Conflitto capitale-lavoro e unità di classe

Vogliamo intanto ringraziare Luigi Cavallaro e Giovanni Mazzetti per la loro “lettera”. La consideriamo – oltre che un importante contributo alla ricerca che da anni l’ernesto conduce intorno alle condizioni della ripresa del conflitto di classe e alle sue attuali caratteristiche – un segno di riconoscimento del nostro lavoro e, se possiamo dirlo, anche del loro personale coinvolgimento in esso. Ne siamo infinitamente lieti.
Con lo stesso spirito, aperto e costruttivo, che li ha indotti a scriverci, proviamo a chiarire il nostro punto di vista meglio di quanto non ci sia, forse, riuscito in precedenti occasioni e ancora negli emendamenti alle tesi congressuali sottoscritte dalla maggioranza del Cpn, ai quali Cavallaro e Mazzetti fanno riferimento.

1. Cominciamo dalla prima questione. Sostenere la persistenza della contraddizione capitale-lavoro e pensare di “riorganizzare le forme di lotta con una […] “ricomposizione della classe” implica davvero ignorare i “cambiamenti intervenuti” nei processi produttivi e nella configurazione delle soggettività sociali, e perdere di vista il fatto che le “difficoltà crescenti” incontrate dal capitale nella riproduzione del lavoro salariato sono un segno della sua crisi organica? Secondo noi no. Si può certo discutere sulla necessità di ribadire l’inconsistenza dell’idea – pure ampiamente recepita in tempi recenti – in base alla quale il “post-fordismo” avrebbe portato con sé la “fine del lavoro”. Ma che sulla perdurante centralità del conflitto tra capitale e lavoro occorra porre un forte accento (ben più forte di quello presente nelle tesi della maggioranza), di questo – tra tanti sconsiderati nuovismi – restiamo convinti, tanto più alla luce delle considerazioni svolte da Cavallaro e da Rossana Rossanda nei loro ultimi interventi sulla rivista del manifesto.
Insistere su questo tema non significa affatto, nelle nostre intenzioni, sottovalutare la crisi di espansività del capitale, la sua crescente incapacità – per riprendere parole di Mazzetti – di “mediare non contraddittoriamente tutte le possibili nuove dimensioni della produzione e della ricchezza umana”. Né tradisce una propensione nostalgica a “confermare un futuro positivo al lavoro salariato”. Più semplicemente, si tratta di tenere fermo l’assunto della potenzialità critica del lavoro salariato, inteso nel senso largo che oggi questa categoria assume a fronte della pervasività del rapporto capitalistico. Non vediamo perché a questa nostra insistenza dovrebbe inevitabilmente accompagnarsi una sottovalutazione dei “cambiamenti” verificatisi nei processi di produzione e nella forma delle soggettività. Qui sta un punto cruciale.
Tutta l’analisi critica dei processi riproduttivi implica la distinzione tra il piano delle forme apparenti e quello della logica costitutiva del modo di produzione: ferma restando quest’ultima (per cui continuiamo a riferire la valorizzazione del capitale alla sua relazione antagonistica con il lavoro vivo), quelle mutano in continuazione, registrando nel tempo anche profondi mutamenti sia nell’organizzazione dei processi, sia (e su questo torneremo) per quanto concerne la costituzione dei soggetti. Nella loro critica, Cavallaro e Mazzetti impiegano un termine preciso ma bisognoso di determinazione. Se per “essenza” si intende il dispositivo fondamentale della riproduzione allargata, allora in effetti pensiamo che sì, “nell’essenza, le cose stanno come prima”. Ma riteniamo che questo sia anche il loro punto di vista, ché altrimenti essi non potrebbero servirsi dell’impianto marxiano per descrivere il processo di accumulazione.
E veniamo alla questione della “ricomposizione della classe”. Certo evocare un obiettivo non basta nemmeno a indicare la via per raggiungerlo. Ma non saremmo certi né che affermarne l’urgenza sia superfluo (non è forse di moda denunciare il “continuismo” di chi sostiene che ricomporre l’area sociale sottoposta allo sfruttamento capitalistico resta un còmpito primario per un partito comunista?), né che farvi riferimento implichi per forza di cose ragionare in termini “meramente” ripropositivi. Altro è indicare un fine (in questo caso: diffondere la consapevolezza della comune subordinazione al comando capitalistico; per riprendere quanto si osservava poc’anzi: generalizzare la coscienza del fatto che, al di là delle molteplici forme della sua erogazione, tutto il lavoro vivo soggiace alla stessa essenziale condizione di sfruttamento); altro definire i mezzi – inevitabilmente mutevoli – idonei a perseguirlo. Del resto, non ha forse in mente un processo di ricomposizione anche Mazzetti quando (in un importante articolo apparso nel novembre del 2000 sulla rivista del manifesto) fa riferimento alla necessità di non assolutizzare i mutamenti intervenuti nei processi riproduttivi e nei rapporti sociali, e di non perdere di vista “gli elementi che, in continuità col passato, possono unificare gli avversari odierni del capitale”?
Ancora una volta, pensiamo che – al di là della rapidità e forse sommarietà di talune espressioni – anche su questo terreno ci muoviamo verso un obiettivo comune: quella costruzione di una soggettività conflittuale (antisistemica) alla quale Cavallaro e Mazzetti si riferiscono nella conclusione della loro “lettera”, quando scrivono che oggi còmpito primario di una forza comunista è operare affinché la consapevolezza delle potenzialità critiche immanenti nel grado di sviluppo raggiunto dalle forze produttive sociali divenga un “sapere socialmente condiviso”.

