Congresso PRC, governo e identità comunista

Siamo un paese in guerra, se mai qualcuno lo avesse dimenticato; siamo di fronte ad una violazione grave dell’articolo 11 della Costituzione, e il governo Berlusconi – dopo il voto in Iraq – decide l’invio a Nassirya degli elicotteri d’attacco “Mangusta”, chiedendo all’Unione europea che l’aumento delle spese militari non sia conteggiato nel Patto di Stabilità. Il “nostro” è un esercito di occupazione, al seguito di una delle più feroci aggressioni di tutto il secondo dopoguerra. Le truppe italiane sono in Iraq al servizio di un’invasione imperialista – non imperiale, poiché su questa guerra vi sono state e permangono contraddizioni profonde tra gli stati imperialisti – sfacciatamente volta (ora che ogni alibi è caduto e anche gli ultimi osservatori americani in cerca di armi di distruzione di massa irachene si sono desolatamente ritirati) al controllo del petrolio, al dominio geopolitico dell’area, all’accumulazione di forze belliche per rilanciare altre guerre in quella zona e guerre strategiche in altre lontane aree.
Le elezioni in Iraq, prive di ogni legittimazione democratica, non mutano di un nulla il ruolo aggressivo e colonialista del governo italiano. Relativamente alla supposta validità democratica delle elezioni irachene, ha affermato, su l’Unità del 2 febbraio, Giuletto Chiesa (europarlamentare, uno dei pochi testimoni diretti delle elezioni in Iraq ) : “ E’ una sciocchezza clamorosa, tutta propagandistica, che era del resto largamente prevedibile alla luce di come era stato preparato il tutto…queste elezioni sono state organizzate non perché gli iracheni facessero da sé ma perché l’occupazione militare americana, britannica e italiana venisse legittimata da un voto popolare”.
Peraltro, in risposta a ciò che si è detto anche a sinistra e cioè che le elezioni irachene non sarebbero state una farsa ma avrebbero aperto uno spiraglio tra guerra e terrorismo, valgono come risposta le parole di Luciana Castellina ( il Manifesto, venerdì 4 febbraio) : “ La difficoltà della fase che si apre è grande. E bisogna tener conto che se in qualche modo si legittima Allawi si potrebbe finire per dover accettare la sua richiesta: che americani e alleati restino accampati nel Paese, a salvaguardia dei pozzi”.
Al di là della retorica della libertà portata dall’esterno con la quale Bush e Berlusconi le hanno subito commentate, ciò che rimane è la dura realtà delle cose: si è votato in un paese in guerra e sotto il dominio militare degli eserciti occupanti; il presidente Ghazi al Yawar ha (simbolicamente) votato non sul suolo iracheno ma all’interno dell’ambasciata americana; ha partecipato al voto il 57% dei cittadini iscritti alle liste elettorali e, seppure difficilmente quantificabile, appare molto vasta l’area dei non iscritti. Ciò che si sa è che nelle regioni centrali irachene, le più popolose, molto bassa – come peraltro a Baghdad e specificatamente in tutti i suoi quartieri popolari – è stata l’affluenza; che a Mosul e Baquba gli uffici elettorali sono andati deserti; che a Samarra solo 1.400 dei 200.000 abitanti sono andati a votare, e che tutto ciò ha fatto dire a Salim Lone (collaboratore dell’ex rappresentante speciale dell’Onu in Iraq, Sergio Vieira de Mello) che “se queste elezioni si fossero tenute, con queste modalità, nello Zimbabwe o in Siria, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non avrebbero indugiato nel denunciarle”. E certo non depone a favore di un processo di democratizzazione e autonomia irachena il quadro politico e sociale entro il quale le elezioni si sono tenute: un quadro pianificato dagli USA e dalla “banda dei sei” fedeli esecutori dei disegni di Washington (da Iyad Allawi ad Ahmed Chalabi) e segnato dalla rottura con tutte le forze della Resistenza e con i settori politici, religiosi ed etnici contrari all’occupazione; dalla rottura con le forze sunnite (che non hanno partecipato al voto) e dal conseguente tentativo di “balcanizzazione” e “de-arabizzazione” irachena, con l’obiettivo di un Iraq finalmente sottomesso e filo occidentale.

