Congresso subito

Andiamo all’essenza delle cose. Abbiamo assistito al fallimento completo del governo Prodi e all’altrettanto completo fallimento – lo diciamo da dirigenti del Partito della Rifondazione Comunista – dell’esperienza del Prc all’interno di tale governo.
Sui temi della pace, del disarmo, della redistribuzione del reddito, dei diritti sociali e civili nulla è stato ottenuto. In compenso, il nostro Partito si è dissanguato, in quell’esperienza di governo ha mutato se stesso, ha compromesso i rapporti con i movimenti e con il movimento operaio complessivo, pagando anche un prezzo notevole sul piano dell’organizzazione e della tenuta interna. Oggi, nei circoli, nelle federazioni, non tira certo un’aria di entusiasmo: piuttosto un’aria dimessa, di smobilitazione, di sconcerto, di disaffezione. Un’aria di sospensione: che cosa abbiamo fatto? Chi siamo? Chi saremo domani?
Al fallimento – che è stato il fallimento dell’esperienza governativa, ma ancor più il fallimento profondo di un’intera linea politica, quella discendente dal Congresso di Venezia – il gruppo dirigente del Prc ha risposto essenzialmente in tre modi: primo, rimuovendo le basi materiali della sconfitta; secondo, accelerando il processo di cancellazione della natura comunista del nostro Partito; terzo, imprimendo un giro di vite antidemocratico interno che non evoca certo i migliori momenti della storia del movimento comunista, né quel partito “antistalinista” e democratico tanto sbandierato dalla “innovazione” bertinottiana.
Per ciò che riguarda le ragioni della sconfitta, il gruppo dirigente del Prc ha assunto buona parte della griglia interpretativa di Prodi: essa troverebbe le sue basi materiali nel tradimento dell’ala moderata dell’Unione (Dini, Mastella…) e nel fatto che i poteri forti si sarebbero scatenati nel momento in cui il governo si stava preparando al “risarcimento sociale”. Vi è poi un punto analitico, espresso inizialmente da Giovanni Russo Spena e poi ripreso da diversi altri, secondo il quale una causa determinante della sconfitta risiederebbe nel fatto che il governo sarebbe stato impermeabile ai movimenti, nel senso che non si sarebbe fatto spingere a sinistra da essi.
Il primo di questi argomenti (il tradimento dell’ala moderata dell’Unione) è un argomento di tipo essenzialmente sovrastrutturale e politicista: la composizione politica (persino ideologica) dell’Unione si conosceva benissimo e si conoscevano bene i suoi limiti programmatici. Furono questi limiti a spingere una vasta minoranza interna al Prc, al Congresso di Venezia, a battersi contro la linea governista scelta in modo aprioristico dalla maggioranza. Pretendere da Dini e Padoa Schioppa – anche nell’ultima fase del governo Prodi – politiche redistributive volte a colpire i profitti premiando i salari sarebbe stato come chiedere a Parisi e Rutelli di portar via le truppe italiane dall’ Afghanistan: contraddizioni in termini.
Per ciò che riguarda il fatto che il governo sarebbe stato fatto cadere dai poteri forti poiché ormai prossimo al cambiamento di marcia e al risarcimento sociale: non c’è un segno concreto, uno che sia uno, a deporre a favore di questa ipotesi. Il governo, prima di cadere, aveva da poco licenziato il nefasto Protocollo del 23 luglio, affossando con esso ogni lotta alla precarietà, e si apprestava a gestire una stagione contrattuale all’insegna della centralità del rilancio dell’impresa e non certo volta ad adeguare stipendi e salari al costo reale della vita. Mentre sul piano internazionale si accingeva a prorogare le guerre internazionali, a rilanciare le spese militari (come dimostrato dall’ attività della Commissione Difesa al Senato successiva alla stessa caduta del governo Prodi) e a riconoscere l’indipendenza del Kosovo.
