Conflitto capitale-lavoro e movimento operaio

Entrambi nutriamo forti perplessità sulle tesi congressuali presentate dalla maggioranza del partito (uno di noi si è dimesso dal Comitato Politico Nazionale per l’impossibilità di condividerle e l’altro ha già esposto sulla rivista del manifesto dello scorso gennaio le ragioni del suo dissenso di fondo). Ma non è nostra intenzione tornare su di esse. Ci interessa qui, piuttosto, accennare ad alcune questioni che, a nostro avviso, emergono dalla lettura delle proposte alternative e sostitutive che sono state avanzate dall’area che si riconosce ne l’ernesto.

1. Una prima questione riguarda il “linguaggio”. In certi passaggi, le tesi alternative sembrano inseguire le rappresentazioni della maggioranza sul suo stesso terreno, anche se per riaffermare principi e valori dei quali essa parrebbe sbarazzarsi; in certi altri, sembrano insistere su formule valide per il passato senza sottoporle alla necessaria rielaborazione critica. Ci limitiamo a due esempi.
Nella Tesi 39 si sostiene che, “nell’attuale fase della globalizzazione capitalistica, permane ed anzi si potenzia, in tutta la sua obiettiva e visibile dirompenza, la contraddizione capitale-lavoro: dalle grandi imprese essa si estende alle realtà produttive minori toccando le fasce di lavoro frammentato, delocalizzato, precarizzato dai nuovi modelli dell’organizzazione produttiva, creando le premesse per un processo di ricomposizione attorno a comuni interessi di classe” (corsivo nostro).
Si potrebbe obiettare: ma chi ha mai pensato, se non gli avversari del movimento comunista, che il contrasto capitale-lavoro salariato fosse relegato al solo mondo delle grandi imprese o che originasse in esso? E d’altra parte, crediamo davvero che il decentramento produttivo attuato dal capitale per far fronte alle difficoltà riproduttive emerse negli anni ’70 possa consentire di riorganizzare le forme di lotta con una mera “ricomposizione della classe”, come se nulla fosse cambiato? Perché, in altri termini, sostenere quasi in forma ottativa che “la complessità delle articolazioni sociali, unificate dal comune interesse di battere lo sfruttamento di cui sono vittime, non fa svanire, ma al contrario conferma il carattere dominante delle contraddizioni di classe”? Si vuol forse dire che, nell’essenza, le cose stanno come prima, cioè come quando il movimento comunista ha intrapreso le sue prime lotte?
Confidiamo che nessuno pensi che le cose stanno in questo modo. Ma allora bisogna entrare nel merito dei cambiamenti intervenuti e delle forme che possono consentire una lotta efficace da parte di coloro che propugnano il bisogno di un radicale cambiamento. Viceversa, l’asserzione secondo cui non corrisponderebbe al vero che “il ‘post-fordismo’ avrebbe fatto scomparire il lavoro salariato e gli stessi luoghi fisici nei quali esso si svolge, dissolvendoli in mille rivoli inafferrabili”, non è altro che una ripetizione di ciò che la maggioranza ha affermato nella tesi n. 6, nella sua critica alla vulgata sulla “fine del lavoro”. E così come accade per quella tesi, allo stesso modo con simili formule non si fa giustizia al problema che si cerca di rappresentare e con il quale, nella storia in corso, siamo chiamati a confrontarci.
Questo problema, in effetti, era stato anticipato chiaramente dallo stesso Marx nei Grundrisse. Qui si legge: “il capitale riduce, senza alcuna intenzione, il lavoro umano (il dispendio di forza) ad un minimo. Ciò tornerà utile al lavoro emancipato ed è la condizione della sua emancipazione” (corsivo nostro). A cosa ci rinvia Marx con questa annotazione? Ovviamente non al momento in cui il lavoro salariato sarà “finito”, – ciò che costituirebbe una contraddizione in termini appunto perché “il capitale può moltiplicarsi solo a condizione di generare nuovo lavoro salariato” (Manifesto del partito comunista) e dunque, se fosse finito il lavoro salariato, sarebbe necessariamente scomparso anche il capitale –, ma al momento in cui il capitale avrebbe cominciato ad incontrare difficoltà crescenti a riprodurre lavoro salariato. Alla base della possibilità di trasformare i rapporti di proprietà c’è dunque questa condizione. Se essa non fosse ancora giunta a maturazione, non avrebbe senso battersi per il rivoluzionamento dei rapporti sociali, visto che ci si batterebbe contro il capitale mentre questo dimostra di mediare efficacemente lo sviluppo (la capacità di riprodurre su scala allargata il lavoro salariato non esprime altro che la capacità di trasformare i bisogni emergenti in domanda e dunque corrisponde, nel concreto, all’egemonia del capitale).