Truppe italiane
e Resistenza irachena

I soldati italiani a Nassirya non edificano scuole: combattono. Per appoggiare l’attacco delle truppe portoghesi contro gli uomini di Al Sadr ha perso la vita, in questo fine gennaio, il maresciallo Simone Cola. Per le guerre dei padroni soffrono, come è sempre stato, i popoli e le famiglie, e i giovani divengono carne da macello.
I nostri soldati sono oggi coinvolti in quell’assassinio di massa anglo-americano che dura, ininterrottamente, da quasi un quindicennio, ha distrutto un intero e incolpevole paese, ha massacrato un popolo, ha provocato la morte (ricordarlo non basta mai) di oltre mezzo milione di bambini con un embargo voluto dagli USA e che si è allargato anche alle medicine più elementari. Partecipi, queste “nostre truppe umanitarie”, della repressione – giunta all’inaudita ferocia americana di Falluja – contro la Resistenza irachena, una Resistenza di popolo e di massa che oggi lotta anche per ogni altro paese e popolo – a cominciare da quelli di Cuba, del Venezuela e dell’Iran – minacciati nella loro indipendenza e autodeterminazione dall’imperialismo americano. Una Resistenza irachena che meriterebbe ben più – specie da parte dei comunisti – di un’algida vivisezione volta a rilasciarle o meno la stessa patente di Resistenza. Per il modo in cui si oppone, da sola, al più grande esercito del pianeta e ai suoi alleati, per ciò che fa per il proprio popolo e per la fiducia che infonde a tutte le lotte antimperialiste e di liberazione, essa meriterebbe una ben più vasta solidarietà e non la fredda e indagatrice attenzione che anche in settori della sinistra le si riserva.
Ciò che certo non merita sono le parole che Fassino ha pronunciato al Congresso nazionale dei DS : “ I resistenti sono solo coloro che in Iraq hanno votato”.

Dopo la Jugoslavia e l’Afghanistan, ora l’Iraq: mentre la politica italiana svela, sempre più coerentemente, il suo carattere neoimperialista, il movimento per la pace, dopo le grandi lotte, oggi è in evidente difficoltà. Mentre Bush, sostenuto dal keynesismo di guerra e dalla “teologia della restaurazione”, minaccia l’intero pianeta; mentre prosegue, in modo tanto pericoloso quanto censurato o sottovalutato, il processo di riarmo nucleare su scala mondiale; mentre lo stesso Ted Kennedy, a poche ore dal voto in Iraq, parla di “pericolo Vietnam” e chiede che gli USA lascino il territorio iracheno, le poche bandiere arcobaleno rimaste alle finestre italiane sembrano scucirsi e sbiancarsi.Non è possibile non partire da qui, da questa fase di debolezza del movimento per la pace, dallo scarso, insufficiente impegno delle forze di centrosinistra e di sinistra nella lotta contro la guerra, dalla mancata popolarizzazione della parola d’ordine “ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq”, per affrontare la questione del centrosinistra, della politica delle alleanze, del dopo (se vi sarà) Berlusconi.