L’argomento sollevato, a mo’ di prudente autocritica, da una parte del gruppo dirigente del Prc (impermeabilità del governo ai movimenti) è, dal nostro punto di vista, particolarmente debole. Il punto non è che il governo sia stato impermeabile ai movimenti, il punto è che le politiche concrete hanno scavato un solco profondo tra governo e movimenti, sino al punto che ben presto è caduta la non del tutto onesta illusione bertinottiana secondo la quale i movimenti avrebbero spinto a sinistra l’asse governativo. Ciò che è accaduto è che i movimenti di lotta – da quello di Genova ai metalmeccanici, sino al movimento contro la guerra – si sono trovati nella condizione di essere dall’altra parte della barricata, rispetto al governo Prodi, e non più compagni di strada. La verità è che il gruppo dirigente del Prc ha operato, per ciò che riguarda le cause della sconfitta, una rimozione profonda, ha voluto cioè dimenticare di analizzare la fase generale nella quale è avvenuta l’esperienza governativa. Ha rimosso, in modo idealista, i dati più concreti e strutturali.
L’entrata del Prc al governo è avvenuta in una fase che potremmo seriamente definire come quella della competizione globale. Siamo di fronte ad una acutizzazione del conflitto politico ed economico, a livello internazionale, tra poli imperialisti e capitalisti, una lotta molto dura per la conquista dei mercati. Le vaste frazioni capitaliste oggi egemoni – anche in Italia – intravedono una sola via per sconfiggere la concorrenza: abbattere il costo delle merci riducendo drasticamente salari, diritti e stato sociale. In quest’ottica esse non contemplano – oggi – nessuna possibilità di compromesso con il mondo del lavoro, nessuna soluzione redistributiva di tipo socialdemocratico. La redistribuzione del reddito non è appesa al ramo della fase come un frutto spontaneamente maturato, che attende solo di essere colto. Quel frutto, semplicemente, non c’è. Il governo Prodi, se intendeva cogliere il frutto della redistribuzione, doveva navigare, rispetto alla fase data, in netta controtendenza (che, fuor di metafora, vuol solo dire fare un po’ male ai padroni). Non lo ha fatto e, per sua natura, non poteva farlo. Sta qui il punto strutturale più significativo, che ci porta giocoforza alla domanda centrale: vi erano le condizioni oggettive, per i comunisti, per entrare nel governo Prodi? E ancor più: vi erano le condizioni per restarvi? O non era il caso – dopo l’ Afghanistan, dopo Vicenza, dopo lo scudo stellare, dopo il Kosovo, dopo le politiche di destra sulla “sicurezza”, dopo la rinuncia ai diritti civili e rispetto alla volontà ferrea da parte del governo Prodi di ritenere immodificabile il Protocollo del 23 luglio – di ritirare la delegazione del Prc dal governo?
Così, in verità, si doveva fare, da comunisti: rompere, almeno a partire dal voto sul Protocollo, la complicità con un governo incapace di conquistare un’autonomia dalle strategie imperialiste degli USA e della NATO e con politiche economiche ormai essenzialmente liberiste.
Altri dati strutturali sono stati rimossi nell’analisi del Prc sulla fase: i rapporti di forza sociali in Italia, molto sfavorevoli al movimento operaio complessivo, e la generale pulsione neocentrista emanata in area Ue dal costituendo neoimperialismo europeo. Due questioni non da poco. Sulla base materiale di rapporti di forza sociali così sfavorevoli ai lavoratori vi è il rischio, incentrando la battaglia essenzialmente sul terreno istituzionale, di scivolare – più o meno inavvertitamente – nel cretinismo parlamentare, aggravando vieppiù le condizioni di vita dei lavoratori, dei precari, dei pensionati, dei giovani senza lavoro, rafforzando il potere dei padroni.
La profonda pulsione politica e culturale neocentrista che prende forma in tanta parte dell’Ue, dettata dalla forza egemone del capitale economico e finanziario transnazionale e funzionale alla costituzione del neoimperialismo europeo, è ormai ben più che un moto carsico e segna di sé – oltre che le forze più esplicitamente liberiste – gran parte di quelle forze politiche che possono essere ricondotte ad una sorta di centro-sinistra europeo. Le forze moderate del governo Prodi non sono sfuggite a quest’attrazione egemonica e il Prc non ha saputo e non ha più potuto – in virtù della sua nuova natura politica – fare i conti con queste contraddizioni, a partire dalla subordinazione ai vincoli di Maastricht e alla mitologia del risanamento finanziario imposta dalla Banca centrale europea.
