’unità dei comunisti (e neppure delle sinistre politiche anticapitalistiche) per raccogliere il complesso delle forze antisistemiche. Si oppone a ciò, prima di ogni considerazione (guardando all’Europa) sulla crisi di egemonia del comunismo novecentesco, per via del fallimento del “socialismo reale”, il fatto che alla base della diversificazione delle forze antisistemiche e dell’articolazione stessa delle loro forme di organizzazione non ci stanno solamente processi culturali ma anche, e prima di tutto, il fenomeno contemporaneo, di portata storica, dell’emergenza di un complesso articolato di risposte critiche al capitalismo, in altre parole dell’emergenza di una quantità di soggettività sociali o fusionali (Sartre) accanto a quella più tradizionale del proletariato, intese a contestare, su questo o quel versante decisivo, l’ordine sociale capitalistico, e in tendenza a contestarlo totalmente. C’è dunque (in Europa, e in modo particolare in Italia) una complementarietà necessaria (e che è facile empiricamente cogliere) tra la ricostruzione di un forte partito comunista e la costruzione di un partito “largo”, comprensivo cioè di più forme associative ecc. Il partito “stretto”, cioè il partito in senso proprio, non è in grado (qui, ora) da sé, infatti, di registrare la totalità dei processi che prendono corpo nella società, data appunto la complessità della medesima e la pluralità delle tensioni antisistemiche, non sempre su base di classe, che vi avvengono, spesso, per di più, attraverso passaggi molecolari e improvvisi salti di qualità. Il partito “stretto”, inoltre, necessita di una continua sfida culturale da quest’“esterno” complesso e plurale, se non vuole rischiare di chiudersi su se stesso oppure di subordinarsi al livello istituzionale della politica, rarefacendo così o anche smarrendo il proprio rapporto alla materialità e agli antagonismi concreti della realtà sociale. L’elevata politicità, a loro volta, degli organismi antisistemici non partitici, fenomeno sviluppato molto dal ’68 e rilanciato dal movimento altermondialista, se da un lato risulta portatrice di un’elevata radicalità antisistemica riguardo ai temi particolari affrontati da ogni particolare organismo, dall’altro risulta incapace di produrre il salto da parte di questi organismi alla comprensione sostanziale della politica e delle sue complicate articolazioni, a partire da una comprensione non superf iciale che la società è una totalità altamente complessa, perciò che la sua gestione (è questa la politica: la gestione o la lotta per la gestione della società) è necessariamente caratterizzata da alta complessità essa pure. Quest’incapacità ha al fondo, accanto a ragioni culturali, anche una ragione strutturale: proprio in questo fatto che ogni organismo guarda a un tema particolare (né riesce a valere, in controtendenza rispetto a quest’incapacità, la qualità obiettiva di questo tema o il significato universale della rivendicazione che a questo tema sia connessa). Non è un caso, quindi, che nei momenti di ripiegamento delle grandi mobilitazioni ogni organismo tenda a rifluire sul proprio tema particolare, né che nei momenti di crisi grave della sinistra politica, come l’attuale, parte degli organismi, e soprattutto parte dei loro intellettuali, troppo spesso irrigiditi nei loro paradigmi e pregiudizi, venga a trovarsi in uno stato confusionale acuto. Il partito “largo”, così, oltre che servire all’espansione dell’influenza sociale del partito “stretto” serve alla realizzazione di un incremento ulteriore di politicità dentro agli organismi non partitici, alla loro stabilizzazione, all’espansione anche della loro influenza sociale, in una parola al loro rafforzamento quantitativo e qualitativo. Si veda, in questa prospettiva sinergica, ciò che ha significato nella storia italiana del dopoguerra la cooperazione stretta tra PCI, CGIL, movimento cooperativo, altri organismi.

