Comunicazione e musica

*Storico del rock e giornalista di Liberazione

Nel 1967 un filosofo e scrittore francese pre-situazionista di nome Guy Ernest Debord pubblicava un libro intitolato La società dello spettacolo, intendendo per “spettacolo” ogni manifestazione che potesse diventare fenomeno di massa e quindi uno strumento occulto di controllo e/o di alienazione (“Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”).

GLI ANNI DEL CONSUMO DI MASSA

L’idea era quella che il sistema, dietro a un apparente liberalizzazione generalizzata della comunicazione, tendesse da un lato a riposizionare la propria struttura produttiva e dall’altra a nascondere la realtà imponendo una sorta di “realtà guidata”, fatta di false rappresentazioni mediatiche (“spettacoli” appunto) che orientassero coscienze, formassero convinzioni, ecc. In quegli anni i giovani della prima generazione nata dopo la seconda guerra mondiale stavano diventando un “soggetto sociologico” protagonista (anche se a sinistra qualcuno l’ha scambiato per un soggetto politico) e non più una sorta di esercito di riserva in attesa di diventare adulto. Per numero e per disponibilità economica erano l’elemento nuovo, la scommessa del futuro, su cui investire risorse e capitali. Nella logica del sistema capitalistico questo enorme bacino di consumatori doveva essere il destinatario finale di un processo produttivo e culturale specifico finalizzato a massificare i consumi e gli strumenti di manipolazione del consenso. Erano gli anni delle minigonne, degli scooter, del consumo della musica come fenomeno di massa. In realtà Debord anticipava quel fenomeno complesso che oggi è definito “globalizzazione”, ne intuiva il disegno e cercava di individuarne gli elementi più perniciosi: l’appiattimento dei linguaggi, la sconfitta o l’inglobamento delle culture critiche, la massificazione dei consumi, la costruzione di un modello di produzione unico e globale che fornisse il perno decisivo per la supremazia dell’occidente capitalista, ecc. Non è un caso che il libro sia stato scritto negli anni Sessanta. Mai come in quel periodo, infatti, la moda, il costume, la musica, le arti e tutto ciò che veniva definito come “tendenza” avevano acquisito tanta importanza da determinare profonde modificazioni nella storia, nella politica, nell’economia e nella cultura. Debord, dunque, aveva intuito i meccanismi in atto sul piano teorico e tendenziale. La sua analisi, però, aveva un limite di prospettiva perché era rinchiusa in una sorta di determinismo negativo, a-marxista, che non vedeva altra possibilità di resistenza se non un impossibile sabotaggio e un ancor più impossibile e ideologicamente astratto rifiuto dei processi. Una strategia di resistenza siffatta sarebbe stata destinata a soccombere vista la disparità della forze in campo e l’oggettiva difficoltà a contrastare in modo ideologico innovazioni tecnologiche che, nonostante le implicazioni negative, finivano per migliorare la qualità della vita. A dispetto delle previsioni sia del sistema che di una parte degli intellettuali un po’ troppo distratti il meccanismo di allargamento del consenso si inceppa. L’allargamento delle forme di comunicazione, indispensabile per costruire modelli su scala mondiale, offre un insperato canale moltiplicatore alle lotte anticapitaliste e, soprattutto, a quelle antimperialiste. È così che si sviluppano su scala planetaria mobilitazioni di massa fino a poco tempo prima limitate ai confini nazionali, dai diritti civili alle condizioni di lavoro alla guerra e al colonialismo. L’elemento emblematico di questa mobilitazione “globale” resta la guerra del Vietnam, vinta sul piano della comunicazione (e non della propaganda, come qualcuno ogni tanto sostiene) prima ancora che sul terreno politico e militare. Se sul piano del sistema produttivo (dischi, mode, consumi di massa) il giochino funziona e rende bene, sul piano politico si rivela un disastro, visto che invece di controllare le coscienze finisce per mettere in crisi l’imperialismo statunitense e regalare nuove parole al conflitto di classe. Per dirla con parole semplici e forse un po’ banali i comunisti e le forze della sinistra anticapitalista, più abituate a ragionare in termini di “solidarietà internazionalista”, a inquadrare le situazioni nazionali in una prospettiva planetaria, riescono meglio di altri a gestire quest’improvvisa apertura dei canali di comunicazione globale e mettono a segno risultati incredibili marcando un’egemonia senza precedenti. Sarebbe interessante approfondire l’analisi dello sviluppo e, soprattutto, della dissipazione di questo patrimonio negli anni successivi, ma non è questo il tema principale di questo scritto.