La destra al governo

La destra che ci governa costituisce il più pericoloso quadro politico e sociale della storia post-fascista: dalle leggi da repubblica delle banane a favore della famiglia Berlusconi, all’attacco alla Costituzione, alla magistratura e alle istituzioni democratiche, passando per la servile subordinazione alle politiche imperialiste degli USA e della Nato ed alla distruzione dello Stato sociale e dei diritti dei lavoratori, questa destra ha proposto e praticato un liberismo selvaggio venato di populismo che mai s’era visto nell’era democristiana. Il vero e proprio “orrore sociale” insito nella Legge 30 è, di per sé, paradigmatico di tale politica. Come le ultime affermazioni di Berlusconi circa l’eventuale vittoria delle sinistre (“portatrici di miseria, terrore e morte”) sono emblematiche dello spregiudicato e cinico azzardo populista che segna la tattica politica e mediatica del capo del governo.
Sul piano sociale la situazione non è certo migliore. La precarizzazione dilaga sino a divenire un male sociale assoluto, sotto il cui carico si piegano le giovani generazioni. I salari e gli stipendi sono così bassi che milioni di famiglie italiane non giungono più alla quarta settimana. Si restringono i consumi, aumentano le difficoltà nel far fronte alle scadenze e ai problemi più correnti: pagare le bollette, una prestazione sanitaria, l’affitto o il mutuo per la casa. I casi di “bancomat” ritirati dalle banche ai lavoratori che vanno “in rosso” e non riescono più a rientrare nel fido si vanno moltiplicando (dati Confindustria) in tante regioni d’Italia. Aumentano di giorno in giorno da parte dei lavoratori dipendenti le richieste di piccoli mutui (con alti tassi) a banche o a finanziarie private. Si allarga l’area della povertà su scala nazionale, mentre nel Meridione – di fronte all’acuirsi delle contraddizioni sociali e al non casuale rafforzamento in questa fase del dominio mafioso – l’unica proposta che si avanza è la costruzione (da Mani sulla città) del Ponte sullo Stretto.
In questo contesto, raccogliere e saper interpretare quel sentimento popolare che chiede di battere le destre e di cacciare Berlusconi è, per i comunisti, prioritario.
Saremmo aristocratici e massimalisti, non comunisti, se non fossimo in grado di ascoltare questo vero e proprio grido di dolore sociale. I compagni e le compagne già “emendatari” al V Congresso, e che oggi si ritrovano nel documento Essere comunisti, avevano già in quel Congresso posto la questione di battere le destre con un nuovo ciclo di lotte sociali e popolari, volte a cambiare i rapporti di forza sociali sulla cui base costruire alleanze politiche e di movimento con obiettivi avanzati. Finendo. per queste loro posizioni e per essersi posti il problema di battere le destre, con l’essere definiti “l’ala moderata del partito”, gli “alleantisti”, i “frontisti” e persino “il piombo nelle ali”. Ci piacerebbe sapere, su questo metro di misura, come dovrebbe essere definita, oggi, la linea di maggioranza del Prc.