La sinistra comunista, perdonate la franchezza, ragionando su questa materia dovrebbe lodare meno Gramsci e applicarlo di più: la nozione gramsciana di “blocco storico” democratico e socialista non è semplicemente l’alleanza politica a egemonia comunista degli operai, dei contadini e degli intellettuali democratici, ma un blocco molto ampio di forze saldato sul piano culturale e morale e specifico produttore esso pure, attraverso i vari elementi della propria prassi, di politica e di cultura politica. E’ cioè mia convinzione che ci tiriamo dietro, a rassicurarci che supereremo il rischio mortale che è dentro alla lunga crisi del comunismo italiano, non solo un pasticcio approssimativo e confusionario sul piano teorico, non solo una quantità di frasette nuoviste più o meno metafisiche, ma anche, e a volte dominanti, i frammenti di un marxismo- leninismo stereotipato, diffidente verso il mondo od opportunista (in qualche caso, i frammenti di un trotskismo insettarito), e che questi frammenti (di marxismo-leninismo o di trotskismo) risultano antitetici al marxismo di Gramsci, e cioè a uno dei punti più efficaci di avvio di quella rifondazione teorica che in diciotto anni, giova dirlo anche se è antipatico farlo, non è mai seria- mente partita. Non che, preciso, i corpi teorici del marxismo- leninismo o del trotskismo o altri ancora non siano suscettibili di recare contributi a questa rifondazione, di auto-evolvere e di integrarsi a un processo teorico più ampio: ho solo accennato a un dato di fatto attuale.

Naturalmente non ho la pretesa che i miei personali punti di vista fungano da testo di riferimento, ancor meno da imperativi categorici, nella discussione tra Rifondazione e PdCI. Necessitiamo di ipotesi, in questo momento, non di tesi completate in ogni aspetto: per esse ci vuole un collaudo dei fatti che largamente manca. Mi pare solo decisivo, nella prospettiva della ricomposizione di questi partiti, che si tenda alla comprensione unitaria di quanto sia qualitativamente importante operare a una ricomposizione anche di tipo “largo” e cioè del complesso delle forze antisistemiche.