L’INTERNAZIONALISMO MUSICALE

Un elemento fondamentale nell’apertura dei linguaggi e della capacità comunicativa di quegli anni è la musica. Quello che in parte era già successo alla fine degli anni Cinquanta con il rock & roll, trova negli anni Sessanta la sua esaltante continuità con un fenomeno come il beat e le successive evoluzioni. Le giovani generazioni iniziano a comunicare sulla stessa onda utilizzando la musica. Ben presto alle parole d’amore adolescenziale si sostituiscono contenuti diversi. Per la prima volta un comunista messo al bando dal maccartismo come Pete Seeger vede una sua canzone ai vertici delle classifiche di mezzo mondo, in Gran Bretagna si riciclano i più oltraggiosi interpreti del rock and roll statunitense, l’opposizione alla guerra del Vietnam entra nelle canzoni e termini come “imperialismo” e “capitalismo” assumono in musica un’universale accezione negativa. L’establishment statunitense si accorge che qualcosa non funziona e cerca, tardivamente, di correre ai ripari. Il 1° gennaio 1965 la rivista New Musical Express denuncia che, con pretesti artificiosi, il governo statunitense sta negando il visto d’ingresso nel paese a vari gruppi inglesi che si vedono costretti ad annullare tour già previsti. La notizia risulterà vera. Il Dipartimento Immigrazione degli Stati Uniti sta, infatti, cercando di limitare la “British Invasion”, cioè l’arrivo delle band britanniche con lo scopo apparente di tutelare gli artisti locali. Chiudere la porta della stalla dopo che i buoi sono scappati non servirà a niente. La musica è ormai assurta a linguaggio universale e l’egemonia culturale non è nelle mani della destra. Tutto bene? No. Perché, in realtà, i comunisti e la sinistra anticapitalista dimenticano, in quella fase, di prestare attenzione alla risposta dell’avversario. Persa la prima battaglia per l’egemonia sul terreno meno congegnale, quello delle idee, gli Stati Uniti punteranno a vincere la guerra. Due saranno gli elementi sui quali verrà concentrata la controffensiva: il controllo delle strutture produttive della musica e il cambiamento della strategia mediatica.