2. Questo accenno alla parte conclusiva dell’intervento di Cavallaro e Mazzetti ci porta all’altro ordine di questioni da essi sollevate, relative alle conseguenze “antropologiche”, sociali, economiche e politiche prodotte, nella seconda metà del secolo scorso, dallo sviluppo dei rapporti sociali mediati dallo Stato.
Nei confronti della interpretazione di questo processo fornita dai nostri interlocutori non abbiamo sostanziali ragioni di dissenso. Concordiamo anche con l’affermazione più impegnativa, secondo la quale – promuovendo il soddisfacimento dei “diritti sociali” e, di qui, il radicamento di una più ricca “rappresentazione di sé”, dei propri bisogni e delle proprie aspettative da parte degli individui – l’intervento dello Stato nel processo economico ha determinato il sorgere di relazioni che prefigurano una nuova formazione sociale. Anche riguardo a queste tematiche registriamo tuttavia una divergenza rispetto a quanto Cavallaro e Mazzetti sostengono.
Se abbiamo letto bene, i nostri interlocutori riconducono a una presunta sottovalutazione di questa dinamica storica la riaffermazione, nella tesi integrativa n. 39, della “centralità del movimento operaio”, formulazione nella quale per ciò stesso leggono la tendenza a riproporre “un’iconografia tipica del comunismo novecentesco”. Ci rendiamo conto della legittimità dell’ipotesi, ma vorremmo far presente che parlare di “movimento operaio” (e persino di “proletariato”) non significa necessariamente ignorare le trasformazioni intervenute nelle condizioni materiali del lavoro e nella struttura della soggettività. “Operaio”, nella lingua di Marx e del movimento comunista, vale “salariato” (Lohnarbeiter) e quest’ultimo termine rimanda, a sua volta, alla generale condizione di sottomissione al capitale, in qualsiasi forma essa si incarni. Che poi oggi, nelle nostre società, non si possa a rigore parlare di “proletariato”, questo fatto non sembra confutare tale impostazione, anzi pare avvalorarla, nella misura in cui di questa terminologia continuiamo comunque a fare uso in contesti discorsivi che, lungi dal trascurare i mutamenti in questione, al contrario li tematizzano. Non vi è dunque alcuna idealizzazione, da parte nostra, del “concetto di classe”. Ma su questo termine crediamo occorra evitare con cura ogni fraintendimento tra noi. Il riferimento alla classe sarebbe effettivamente, in tale contesto, un segno di sottovalutazione dei processi evocati da Cavallaro e Mazzetti (e della “idealizzazione” che essi giustamente rifiutano) ove questo concetto fosse definito in termini – per dirla con Gramsci e Lenin – “economico-corporativi” o “sindacalistici”. Ma il concetto di “classe” ripreso nella tesi in discussione non ha questa connotazione. Come l’idea di “movimento operaio”, esso non designa un soggetto determinato da specifiche funzioni nell’àmbito del processo di produzione immediato, bensì una soggettività sociale-politica, e precisamente l’intera area sociale sottomessa allo sfruttamento capitalistico nella misura in cui consegue una adeguata rappresentazione di sé, delle dinamiche riproduttive entro le quali vive e si modifica, dunque delle proprie potenzialità trasformative. In questo senso non diremmo che il soggetto che faticosamente prende forma sullo sfondo della crescita sociale verificatasi nel secondo Novecento “ha ormai rotto il guscio del rapporto di classe”. Al contrario, dentro tale rapporto, inteso in termini sociali-politici complessivi, questo soggetto sta con sempre maggiore radicalità via via che conquista consapevolezza del proprio ruolo nella riproduzione di una società fondata su basi antagonistiche. Giungiamo così, in chiusura, al tema politicamente cruciale del che fare? Giustamente Cavallaro e Mazzetti insistono sulla centralità del “riconoscimento”, da parte della collettività, delle forze produttive sociali come “forze proprie”. A ragione essi vedono in questa presa di coscienza la premessa del “rovesciamento della prassi”, cioè della concreta socializzazione delle forze produttive. Riteniamo anche noi che (a patto di non ridurre la questione a una prospettiva astrattamente pedagogica) la sfida consista nel sapere “far comprendere”, nel sapere “spiegare”, allo scopo di realizzare quel “mutamento di se stessi” senza il quale il possibile concreto non si traduce in realtà. Ma vorremmo a questo proposito porre una questione non di dettaglio. Se, come anche noi crediamo, il punto è questo, perché non tentare un passo ulteriore, non provare, insieme, a individuare anche le forme, i luoghi, gli strumenti di questa “spiegazione”, di questa imprescindibile pratica comunicativa?