3. LA QUESTIONE DI UNA STRATEGIA, PRIVA DI ELEMENTI DI SUBALTERNITA’ E DI ESTREMISMO, E DELLE SUE FORME TATTICHE

Gramsci nei Quaderni del carcere sviluppa una riflessione critica sui limiti della concezione della rivoluzione socialista propria dei primordi della III Internazionale (concezione che Gramsci definisce, con metafora militare, di “guerra di movimento”, consistente cioè nel puntare in ogni momento intensivo della lotta di classe, tendendo dunque a privilegiare i mezzi della guerra civile o quelli, se al potere, dello stato, all’eradicazione dell’avversario sociale e politico e, spesso, anche delle forze intermedie): infatti questa concezione era franata, sulla metà degli anni venti, in Germania (in primo luogo: ma più in generale nei paesi sviluppati dell’Europa occidentale) e stava concretizzandosi in Unione Sovietica in maniera oltremodo preoccupante per la qualità del socialismo, dopo l’abbandono, a fine anni venti, di quella grande intuizione leniniana, duttilmente orientata all’egemonia sulla totalità sociale, che era stata la NEP. Parimenti Gramsci propone, al fine della correzione della base teorica di questi dati negativi, che l’analisi dei paesi sviluppati così come quella dei processi di transizione socialista abbia a presupposto l’assunzione della loro irriducibile complessità (era stato anche il presupposto che il processo delle contraddizioni sociali sia riducibile allo scontro diretto di classe tra quanto aveva condotto la III Internazionale alla “guerra di movimento”), inoltre fonda una concezione di ricambio della rivoluzione socialista. E’ esattamente a quest’analisi e a questa concezione, collocate con sostanziale coerenza da Togliatti, a partire dal 1943, nella situazione italiana, che il PCI deve la sua grande capacità egemonica nei primi decenni del presente dopoguerra, non solo nel proletariato ma in quote di classi medie e nell’intellighenzia. Vediamo. L’analisi gramsciana, partendo appunto dalla complessità dei paesi sviluppati, coglie la complessità delle forme di relazione sociale e di quelle del dominio di classe, quindi, concretamente, l’intreccio di coercizione e di egemonia di questo dominio, il ruolo prevalente, salvo periodi particolari, dell’egemonia, perciò l’importanza strategica del controllo da parte del dominio di classe delle “fortezze” situate in quello “stato integrale” che è la composizione di “società civile” e istituzioni dello stato in senso proprio. La strategia che dunque Gramsci coerentemente indica ha l’obiettivo di larghi “blocchi storici” di forze sociali e culturali orientati alla trasformazione socialista, attraverso l’impegno dei comunisti in una “guerra di posizione” dentro o nei confronti di ogni “fortezza” in mano borghese, con l’obiettivo di diventarvi egemonici; è cioè anche per questa via, necessariamente, oltre che per la lotta diretta di classe, che i comunisti secondo Gramsci debbono tendere a diventare egemonici nelle società sviluppate, e così giungere (anche con la precipitazione di momenti di “guerra di movimento”) ad assumerne, su mandato sociale, la conduzione politica. Parecchi anni prima dei Quaderni, infine, cioè nelle Tesi di Lione Gramsci aveva proposto (ciò valga come esemplificazione concreta del suo pensiero strategico), contro l’estremismo e il settarismo di Bordiga, che lo sbocco della lotta al fascismo dovesse opportunamente essere una repubblica democratica basata sugli operai e sui contadini. Con questa concezione della rivoluzione socialista Gramsci (ecco il punto che ci interessa) tende anche, indirettamente, a sottrarre i comunisti a due percorsi inefficaci se non controproducenti: il primo, quello del ripiegamento settario e dell’attitudine a pensare alla propria militarizzazione come a una risposta, non semplicemente dettata dalle contingenze del fascismo o di una guerra civile, ma anche di natura etica di principio; il secondo, quello della loro subalternità di fatto al sistema di rapporti sociali capitalistici. La “guerra di posizione” per l’egemonia dentro o nei con- fronti delle “fortezze” in mano borghese tende, infatti, a non lasciare i comunisti deboli, soggettivamente o socialmente, dinanzi alle operazioni egemoniche avversarie: come invece è quando essi assegnino alla loro presenza nelle “fortezze” in mano borghese (in quelle istituzionali- rappresentative soprattutto) compiti puramente tattico-propagandistici (la “denuncia” di questo o di quello, e soprattutto dei “traditori” della rivoluzione socialista), oppure facciano di queste “fortezze” (di quelle istituzionali-rappresentative in specie, e, oggi, potremmo aggiungere, del potere massmediatico) i luoghi fondamentali, primari, della politica, e in essi della tessitura di rapporti politici in vista di alleanze di governo. Questa subalternità, giova dunque precisare, può presentarsi in due forme: in quella, estremizzante, che vede con sommo sospetto di contagio mortale la partecipazione alle istituzioni rappresentative dello stato, ancor più a governi di coalizione, e in quella, più organica, che pone la presenza in queste istituzioni come, in concreto, essenzialmente “emendataria”. Questa subalternità, giova ancora precisare, è propria, sul primo versante, delle forze comuniste rimaste legate, per una via teorica o per l’altra, all’idea, propria come ho già scritto dei primordi della III Internazionale, della rivoluzione socialista sempre e comunque come “guerra di movimento”, e, sull’altro versante, di una deriva più o meno consapevole e più o meno estesa verso il moderatismo e il gradualismo delle socialdemocrazie di un tempo (cioè di prima che diventassero liberiste).

L’America latina, area a metà, guardando alla sua storia politica, tra Occidente e periferia capitalistica, è oggi teatro di numerosi incipienti processi di trasformazione socialista che si caratterizzano per appoggiarsi alla democrazia partecipata di popolo e per la capacità di contrasto alle forze sociali e politiche controrivoluzionarie, non attraverso la repressione aperta ma la democratizzazione sostanziale dello stato, attraverso la connessione stretta e parimenti la subordinazione delle forme storiche della democrazia rappresentativa e dello “stato di diritto” alle nuove forme di democrazia partecipata di popolo. Non è quindi un caso che la riflessione teorica delle sinistre latino-americane guardi molto, oltre che a Marx e alla tradizione di nazionalismo progressista e antimperialista o di guerra di popolo o di guerriglia propria di molti paesi, anche a Gramsci.