Come dovrebbe porsi una forza di classe, anticapitalista, comunista in questa fase di fronte alle contraddizioni aperte dalla competizione globale e di fronte all’attacco del capitale? Non ci sono dubbi: dovrebbe rinunciare, non per massimalismo ma per una analisi concreta della situazione concreta, alle illusioni istituzionaliste e mettersi invece alla testa di un nuovo – e probabilmente non breve – ciclo di lotte sociali, con l’obiettivo primario di mutare i rapporti di forza sociali e spuntare le unghie ai padroni. Vorrebbe dire, innanzitutto, dedicarsi alla costruzione e al rafforzamento del Partito comunista come cuore pulsante ed unitario di un più vasto schieramento di lotta antiliberista, anticapitalista, antimperialista.
Cosa ha invece scelto il gruppo dirigente del Prc dopo il fallimento del governo Prodi? Dopo il proprio fallimento? Ha scelto di velocizzare il processo di superamento dell’autonomia comunista e anticapitalista per immergersi nella costruzione di un nuovo e non meglio identificato “soggetto di sinistra”: La Sinistra – L’Arcobaleno. Un soggetto che nasce come prodotto finale del lungo processo di decomunistizzazione bertinottiana, ma che va prendendo oggi, incentrandosi sulla Sinistra Democratica, la sua forma più compiuta, in senso moderato ed essenzialmente socialdemocratico.
La cancellazione del partito comunista è, insieme, l’esito più funzionale alla fase d’attacco del capitale e quello più deleterio per gli interessi delle classi subordinate. E tale cancellazione ha una sorta di armonia interna: essa rappresenta uno strappo così violento nella storia del movimento operaio italiano che per avverarsi ha bisogno di altrettanta violenza antidemocratica: la cancellazione viene decisa da un gruppo dirigente ristrettissimo che tacita ed emargina completamente ottantamila iscritti al Partito.
Il giro di vite interno al Prc, volto al superamento dell’autonomia comunista, è costituito, a ben riflettere, da una lunga ed incredibile teoria di soprusi: si costituisce La Sinistra – L’Arcobaleno senza una minima discussione nei circoli e nelle federazioni (riprendendo per la verità uno schema verticistico già utilizzato – con gli esiti che sono sotto gli occhi di tutti – per la costruzione della Sinistra Europea e dell’Unione); nello stesso modo si cancellano i nostri simboli: la falce e il martello; si evita ogni minima consultazione nella base del Partito relativa all’esperienza nel governo Prodi; si avvia il tesseramento per il nuovo soggetto politico ( le tessere Arcobaleno stanno arrivando alle Federazioni proprio durante questa campagna elettorale: bel gesto per rafforzare l’animo dei militanti comunisti e spingerli nelle piazze e nei quartieri!); si sospende (sino a quando ?) il Congresso nazionale e si punisce una minoranza interna (quella de l’er – nesto) attraverso una inedita quanto vergognosa e pericolosa teorizzazione antidemocratica: vi sarebbero minoranze “dialettiche” che possono essere premiate e minoranze “d’opposizione” (in quanto si oppongono alla liquidazione del Prc ) che possono essere umiliate ed emarginate.
Siamo in campagna elettorale, e i compagni e le compagne de l’ernesto, per il loro Partito e per la sinistra, faranno la loro parte. Poi, questo stato di cose, questa sospensione della democrazia interna, non saranno più tollerabili. Chi vuole cancellare il partito comunista non potrà più raccontare favole: dovrà dirlo. E chi vuole rilanciare l’autonomia comunista dovrà battersi. Questa ipocrisia sospesa nel vuoto è perniciosa per tutti. Occorre decidere. Dopo le elezioni non si potrà più menare il can per l’aia : occorrerà il Congresso. E se non lo deciderà il gruppo dirigente nazionale dovranno imporlo gli iscritti. E’ ora di finirla. La parola alle compagne e ai compagni. Congresso subito!