Il cambiamento di linea

Quel che poi è accaduto è, politicamente, perlomeno inconsueto. La linea politica nazionale del Prc è, appunto, radicalmente cambiata. E senza la necessaria discussione interna, un problema di democrazia che si è aggiunto ad altri e che certo non ha contribuito a risolvere il problema della scarsa partecipazione degli iscritti e dei militanti alla formulazione della linea e alle decisioni da prendere.
La nuova linea politica assume, innanzitutto e giustamente, l’obiettivo di costruire un’alternativa al governo Berlusconi-Fini. Ma tale linea, eludendo i decisivi passaggi politici e sociali intermedi che dovrebbero portare ad un governo di alternativa (conquista di un programma avanzato, lotte di massa volte al cambiamento dei rapporti di forza sociali), corre il rischio di esaurirsi in un’unica scelta: l’ingresso del Prc nel governo di centrosinistra.
Tale ipotesi – non più nascosta ed anzi palesemente manifestata su tutta la stampa italiana – viene sostenuta da parte della maggioranza del Prc con due fondamentali argomentazioni. In primo luogo: in questi anni il movimento dei movimenti avrebbe talmente spostato a sinistra l’asse politico e sociale generale e fatto esplodere nella sinistra moderata così tante e positive contraddizioni, da permetterci appunto l’entrata in un governo di centro-sinistra. Secondo, l’obiettivo dei punti programmatici irrinunciabili non sarebbe più prioritario (e dunque si potrebbe andare al governo anche senza di essi) in virtù del fatto che sarebbe poi compito del movimento spostare a sinistra l’asse generale del governo.
Riconosciamo il grande ruolo svolto in questi anni dal movimento dei movimenti, da Genova alle lotte della FIOM, passando per le grandi iniziative del movimento per la pace. Tuttavia, avremmo poco senso della realtà se oggi non vedessimo che la fase – internazionale e nazionale – è tuttora segnata da un’egemonia dettata dall’ala guerrafondaia e iperliberista dell’imperialismo. Si tratta di un’egemonia che ancora non trova – dopo la scomparsa dell’URSS e pur di fronte a già significative contraddizioni interimperialistiche e l’emergere di nuove grandi aree non subordinate e anzi già antagoniste agli USA – soggetti statuali e sociali in grado di esprimere quella forza di contrappeso agli USA che prioritariamente servirebbe per una nuova correlazione di forze a livello internazionale a favore dei popoli, del movimento operaio mondiale e della pace. Il movimento dei movimenti ha fatto e messo in campo molto, ma ciò non è bastato, in Italia e in Europa, ad incrinare significativamente il dominio capitalista. Dov’è, dunque, questo spostamento generale a sinistra che oggi ci dovrebbe indurre – anche senza punti programmatici chiari – ad entrare in un governo di centro-sinistra?