La lotta di classe dunque opportunamente alterna, nella prospettiva posta da Gramsci, momenti lunghi di dominante “guerra di posizione” e momenti brevi di dominante “guerra di movimento” (quelli di crisi acuta e di lotta direttamente per il potere o per tenerlo dinanzi a controrivoluzioni). Ciò rinvia, per quanto ci riguarda, alla questione del comportamento tattico in momenti (come per esempio l’attuale in Europa) di crisi acuta generale capitalistica senza però precipitazione rivoluzionaria, ma solo tendenza a incrementi di mobilitazione sociale (di classe, a difesa dei servizi pubblici, contro le devastazioni del territorio, ecc.). In questi momenti il tema strategico per i comunisti non può che essere quello, per il fatto stesso della crisi, della rivoluzione; detto in termini più tranquilli e guardando a come siamo ridotti, esso non può che essere quello della ricostruzione o dell’espansione del radicamento sociale e dell’incremento della mobilitazione sociale, in termini più generali non può che essere quello della costruzione o ricostruzione di un “blocco storico” democratico critico del capitalismo. Ciò implica una conseguenza, in Italia ma anche in altri paesi europei: quella del “raddoppio” delle ragioni dell’inopportunità della cooperazione di governo con il centro liberista (intendo quest’inopportunità a livello statale: a livello locale residui di possibilità di cooperazione utile possono permanere). Infatti se “prima” c’era semplicemente da constatare che questa cooperazione non portava alcun vantaggio alla nostra gente e, in più, molto discredito a noi, “adesso” a ciò si aggiunge che questa cooperazione non può che andare in radicale controtendenza rispetto alle opportunità che ci vengono offerte dalla crisi, appunto di ricostruzione di un “blocco storico” ecc.

Concludo. Mi pare decisivo, nella prospettiva di una ricomposizione tra Rifondazione e PdCI, che si arrivi alla definizione unitaria di alcune ipotesi fondamentali su alcuni terreni, ponendo termine a condizioni di indeterminatezza delle posizioni o a oscillazioni da una posizione al suo contrario. Tutto quanto ci sollecita a ragionare sulla strategia della rivoluzione socialista in Italia (e in Europa) e sulle sue forme tattiche nei termini della più netta separazione rispetto al centro libe- rista (in concreto, al PD da noi e dalla socialdemocrazia altrove in Europa). In più al fatto che la collaborazione al centro liberista risulta rovinosa, materialmente per la nostra gente, politicamente per i comunisti, si aggiunge, specificamente in Italia, che questa collaborazione non risulta di nessun aiuto e anzi rende i comunisti non credibili sul terreno della stessa lotta a difesa della democrazia, dell’etica pubblica e dei diritti civili: essendo il PD subalterno persino al potere vaticano ed essendo stato coprotagonista fondamentale (in veste di DS e Margherita) di tutti quei durissimi attacchi di un ventennio o poco meno, avvenuti appunto nel quadro di un “riformismo” antisociale bipartizan di centro liberista più destra, che sono le modificazioni dei sistemi elettorali di tipo maggioritario e premiale, in vista di un sistema bipartitico della rappresentanza politica del popolo, lo svuotamento delle assemblee legiferative locali a vantaggio di sindaci e presidenti di giunte provinciali e regionali, la devastazione affaristica del territorio, la privatizzazione affaristica di acqua, servizi pubblici, servizi sociali, ecc. Tutto quanto, infine, ci sollecita a ragionare di una strategia in Italia (e, al tempo stesso, in Europa) che sappia dell’estrema complessità e la grande articolazione delle “fortezze” del dominio borghese, tutto ci sollecita la definizione di una forma rinnovata di socialismo, fondata sull’integrazione tra la sua forma storica, di tipo rappresentativo, e quella partecipata di popolo e sulla valorizzazione primaria di quest’ultima.