Notoriamente, Marx – anche nell’introduzione al Capitale – delinea un nesso stringente tra efficacia della lotta per il cambiamento e sopravvenire delle crisi capitalistiche. Ma all’epoca in cui egli scriveva, il sopravvenire delle crisi non era altro che l’emergere di una momentanea difficoltà del capitale di tornare ad impiegare produttivamente il lavoro salariato, che poteva aiutare a rendere evidente la limitatezza dei rapporti di produzione capitalistici: in simili frangenti, cioè, il rapporto di capitale mostrava la propria contraddittorietà e si poteva cominciare a ragionare adeguatamente sulle condizioni del suo superamento. Al contrario, il desiderio di larga parte della sinistra di confermare un futuro positivo al lavoro salariato anche nell’epoca del cosiddetto ‘postfordismo’, quando ormai il capitale sta mostrando la sua limitatezza in modo strutturale, evidenzia, a nostro avviso, una sostanziale incomprensione dei mutamenti intervenuti ed un radicale fraintendimento dell’insegnamento di Marx.
Incomprensione e fraintendimento che riemergono a proposito di un’altra affermazione delle tesi di maggioranza, che pure le tesi alternative e sostitutive ritengono di poter condividere (almeno così è dato comprendere, in assenza di emendamenti di sorta): quella secondo cui la crescita del movimento si fonda “sull’esercizio fino in fondo della sua sovranità” (corsivo nostro). La critica che Marx avanza a questa categoria comportamentale assume un ruolo essenziale per comprendere il nostro dissenso rispetto alle tesi della maggioranza e le nostre perplessità su quelle alternative. Il movimento comunista, in effetti, non può mai essere sovrano, appunto perché, nel tentativo di trasformare lo stato di cose esistente, deve sottomettersi alle condizioni che consentono questa trasformazione, che, se non vuole apparire come un vuoto “ideale”, deve “risultare dal presupposto (sociale) esistente”. Cosa ben diversa dalla pretesa di esercitare una “sovranità” è, invece, la lotta per l’egemonia (e ad essa faceva infatti riferimento Gramsci): appunto perché essa poggia necessariamente sull’elaborazione pratica di comportamenti che sono dettati dalle contraddizioni che si cerca di risolvere.

2. Veniamo dunque ai cambiamenti che più volte abbiamo evocato. Non si può negare che nel corso della seconda metà del Novecento siano profondamente mutati tanto gli stili di vita individuali (lavoro, rapporto tra sessi e tra generazioni, consumi, rapporto col sapere, forme della politica e della socializzazione, ecc.) quanto la rappresentazione prevalente dei rapporti sociali. Né ci pare possibile negare che, benché i rapporti di produzione capitalistici continuino a costituire parte fondamentale della struttura della società contemporanea, essi sono stati affiancati da altri rapporti, mediati dallo Stato.
Non ci riferiamo solo al fatto che, nel corso del secolo scorso, il peso relativo della spesa pubblica sulla produzione del reddito è cresciuto di dieci volte, passando da un misero 5% al 50%. Emerge piuttosto una questione di contenuto, che attiene alla principale innovazione sul terreno dei rapporti di produzione che il “secolo breve” consegna alla riflessione critica dei comunisti, vale a dire lo Stato sociale.
Lo affermiamo senza mezzi termini: se gli individui sono cambiati, se le relazioni di classe appaiono condizionare la nostra esistenza assai meno che trenta o quarant’anni fa è solo perché, intervenendo nel processo economico, lo Stato ha permesso la comparsa di una forma delle relazioni che, con l’imporsi della cittadinanza sociale, si è innalzata al di là del capitalismo. Ciò per due motivi:
a) perché lo Stato ha conquistato una (fino ad allora sconosciuta) “signoria sul denaro” nel momento in cui è riuscito a spenderlo come reddito senza più preoccuparsi del vincolo della valorizzazione che il suo funzionamento come capitale impone, invece, agli altri agenti economici (ciò almeno fino a quando le banche centrali sono state obbligate ad acquistare i titoli del debito pubblico rimasti invenduti in asta);
b) perché ha provato (e in certa misura è riuscito) a sostituire ad una socializzazione ex post, basata sulla vendita dei prodotti del lavoro come merce, una socializzazione ex ante, basata sulla programmazione delle attività concretamente necessarie per consentire alla collettività di godere di certi valori d’uso (sanità, scuola, ecc.): che infatti non si sono più presentati come merci e non hanno più avuto bisogno di essere venduti per acquisire il rango di produzione sociale (anzi, la loro vendita configura il reato di corruzione), ma di essi si è fruito per diritto.