IL CONTROLLO DELLE STRUTTURE PRODUTTIVE DELLA MUSICA: IL CASO ITALIANO

È vero che negli anni Sessanta e Settanta i giovani del mondo avevano iniziato a utilizzare la musica per comunicare sulla stessa onda, ma in entrambi i casi il linguaggio era definito, strutturato, per molti aspetti riducibile a schema e, quindi, controllabile. Pur affondando le sue radici nella contaminazione tra i ritmi neri e le melodie bianche, era indiscutibilmente occidentale. In più l’universalità della comunicazione era condizionata dalla barriera di una lingua dominante, l’inglese, nelle sue mille forme.
Le rivoluzioni di quegli anni portavano, dunque, i segni forti di un’egemonia occidentale. Era il peccato originale di un movimento chiamato rock che correva il rischio, suo malgrado, di diventare un subdolo strumento di dominazione. Il mondo ballava e cantava sulla stessa onda, ma si faceva prestare le parole da una lingua sola e, come insegnavano i Sofisti, chi è padrone delle parole costruisce la sua verità. E anche quando quella musica si apre alle musiche del mondo lo fa senza mettere in discussione il punto di partenza: era l’Occidente che si apriva all’Oriente, il Nord al Sud, mai viceversa. L’Occidente era il centro, il resto una variegata periferia.
Con questa certezza pochi anni fa le major discografiche hanno puntato sui mezzi di comunicazione di massa per rendere stabile la costruzione di un linguaggio musicale mondiale che rendesse permanente il dominio. In questo quadro verrà anche accettata la nascita della cosiddetta “world music”, uno schema mobile e dinamico capace di racchiudere e, in fondo, neutralizzare, tutto ciò che affonda le sue radici nelle culture non rigidamente legate all’universo angloamericano.
Sul piano produttivo, poi, era iniziata un’offensiva tendente a eliminare qualunque possibilità di sopravvivenza di strutture nazionali e potenzialmente non controllabili. Emblematico è, a questo proposito, il caso italiano.
C’era una volta in Italia una delle industrie discografiche pubbliche più importanti del mondo. Nata nei primi anni del Novecento aveva accompagnato la diffusione della musica popolare, ne aveva guidato le innovazioni tecniche, anticipando e qualche volta determinando i gusti del pubblico. La sua esistenza era stata anche un punto di riferimento importante per lo sviluppo delle iniziative private. C’era una volta, perché adesso non c’è più. La sbornia privatizzatrice e liberista degli ultimi vent’anni ne ha fatto strame. Tutto è stato messo in vendita e pezzi interi di un catalogo che era, prima di tutto, una parte importante della storia e della cultura del nostro paese, sono scomparsi, volatilizzati nel mercato dei collezionisti e, in qualche caso, perduti in qualche magazzino polveroso. Quasi a dimostrare come ci fosse un nesso inscindibile tra il polo pubblico e l’iniziativa privata, pochi anni dopo l’avvio della furia privatizzatrice, anche la grande industria discografica privata collassa e diventa preda delle major multinazionali.
Chi pensa che tutto ciò accada negli anni Ottanta sbaglia. In realtà il processo inizia proprio alla fine degli anni Sessanta con la progressiva conquista da parte delle multinazionali di un mercato strategicamente importantissimo: quello della distribuzione.
Chi controlla la distribuzione controlla il mercato e, quindi, può pesantemente condizionare la produzione. Quando in Italia salta l’anello pubblico, quello privato è già da tempo pesantemente condizionato dalle strutture multinazionali. La privatizzazione disintegra l’ultima difesa e fa crollare l’intero castello. L’operazione è poi andata oltre. L’imperialismo culturale e globalizzatore delle major ha agito con determinazione e cinismo razionalizzatore. Mentre le strutture produttive sono state investite da una pesante ristrutturazione con tagli consistenti di posti di lavoro, la concentrazione della distribuzione nelle grandi catene commerciali, anche queste quasi tutte nelle mani delle multinazionali, ha prima indebolito e poi colpito a morte la rete di piccole e medie strutture di vendita su cui si è sempre retta la diffusione dei prodotti musicali di qualità nel nostro e in quasi tutti i paesi europei. Alla fine degli anni Novanta l’operazione era ormai completata.