4. LA NOSTRA IRRISOLTA QUESTIONE MORALE

I fenomeni degenerativi che hanno attraversato la storia di Rifondazione (quanto meno) non sono in realtà una novità: essi invece esprimono, pur in forme in parte proprie, quella tendenza interna a un “rovesciamento strutturale” di tipo oligarchico e proprietario che è operante nel movimento operaio da poco oltre le origini e che è risultata pressoché sempre vincente. Questa storicità di questa degenerazione strutturale dichiara intanto la mancanza di nostri strumenti critici adeguati a coglierla e a impedirla, teorici, organizzativi e anche di natura etica; parimenti questa storicità dovrebbe oltremodo preoccuparci: ne va oggi della nostra stessa sopravvivenza (tale è ormai per alcuni partiti comunisti europei il suo effetto conclusivo), soprattutto ne va delle condizioni materiali, politiche, culturali e morali della nostra gente. Per chiarire: assegno a questa degenerazione strutturale ruolo di rilievo primario, pur senza la pretesa di facili generalizzazioni, nella determinazione di disastri storici come il passaggio della socialdemocrazia europea alla subalternità e, in tempi più recenti, a posizioni liberiste antisociali, la crisi e il tracollo dell’Unione Sovietica e, più in generale, del “socialismo reale” europeo, la distruzione del PCI. Guardando alla vicenda più recente del comunismo italiano vengono naturalmente da aggiungere a quest’elenco gli episodi della Sinistral’Arcobaleno, del golpe per sciogliere Rifondazione e della sua successiva scissione: se non venisse subito da citare Marx quando scrive come i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentino due volte, ma solo la prima come tragedia, la seconda invece come farsa. Tuttavia, purtroppo, le farse politiche sono spesso anch’esse tragedie. Il dolore, la demoralizzazione e la disorganizzazione recati alla nostra militanza e i danni recati alle vittime del capitalismo dalla crisi in cui è stata irresponsabilmente gettata in questi anni la sinistra comunista italiana non sono stati né saranno per un certo tempo ancora piccole cose.

Non che manchino le elaborazioni analitiche della questione, anzi ce ne sono molte. La prima in ordine di tempo, la più radicale, e per molti aspetti, a mio avviso, la più utile è quella di Michels. Studioso dapprima vicino alla socialdemocrazia (siamo agli inizi del Novecento), egli scrive come il movimento operaio, per affrontare i compiti estremamente complessi posti dalla sua espansione egemonica nella società, dalle sue stesse vittorie democratiche (quindi dalla sua entrata nelle istituzioni rappresentative e in quelle di governo locale dello stato) e dagli stessi risultati economici delle sue lotte di classe (salario medio stabilmente sopra quanto necessario alla riproduzione della forza lavoro, “stato sociale”), si fosse trovato nella necessità di disporre di specialisti, di varia competenza, come non avesse potuto fare a meno di reclutarli nei militanti provenienti dalle classi medie e dall’intellighenzia borghese e come questi specialisti (anche quando, successivamente, cominceranno a venire dalle classi subalterne) avessero in larga prevalenza teso a costituirsi in corpi separati, a verticalizzare e a burocratizzare i rapporti interni di partito, avendo elaborato attese di avanzamento di status e attivato comportamenti proprietari, e avendo di conseguenza preso a modello di una costruzione più complessa del partito lo stato borghese. Giova aggiungere come agli albori del movimento operaio questo processo abbia avuto a propria base oggettiva non solo la pressione dell’“esterno” culturale e morale capitalistico e, in specie, delle sue capacità di cattura ideologica (per esempio attraverso la sacralizzazione delle figure istituzionali e i loro privilegi materiali), ma anche la deprivazione cognitiva del proletariato di fabbrica e agricolo e cioè la sua bassissima o nulla scolarizzazione, perciò la sua difficoltà a formare dentro a sé gli specialisti di cui necessitava e la sua attitudine a deleghe fiduciarie acritiche a quadri dirigenti, figure d’apparato, rappresentanti istituzionali. Michels insiste molto su questi dati sociologici, giungerà così alla conclusione disperata che non ci sia niente da fare e cambierà radicalmente bandiera. Giova tuttavia rammentare come sin dai suoi albori il movimento operaio italiano (per esempio) avesse affrontato assai bene la complessità del terreno sociale e quella dei propri compiti, senza rinunciare alla sua struttura democratica, solidale e partecipata, perciò largamente affidandosi a quadri provenienti dalla propria base operaia e bracciantile: non è vero, quindi, che la bassa scolarizzazione o l’analfabetismo inibiscano in via assoluta la formazione nel proletariato di specialisti, magari nella forma, assai poco borghese, della costituzione per via pratica di capacità collettive di gestione dei vari punti della propria complessità. La degenerazione strutturale dei partiti del movimento operaio non è perciò un destino bensì solo un evento dotato di alte probabilità di riuscita.