L’egemonia capitalista

Se ci atteniamo alla dura realtà dei fatti, la situazione internazionale (seppur modificata in senso positivo rispetto ai primi anni ’90 da significative vittorie, resistenze e crescite politiche, economiche e militari antagoniste all’imperialismo che hanno preso corpo in aree extraeuropee del mondo, a partire dal Venezuela di Hugo Chavez) è ancora segnata dall’egemonia americana: Bush vince di nuovo negli Stati Uniti, e nel suo giuramento per l’insediamento afferma che tutte le “tirannie”, a cominciare da quella dell’ Iran, sono già sotto l’attenzione militare USA. In occasione del giuramento, Bob Woodward da Washington ha osservato: “Per il vice presidente Dick Cheney la presidenza ha finalmente recuperato il suo pieno potere, che era stato menomato sulla scia della guerra del Vietnam e del Watergate”.
Contro questa pulsione bellica, né negli USA né in Europa né in Italia sembra oggi potersi opporre un movimento contro la guerra all’altezza del pericolo. Specie in Italia, particolarmente astratta sembra essere l’iniziativa politica del centrosinistra e della sinistra, che sembrano molto più dediti ad una discussione sul loro nome (Ulivo? Fed? Gad?) che alla messa in campo di un movimento per la pace avente come prima parola d’ordine il “ritiro immediato delle truppe italiane dall’ Iraq” e alla definizione di punti programmatici per l’alternativa.
La stessa prima reazione del centro sinistra alle elezioni irachene – caratterizzata dalla piena legittimazione di esse da parte di Rutelli, Fassino e dalla generica, ambigua richiesta di sostituzione delle truppe di occupazione con truppe multinazionali (di quali paesi, con quali obiettivi?) – non depone certo a favore di una linea politica che rilanci le parole d’ordine più urgenti: “l’Iraq agli iracheni” e “ritiro immediato delle truppe italiane dall’ Iraq”.
Proprio il centro sinistra italiano non sembra davvero essere stato positivamente influenzato dai movimenti. Il Congresso dei DS ha visto la netta vittoria della sua ala liberal (Fassino, all’80%); gli unici riferimenti programmatici concretamente apparsi sono, sinora, un pamphlet di Romano Prodi (Europa: il sogno, le scelte) in cui si rivendica la giustezza dell’intervento contro la Jugoslavia e si ribadisce l’immodificabilità della stretta alleanza transatlantica con gli USA e con la NATO; il documento Amato per le liste “uniti nell’Ulivo” (dove si rilanciano le tradizionali tesi liberiste e privatizzatrici dell’ex testa d’uovo di Bettino Craxi); i 14 punti programmatici di Rutelli, tra i quali spuntano “l’amicizia con gli USA”, “uno Stato sociale rinnovato che assegni un ruolo centrale alla famiglia”, la valorizzazione della scuola privata, la centralità della concorrenza, e dai quali non emerge nessuna parola sulla guerra in Iraq e sul ritiro delle truppe italiane, sulla necessità di abrogare le leggi vergogna di Berlusconi e sulla questione sociale. In verità i 14 punti di Rutelli sono una riproposizione secca delle politiche del centro-sinistra degli anni ‘90, di un’impianto alla Tony Blair che non per niente ha attirato l’attenzione del centro-destra, che non ha indugiato (specie dopo “la condanna” da parte di Rutelli anche della socialdemocrazia) a chiedere al leader della Margherita, per bocca dello stesso Berlusconi, di cambiare Polo.
Tanto lunga quanto preoccupante sarebbe poi la lista delle posizioni pubbliche assunte, solo negli ultimi tempi, dall’Ulivo. Scrive ad esempio Fassino sul Corriere della Sera del 10 gennaio, in un articolo che spiega la politica estera della GAD: “Il centro-sinistra ha già dimostrato di saper assumere la difficile responsabilità di intervenire con soldati italiani in crisi internazionali. Ricordo che tra il ’96 e il 2001 oltre 10 mila soldati italiani sono stati inviati in Bosnia, Albania, Croazia, Macedonia, Kosovo, Timor Est e Medio Oriente. E nel 2001 e 2002 abbiamo condiviso la partecipazione italiana all’intervento della coalizione contro il terrorismo in Afghanistan… A questo stesso atteggiamento ispireremo la nostra condotta anche in futuro, sottoponendo al parlamento decisioni impegnative e difficili; anche quando non fossero popolari, ma corrispondessero in ogni caso agli interessi di sicurezza, stabilità e libertà del nostro Paese, dell’ Europa e del mondo… Le relazioni tra Europa e America: noi muoviamo dalla convinzione che il rapporto transatlantico sia oggi essenziale non meno di quanto lo sia stato nell’era bipolare…”
“Interessante” è anche l’intervista rilasciata da D’Alema il 7 dicembre scorso al Corriere della Sera sulla questione della legge elettorale. D’Alema è molto chiaro: “Ora occorre cambiare la legge elettorale. Serve molto più maggioritario. Per le politiche eliminerei la quota proporzionale del 25% e introdurrei il doppio turno…” La lista potrebbe oltremodo allungarsi. Ricordiamo solo le posizioni assunte dal diessino Rossi sul taglio delle pensioni, volte nell’essenza a comprenderne i motivi, o la sacralizzazione, da parte di Prodi, del Patto di Stabilità, vero e proprio cavallo d Troia, così com’è, di ogni politica liberista e diretta all’abbattimento dello Stato sociale (col rischio di lasciare che sia la destra populista l’unica forza a mettere in discussione, raccogliendone consenso elettorale, i meccanismi antisociali del Patto di Stabilità).
La ciliegina acida su questa torta di un centro-sinistra, già di per sé non particolarmente invitante, è rappresentata dall’odierno tentativo della GAD di allargare l’alleanza ai radicali di Marco Pannella. Non si può non ricordare come il partito radicale sia stato, in questi anni, sempre al fianco di Bush e delle politiche guerrafondaie americane, come non si può non ricordare che, sul piano economico, si è caratterizzato per una scelta ferocemente liberista e antioperaia, sino alla promozione e all’organizzazione – con l’aiuto economico della Confindustria – di un referendum per l’abolizione dell’articolo 18.