È possibile dimostrare che questi due motivi sono in realtà due facce della medesima medaglia, che è la pretesa dello Stato sociale di poter anticipare e soddisfare molti bisogni della collettività; e quanto e quando (cioè per quanto tempo) questa pretesa si sia tradotta in realtà effettuale è problema complesso, che ha a che fare con la sequenza produzione-bisogni-consumo (sequenza che, come Marx ci ha spiegato, è rovesciata rispetto alle rappresentazioni che ne dà l’economia volgare). Ma – a parte il fatto che ci pare indiscutibile che, senza la scuola pubblica, la sanità pubblica e la previdenza e l’assistenza pubbliche, non avremmo potuto assistere al quel miglioramento delle nostre condizioni materiali che ha rappresentato la premessa necessaria per la conquista di livelli di libertà individuale assai maggiori di quelli di cui godevano i nostri nonni, assai più impastoiati nei vincoli della riproduzione capitalistica di quanto non siamo stati noi e, in certa misura, i nostri genitori – quel che non è possibile, invece, è liquidare tale esperienza così come si legge nelle tesi della maggioranza, dove il ruolo dello Stato viene ridotto alla “tradizionale funzione mediatoria” di tipo redistributivo, per giunta “nella sostanziale difesa della società capitalistica”, oppure (come accade nelle tesi alternative) tacerne del tutto.
Non è certo intendimento di chi scrive negare che il capitalismo abbia tratto enorme giovamento dall’operare dello Stato sociale (basti pensare al traino esercitato sui consumi privati dalla spesa pubblica per istruzione, sanità e previdenza sociale), ma ciò non deve spingere a perdere la misura dell’innovazione sul terreno delle forme della riproduzione e a travisare la logica dello sviluppo storico, dimenticando quel fondamentale insegnamento marxiano secondo cui, “fin quando il capitale è debole, esso si aggrappa alle grucce dei modi di produzione tramontati o che tramontano al suo apparire. […] Non appena comincia ad avere la sensazione e la consapevolezza di essere esso stesso un ostacolo allo sviluppo, subito cerca scampo verso forme le quali, mentre danno l’illusione di perfezionare il dominio del capitale […], annunciano nello stesso tempo la dissoluzione sua e del modo di produzione che su di esso si fonda” (corsivo nostro).

3. Sta qui, a nostro avviso, il presupposto reale del mutamento della rappresentazione sociale dello stesso rapporto capitale-lavoro salariato di cui accennavamo prima. Quelle che vengono registrate come “debolezze” del movimento dei lavoratori ci sembrano piuttosto il frutto del prospettarsi di “un modo più progredito di manifestazione personale degli individui” (Marx, L’ideologia tedesca). La crescita economica, sociale e culturale intervenuta nella seconda metà dello scorso secolo ha mutato, in effetti, tutte le manifestazioni di vita dei cittadini dei paesi economicamente avanzati e ha posto su una diversa base lo stesso conflitto sociale. Non ci si può quindi limitare a riaffermare ritualmente “la centralità del movimento operaio”. Bisogna riconoscerlo: lo sviluppo ha disintegrato la maggior parte degli elementi che davano forma alla vita nel periodo dello sviluppo positivo del capitale, cosicché non è più riproponibile un’iconografia tipica del comunismo novecentesco, semplicemente perché coloro che vi si dovrebbero riconoscere hanno una rappresentazione di sé, dei propri bisogni e delle proprie aspettative che non è più quella dell’operaio di quaranta o cinquant’anni fa.
Forse si ricorderà quel passo dei Grundrisse in cui Marx, dopo aver affermato che, mentre il capitale è “la forma generale della ricchezza”, il lavoro ha per scopo solo “il consumo immediato”, aggiunge che “nella sua incessante tensione verso la forma generale della ricchezza il capitale spinge però il lavoro oltre i limiti dei suoi bisogni naturali [leggi: ereditati dalla tradizione], ed in tal modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali nella produzione non meno che nel consumo”. Bene, questa individualità, dopo decenni di “consumismo”, è il “soggetto” (Hegel aggiungerebbe: in sé) che forma l’attuale cellula della società.
Non neghiamo che ciò sia anche il frutto di una rinnovata egemonia delle classi dominanti, le quali si affannano a far credere che “le aspirazioni universali” degli individui possano coerentemente esprimersi attraverso il mercato. Non neghiamo, cioè, il paradosso per cui la progressiva perdita della soggettività di classe ha comportato un’identificazione acritica con la forma dell’individualità propria della “società della libera concorrenza”. Ma non si può contrastare questo tentativo negando che il soggetto ha ormai rotto il guscio del rapporto di classe, che non è più un proletario: a parte il rilievo che, con un tasso di natalità che non garantisce nemmeno la riproduzione demografica, il termine suona comicamente paradossale, quel che non possiamo dimenticare è che lo stesso Marx scriveva che nella società concorrenziale “l’individuo si presenta sciolto da quei vincoli che in epoche storiche precedenti fanno di lui un elemento accessorio di un determinato e circoscritto conglomerato umano”. Per dirla in breve, negare la positività che è emersa, seppure in questa forma capovolta, ci pare il torto più grande che si potrebbe fare al progresso sociale e civile intervenuto negli ultimi cinquant’anni.