Beninteso non sono mancati, nella sinistra del movimento operaio del tempo di Michels, tentativi teorici e pratico-organizzativi di contrasto a questa degenerazione. Essendo un tempo di ferro, rapidamente precipitato in una guerra mondiale, in una guerra civile di classe europea, in una rivoluzione socialista e in molte controrivoluzioni fasciste e semifasciste, queste risposte avvennero generalizzando la lunga esperienza della sinistra socialdemocratica russa sotto lo zarismo, dei quadri come “rivoluzionari di professione” e della forma militare della disciplina di partito. Questo processo fu pesantemente accentuato dal disgusto morale dinanzi agli sbandamenti e ai tradimenti della destra socialdemocratica e dalla lotta in Russia alla controrivoluzione. Tuttavia la militarizzazione rivelerà presto, assieme alla sua validità in contesti di “guerra di movimento”, i suoi limiti pesanti: nella tendenza alla precipitazione settaria dei partiti comunisti e in quella agli scontri feroci di fazione al loro interno: essendo proprio di un’etica militare che l’esplicitazione di un dissenso, anche ridotto, dentro alla sinistra come dentro al partito equivalga a un tradimento.

Questo ci rinvia ancora a Gramsci: ciò che egli teorizza in fatto di rivoluzione in Occidente (od, anche in Oriente, di transizione socialista) ha anche, infatti, un significato di contrasto etico sia alla degenerazione strutturale che al settarismo e al fazionalismo da militarizzazione .

I quadri e soprattutto i gruppi dirigenti di Rifondazione e del PdCI hanno dunque il dovere, secondo me, dinanzi alla nostra gente, così come dinanzi al centinaio di migliaia e più di nostre compagne e nostri compagni, persone straordinarie che, nonostante tutto, hanno continuato a tenere in piedi i due partiti, di un passo sostanziale in avanti verso un modo civile e democratico di essere partito: nel quale, perciò, la titolarità della selezione dei quadri dirigenti e delle rappresentanze istituzionali competano davvero al complesso della base militante, viga il rispetto anziché la punizione del dissenso, la verticalità interna risulti ridotta a un minimo funzionale, gli apparati facciano gli apparati, abbia termine ogni separatezza delle figure istituzionali, abbiano termine le lotte di potere, abbia termine l’abbandono della periferia militante al fai-da-te, cresca la capacità collettiva di resistere alle suggestioni a trasformarci anche noi in partito tinozza a gestione monarchica selezionata attraverso plebisciti orientati dai poteri massmediatici, ecc.