La questione programmatica

Il primo argomento assunto dalla maggioranza del Prc per l’entrata al governo (“vi è stata una svolta a sinistra”, “è cambiato il vento”) appare, dunque, particolarmente fragile. Come altrettanto fragile appare il secondo (“entriamo, poi il movimento sposterà l’asse a sinistra”). Dov’è il movimento contro la guerra, ora? Con quali lotte di massa si è risposto al taglio delle pensioni, alla Legge 30, a tutta la politica antipopolare del governo Berlusconi? Perché dovremmo illuderci che improvvisamente, rispetto al centro sinistra, si potrà alzare un imponente movimento di lotta che sposti l’asse Rutelli-Mastella-Fassino a sinistra? Perché domani sì e ora no?
È per tutte queste ragioni che abbiamo posto, ostinatamente, la questione del programma.
Rifondazione comunista avrebbe dovuto porre da tempo, al tavolo programmatico dell’Ulivo e con l’Ulivo nelle piazze, la questione dei punti programmatici ineludibili per la costruzione di un governo di alternativa. Punti che non possono essere che questi: un no a ogni guerra, anche se “coperta” dall’ ONU; ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq; cancellazione di tutte le leggi vergogna di Berlusconi; abrogazione della Legge 30, della Bossi-Fini e della riforma Moratti; una legge per la reintroduzione di un meccanismo di scala mobile come parte della risoluzione della questione delle questioni, quella salariale; la legge sulla rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro; uno stop ai processi di privatizzazione e il rilancio dello Stato sociale; una nuova legge fiscale.
E’ciò che necessita, per segnare una svolta, rispetto alla distruzione dello stato sociale, al vero e proprio saccheggio subito da stipendi e salari negli ultimi quindici anni e al picco altissimo (il più alto nella storia della Repubblica) raggiunto in questo stesso quindicennio dai profitti dei gruppi capitalistici.
Quando nei Congressi di Circolo che si stanno tenendo per questo nostro VI Congresso critichiamo l’assenza di un programma per l’alternativa, i compagni che fanno riferimento alla prima mozione ci rispondono che nelle 15 Tesi i punti programmatici ci sono. Ma il punto è – rispondiamo – che alcuni di essi sono sì elencati, ma che a tale elenco non seguono i due argomenti politici decisivi. Primo, che le nostre proposte non debbono rimanere petizioni di principio (una sorta di nostri lustrini), ma debbono essere assunte come punti programmatici dalla coalizione. Secondo, che se esse non fossero assunte, il Prc non avrebbe alcun argomento razionale per entrare nel governo.