4. Speriamo di non essere fraintesi. Riteniamo che questo progresso sia sfociato in una situazione nuova, nella quale la misura dell’arricchimento sociale non è più data “né dal lavoro immediato, né dalla quantità di lavoro svolta, ma dall’appropriazione della produttività generale”, che coincide con “lo sviluppo dell’individuo sociale” (ancora parole di Marx). Ma ciò comporta che il soggetto non deve solo battersi contro il potere del capitale, ma in prospettiva deve anche imparare a contrastare quel modo di porsi rispetto al processo produttivo che ha ereditato dal passato e che è parte integrante del meccanismo attraverso il quale quel processo assume la forma di un potere che lo domina. In altri termini, questo embrione di soggetto, che ha acquisito una rilevante libertà sul piano del consumo ma sente ancora il bisogno di proiettare il potere di evocare la produzione su di un’entità sovrastante, deve agire in modo da spingersi al di là di questo livello della socialità. Egli deve e può liberarsi “solo togliendo la proprie condizioni di vita”. (È per questo che il concetto di classe non va idealizzato: nell’impotenza della disoccupazione di massa si esprime, infatti, proprio una determinazione degli individui che agiscono solo come membri di una classe!)
Da questo punto di vista troviamo del tutto fuorvianti le considerazioni apologetiche su una presunta “autonomia del proletariato”. Il lavoro salariato corrisponde per definizione ad un rapporto esteriore con il processo produttivo. Esso “in quanto presuppone il capitale, comporta il necessario processo di rendere le sue stesse forze estranee a sé” (Grundrisse). E quando cerca di emanciparsi dal capitale, proprio a causa di questa esteriorità, si appella, in un primo momento, ad un’altra forma esteriore della soggettività, rappresentata dallo Stato.
Ciò non può ovviamente essere oggetto di scandalo. Come ci ricorda Marx nei Manoscritti del ’44, le forze umane si sviluppano dapprima necessariamente in forme esteriori. Ma il passaggio successivo non consiste nello sbarazzarsi di quelle forze e nel costituirsi come soggettività autonoma, quanto piuttosto nel cambiare se stessi in modo da poter far proprie quelle forze che sono state originariamente prodotte da altri ed in forma esteriore (e qui suonano davvero profetiche le parole della Questione ebraica circa lo Stato come strumento “indiretto” ancorché transitoriamente “necessario” nel progresso dell’individualità verso il riconoscimento delle forze produttive sociali come “forces propres”).
Tutto ciò ci conduce al problema essenziale delle forme nelle quali deve oggi essere ricercata la libertà. I nostri avversari hanno gioco facile perché non fantasticano di autonomie impraticabili: al contrario, stabiliscono un nesso stringente tra riproduzione del rapporto di denaro ed affermazione di sé e confermano il processo storico in atto, di disgregazione delle forme preesistenti della vita, come manifestazione di una libertà nuova, riconducendola all’unità del denaro, nel quale ognuno sarebbe in grado di manifestare la propria emancipazione da poteri sovrastanti.
Se vogliamo contrastarli efficacemente, dobbiamo porre in essere un’operazione analoga, ma di segno inverso. Dobbiamo cioè spiegare, nel concreto, come il rapporto della proprietà privata, nonostante abbia subito radicali cambiamenti, impedisce l’impiego di molte forze produttive esistenti, mentre – se queste venissero sussunte comunitariamente – si aprirebbe lo spazio per la produzione di una ricchezza che è già alla nostra portata. Insomma, dobbiamo cercare di far comprendere che è a causa della nostra subordinazione al processo produttivo, e non a causa di un arbitrio che il capitale (o lo Stato) pongono in essere nei nostri confronti, che soffriamo dei mali di cui soffriamo. In questo può esserci di aiuto quell’annotazione essenziale dell’Ideologia tedesca, nella quale si sostiene che “il mutamento di se stessi coincide con il mutamento delle circostanze” (corsivo nostro), nel senso che il secondo sarebbe impossibile senza il primo.
E pur rendendoci conto che è impossibile esprimere una simile consapevolezza in forma di “tesi”, dato che il sapere può presentarsi in questa forma solo quando è diventato socialmente condiviso (e invece noi siamo appena ai prodromi della sua costituzione), crediamo comunque che farne emergere appieno i presupposti sarebbe il miglior contributo che l’ernesto potrebbe dare per arginare certe pericolose derive “movimentiste” verso le quali, invece, sembra far rotta la rifondazione del comunismo.