In ultimo. Questi doveri non riguardano solamente strutture e rapporti interni di partito: essi sono anche doveri che investono la qualità del rapporto alla nostra gente e costruiscono il grado di efficacia della nostra presenza nella società. Infatti tra la capacità di “tenere” strutture e rapporti interni di partito democratici, solidali e partecipati e la capacità di “tenere” ed espandere i rapporti alla nostra gente vige una connessione assai stretta.

Ancora Gramsci è in grado di orientarci verso una posizione efficace. Egli infatti è fondatore di un’etica critica di classe anche in via diretta. La base di quest’etica è quanto meno in due nozioni (che sono anche gnoseologiche e politiche) e nella loro correlazione: in quella di “prassi” (sociale) in quanto fondamento primario “totale” (cioè assai più di quanto non sia effettivamente in Marx) della ricerca teorico-strategica, e in quella di “connessione sentimentale” del partito alla propria gente. Se in Marx, voglio dire, il processo storico-sociale è mosso dalla sua natura dialettica (cioè dalla sua natura intimamente contraddittoria), quindi l’elemento dell’etica “riflette” il privilegio di classe dominante o l’antagonismo radicale di classe subalterna, in Gramsci (così come in Lenin, Trockij, Rosa Luxemburg, Lukács, Mao, ecc.: insomma nel comunismo novecentesco più fecondo) il processo storico-sociale (richiami più o meno ortodossi al materialismo storico o incertezze a parte) è mosso fondamentalmente dalla prassi di grandi “blocchi” di forze organizzate che sono al tempo stesso sociali, politici, culturali, morali.

Dobbiamo inoltre al filosofo della liberazione Dussel una riflessione (che parte non solo dall’etica solidale ed egualitaria delle comunità cristiane di base e da Marx ma anche da Gramsci) che pone la risposta etica alla degenerazione strutturale dei partiti del movimento operaio nel quadro generale della lotta di classe anticapitalistica contemporanea. Dussel pone infatti due istanze di moderno significato universale: quella della “materialità” e quella dell’“internità” del rapporto del partito alle “vittime” (tutte) del sistema dei rapporti sociali capitalistici (tutti, da quelli immediatamente essenziali al modo di produzione capitalistico a quelli collaterali o ereditati da antecedenze storiche). La “materialità” consiste nella rigorosa condivisione intellettuale e politica della condizione di queste vittime: quindi nella rigorosa condivisione pratica delle richieste di queste vittime, in primo luogo di quelle loro richieste che muovono dalle loro condizioni immediate. L’“internità”, a sua volta, è la condivisione soggettiva anche materiale, da parte dei militanti e segnatamente dei quadri di partito (e sindacali, di movimento, ecc.), della condizione delle vittime, in due sensi: primo, assumendo stili di vita sobri (non sto predicando un egualitarismo assoluto: ma certamente proponendo comportamenti orientati nel loro complesso dal primato della lotta per l’emancipazione delle “vittime” rispetto alle proprie attese individuali); secondo, come base della stessa ricerca teorica. L’internità infatti risulta indispensabile alla comprensione piena della materialità concreta della condizione della nostra gente, quindi dei suoi vissuti rispetto a ogni questione, inoltre lo è alla comprensione della realtà sociale nella sua effettiva totalità e reale complessità, al fatto perciò di riuscire a sapere anche ciò che la scienza accademica e i poteri massmediatici ignorano, tacciono, alterano, mistificano, al fatto di riuscire così a disporre di un’effettiva capacità critica globale dell’esistente capitalistico.

La ricomposizione dei comunisti non penso che possa prescindere dal fare comunemente propria l’istanza di un cambiamento effettivamente democratico della struttura e dei rapporti interni di partito così come l’istanza di un ritorno sostanziale alla nostra gente; e dunque prescindere dal fare proprio l’obiettivo della ricostruzione di un’etica della responsabilità dei quadri e dei gruppi dirigenti. Non c’è, altrimenti, alcuna possibilità, se non settaria e marginale, di sopravvivenza politica, né c’è, di ridare dignità, dopo tante sconfitte e tanti sbandamenti, alla nostra stessa vita di militanti rivoluzionari.