Il programma non è un feticcio. Esso è indispensabile (oltre, ovviamente, per ciò che rappresenta in sé, ossia una politica per gli interessi popolari) per altre tre questioni fondamentali.
Primo, la lotta da parte del nostro Partito per il programma avanzato trasformerebbe (parafrasando il Lenin che si batte contro le posizioni antiparlamentariste) il tavolo programmatico del centro-sinistra in una “cassa di risonanza della lotta di classe”, rafforzando conseguentemente i rapporti di massa del nostro Partito. In altre parole, i lavoratori capirebbero per cosa ci stiamo battendo; poiché così, in questo lungo ping-pong sul nome nuovo dell’Ulivo o sulla storia infinita delle primarie, il popolo di sinistra sta dimenticando per che cosa si dovrebbe andare al governo.
Secondo, la definizione di un programma avanzato e la sua popolarizzazione diverrebbero lo strumento decisivo per la trasformazione di quel sentimento popolare contro Berlusconi, che già esiste, in una passione popolare per l’alternativa. Finalmente si darebbe un senso al “dopo Berlusconi”, e il programma (una bandiera issata nella testa della gente) sarebbe l’elemento mobilitante e la base più sicura per la vittoria contro le destre, sinora molto incerta.
Terza questione.
La conquista del programma metterebbe il nostro Partito nelle condizioni tattiche e politiche più favorevoli: un nostro ingresso nel governo per respingere ogni guerra, per non essere subordinati all’imperialismo USA e alla NATO, per politiche popolari, sarebbe condivisa dal popolo di sinistra e dal movimento operaio. Nello stesso modo, qualora il programma fosse tradito e si rendesse inevitabile l’uscita dal governo da parte dei comunisti, la cosa sarebbe compresa e condivisa dalle masse popolari.
Il contrario sarebbe un dramma. Se entrassimo, come sembra sia disposta a fare la maggioranza del nostro Partito, in un esecutivo privo di punti di riferimento programmatici chiari, l’eventuale uscita dal governo da parte dei comunisti (rispetto alla più che prevedibile politica moderata di un centro-sinistra liberato persino da un impegno su punti di programma) sarebbe ben più difficilmente compresa dai lavoratori e dal popolo di sinistra. Per la seconda volta in pochi anni si correrebbe il rischio di farci percepire, dal nostro elettorato e ben oltre, come la forza che di nuovo favorirebbe il ritorno delle destre. Il rischio di un nostro crollo sarebbe alto.
Vi è inoltre un ulteriore punto legato all’esigenza del programma e dell’alternativa: se anche questa volta il governo del centro sinistra non mantenesse le aspettative della sua base sociale, si consumerebbe ancor più quel rapporto di fiducia che, sinora, ha premiato la sinistra forse oltre i suoi meriti, e si potrebbero creare le basi per una vittoria delle destre di lungo periodo.
In sintesi, occorre battersi per un programma avanzato. Se non si coglierà questo obiettivo, non si potrà entrare nel governo.

“Linea” e identità

Giudichiamo la linea che sulla questione del governo ha assunto la maggioranza sbagliata, e siamo preoccupati perché forse vi è un nesso tra tale linea e le diverse mutazioni teoriche e politiche assunte dal nostro Partito. Queste non sono poche, né di piccola entità. Si va dalla cancellazione della categoria di “imperialismo” (avvenuta già nello scorso Congresso) alla discutibilissima assunzione in toto della concezione della nonviolenza (attraverso la quale si rischia di rinunciare, politicamente e teoricamente, alla stessa emancipazione delle classi subordinate); si va dalle sbagliate posizioni assunte rispetto alla lotta di Liberazione (“la Resistenza angelizzata”)al freddo rapporto rispetto alla resistenza irachena; dalla netta presa di distanza dall’intero movimento comunista del ‘900 (cosa ben diversa dalla necessaria analisi critica), al giudizio liquidatorio espresso su Lenin, Togliatti e gli altri dirigenti ed intellettuali del movimento comunista (“morti, non solo fisicamente”); dal mancato pieno sostegno al popolo e al Partito comunista cubano (mai come oggi minacciati dagli USA) all’incongrua simpatia verso “Bad Godesberg”, la città tedesca ove nel 1958 la socialdemocrazia tedesca tenne il Congresso in cui affermava la propria rinuncia all’apporto teorico marxista; dalla rinuncia alla concezione gramsciana del Partito comunista quale “intellettuale collettivo”, alla stessa, strana concezione (non propriamente unitaria) secondo cui in un partito comunista si potrebbe governare anche col solo 51%.
In un recente articolo de Il Riformista (giornale vicino a D’Alema) si affermava senza indugi che “la nuova Rifondazione depurata culturalmente è il capitale più importante che Bertinotti porta in dote al centro-sinistra”.
È del tutto evidente che “depurata”, per Il Riformista, significa “decomunistizzata”.
In questo VI Congresso ci battiamo anche per questo: perché le illusioni de “Il Riformista” restino tali, per il rafforzamento di un Partito comunista rifondato, radicato nella società e nei luoghi di lavoro, democratico, unitario e dal carattere di massa.