Chi legge per la prima volta i versi di Fabio Franzin – soprattutto questi inediti tratti da una raccolta in via di pubblicazione presso Le Voci della Luna e intitolata Co’e man monche (Con le mani mozzate) – chi legge, dicevo, per la prima volta questi versi è un lettore privilegiato. Si ritrova davanti, senza che nessuno gli abbia aperto o distorto lo sguardo, un’evidenza nuda, incontrovertibile, priva di argomenti, il cui unico sostegno persuasivo è l’esserci stata e l’esserci, in quel momento storico e in quei luoghi. Come davanti al diario di Simone Weil sulla condizione operaia, ma alla rovescia, in una salda e coerente inquadratura soggettiva: lo stato di mobilità di ottanta e più lavoratori dell’industria del mobile, oggi, nel Nordest in crisi. Qui Franzin apre lo scenario, e racconta in sestine, in dialetto, con le trappole e gli spigoli del vocabolario delle sue zone, tra Oderzo e Mot – ta di Livenza, provincia di Treviso; la stessa lingua, lo stesso passo del suo Fabrica, edizioni Atelier, forse il miglior libro di poesia italiana dell’ultimo decennio. Si sentiva l’epica delle mani, in Fabrica: l’elogio della loro arte di esistere e di mettere insieme i pezzi della lavorazione e il sostentamento delle vite, con l’affanno, il massacro delle tenerezze, delle aspirazioni, delle femminilità, in un budello rumoroso e pieno di polvere, gomito a gomito, dove a forza di star dietro al ritmo dei «tòchi », dei «pezzi», si finiva per diventare pezzi, a propria volta, nel respiro del macchinario. Fabrica era il lungo canto ritmato, senza strepito, di quelle mani che ora sono state fermate, deprivate della loro capacità di afferrare il mondo e di capirlo. Il linguaggio ha combinato un brutto scherzo: «chea paròea che ‘a sona dolzha, / squasi gemèa de chii mòbii che ‘ven / fat su», cioè «quella parola che suona dolce, / quasi gemella della mobilia che abbiamo / costruito». Prima i mobili, poi la mobilità, che ha fermato ogni cosa intorno a sé: l’ultimo paradosso vissuto da chi lavora sul serio, e lo stridore di questi tempi lo avverte da vicino. Le mani restano basse, o si raccolgono l’una nell’altra. Tutto partecipa dell’abbandono, in mobilità: gli operai che si ritrovano nel piazzale della fabbrica chiusa, come «fradhèi ribandonàdhi da un pare»; poi sbigottiti, «imatonìdhi come dopo / un funeràl », e stanchi, esausti come se avessero appena finito il turno. A un certo punto si allontanano, uno a uno. E dietro le fabbriche, nelle vie strette e spoglie che hanno i nomi delle regioni o delle scienze, in quelle zone industriali che si sono mangiate la terra di tutto il Nordest, anche i pezzi, gli scarti di lavorazione e i macchinari restano «ribandonàdhi », cominciano a arrugginirsi. Una sinfonia degli addii: «vardéne», «guardateci», è l’ultimo rintocco. Tenete gli occhi fissi sull’ultimo operaio che si sta allontanando, prima che sparisca. Suona così, questa appendice brutale del fordismo, per le piccole fabbriche con i turni a tamburo battente, senza tutele né prospettive, in un pezzo d’Europa che ancora non impara a crescere insieme al fatturato. E la perdita della manualità – un tema privilegiato nella storia della poesia operaia italiana – sosti- tuisce ora il grande canto dell’orgoglio delle mani che si ascoltava in Fabrica. La realtà si è fatta obliqua, piena di salti e di curvature: l’ordine delle certezze è saltato, ed è cambiata la percezione del tempo, del paesaggio, dei rapporti familiari. Queste mani orfane dovranno imparare un modo nuovo di percepire, di accostarsi alle cose. La loro esperienza non è perduta, e dovrà agire sulle radici minuziose della meccanica della vita. Se ne avverte la percezione in forma di domanda, nel testo in cui il figlio chiede al padre operaio in mobilità di riparargli le macchinine: più che Ferruccio Brugnaro, l’altro grande poeta generazionale delle grandi fabbriche del Triveneto, si riascolta qui, contro ogni apparenza immediata, qualcosa di Zanzotto: soprattutto in quel modo di chiamare per nome la realtà, nelle sue minuzie e nei suoi frammenti devastati. Si cammina su un mucchio di rovine, di eredità sorprese dal disordine, come in Mus.cio e roe (Muschio e spine), pubblicato nel 2006 sempre per Le Voci della Luna, dove Fran – zin rievoca «el conforto del paesàjo / co’ i òci i ‘o sufia drento / i fii del sintìr», e cioè: «il conforto del paesaggio / quando lo sguardo lo soffia dentro / i fili del sentire». L’esperienza memoriale di questo paesaggio viene da Zanzotto, che aveva chiesto quel conforto come un mantra, per decenni, alle sue rovine della memoria. E a partire da quel libro di Franzin, Mus.cio e roe, si può immaginare quanto sia stato forte e traumatico lo snaturamento (inteso in senso letterale, come privazione di natura, o come impossibilità di nominare e di proteggere la natura) della vita di fabbrica. Ciò che è stato fatto dell’esistenza degli operai – da parte di un manipolo di piccoli e medi industriali che un Gramsci di oggi non esiterebbe a chiamare parassitario – assomiglia al disastro sofferto, anno dopo anno, da quel paesaggio zanzottiano, che sempre più raramente ha potuto dare e ricevere conforto. Le mani raccontate ora da Franzin richiamano così le piante, i sentieri, i cippi del poeta del Galateo in Bosco, aprendosi alla realtà operaia come le radici alla terra. Così, la perdita del lavoro arriva come un secondo e più grave snaturamento: l’opera di una generazione lasciata in mez – zo al guado, con le mani mozzate, mentre gli intellettuali italiani discorrono sul loro voler apparire o non apparire – in chissà quale girandola di sensi – i nuovi operai della conoscenza. C’è ancora più bisogno, oggi, di questo racconto generazionale e collettivo: di questi versi-contenitore che fanno da canale, da corsia di salvezza della testimonianza vissuta; di questa lingua ostica e tuttavia ospitale, con la sua disciplina interiore; del movimento ricomposto, ritrovato, di queste mani.
* Università di Bologna, docente di Letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato Metrica come composizione, Bologna 2002; Come si legge una poesia, Roma 2003; Il soggetto nella poesia del Novecento italiano, Milano 2009.