IL CAMBIAMENTO DELLA STRATEGIA MEDIATICA

Dopo la débacle comunicazionale degli Stati Uniti all’epoca della guerra del Vietnam le scuole occidentali di comunicazione hanno elaborato una sorta di “strategia multimediale” di formazione del consenso molto più raffinata di quella degli anni precedenti. A differenza di quanto in uso fino agli anni Settanta, non si punta più alla fidelizzazione tout-court (sto sempre con l’America o con l’Occidente perché é dalla parte della libertà contro il comunismo o contro la barbarie che è lo stesso), ma si parte dall’idea di “affiancare” la costruzione di una sorta di spirito genericamente critico, spesso apolitico o prepolitico con caratteristiche di universalità, che fa sentire liberi e non condizionati, ma che serve da “supporto” per improvvise accelerazioni funzionali alle diverse esigenze della politica o dell’economia.
È una strategia sottile che presuppone la nascita, la crescita e l’induzione di una sorta di “criticità vigilata” ricca di aperture attraverso le quali far passare le accelerazioni. Esse mai o quasi mai sono immediatamente riconoscibili come tali e spesso nemmeno la finalità è intuibile. Un esempio citato ancora oggi nei corsi sulle comunicazioni di massa è quello del film Ritorno al futuro di Zemekis del 1985. In esso abbondano battute critiche e ironiche sull’establishment statunitense, compresa una gag sull’attore Reagan divenuto presidente. Si ride, si partecipa in modo “critico” alle vicende degli Stati Uniti degli anni Ottanta e si fanno paragoni tra il passato e il presente di quella nazione. Sembra, anzi è, un film moderatamente progressista e, comunque, divertente. Nessuno si accorge di un dettaglio. I “terroristi” che sparano a Doc, lo scienziato, colpevole di aver loro rubato il materiale nucleare necessario a far funzionare la macchina del tempo sono libici. Potevano essere di qualunque nazione o, come scritto nella sceneggiatura iniziale del film, terroristi e basta. Non ha alcuna funzione nel film l’aggettivo specificativo della loro nazionalità eppure qualcuno interviene perché venga inserito nella sceneggiatura originale. Anni dopo si è scoperto che si trattava di una specificazione voluta, perché era uno dei tanti piccoli tasselli necessari a convincere l’opinione pubblica mondiale della necessità di “castigare” Gheddafi con il bombardamento di Tripoli. E quando questo succede anche chi “condanna” il bombardamento non mette neppure in discussione la “cattiveria” di Gheddafi perché è diventata un elemento obiettivo, condiviso, quasi naturale.
La sostanza è che oggi il sistema mediatico usa disinvoltamente la massa di comunicazioni a disposizione per “condizionare” e “orientare” la coscienza critica invece di combatterla frontalmente.
Questa strategia ha acquisto potenzialità impensate con la trasmissione delle immagini mediante lo schermo televisivo e con la possibilità di manipolazione che ne consegue. A parte il conosciutissimo imbroglio realizzato dalla televisione rumena durante gli ultimi giorni della caduta di Ceausescu, gli studiosi statunitensi nel campo della comunicazione di massa organizzatisi per produrre controinformazione in occasione della prima “Guerra nel Golfo” hanno rivelato che, prima di mettere in atto le operazioni militari, era stata ingaggiatauna agenzia di pubbliche relazioni per saggiare il tipo di immagini più adatto a provocare nel pubblico reazioni emotive favorevoli alla guerra. E quando, dall’indagine svolta era risultato che i bambini e le giovani donne costituivano gli argomenti più toccanti era stato realizzato un video nel quale una giovane in lacrime raccontava di essere stata testimone dell’occupazione di ospedali nel Kuwait da parte di soldati iracheni, che avevano prelevato bambini dalle incubatrici per portarli a Baghdad. Dopo la fine del conflitto si scoprì che la giovane, figlia dell’ambasciatore del Kuwait negli U.S.A., non si era mossa da Washington da diversi anni. Inoltre la commissione medica internazionale che visitò il Kuwait subito dopo la fine delle ostilità, fece sapere che gli ospedali non disponevano di incubatrici. Bene o male, piccoli o grandi, fantasiosi o meno, dobbiamo fare i conti con questo uso dei media.

IN MUSICA LA RESISTENZA È COMINCIATA

Non tutte le ciambelle riescono col buco e come spesso accade il capitalismo finisce per coltivare in sé il germe della propria rovina. La prima campana di riscossa nasce dallo slancio culturale che supporta nei primi anni Ottanta un’innovazione tecnica rivoluzionaria come quella del campionatore. Che cos’è? Senza entrare in inutili dettagli tecnici, si può definire in questo modo: uno strumento che ha la possibilità di registrare un suono e renderlo disponibile per altri usi. Si assiste così a un formidabile impulso innovativo che se ha avuto in Sting e Peter Gabriel i più geniali pionieri, nel rap ha conosciuto la sua più dinamica e democratica diffusione. I primi esempi arrivano con Rappers Delight della Sugarhill Gang che campiona la linea di basso di Good Times degli Chic o con Rappin’ And Rockin’ The House dei Funky Four Plus One More che riprende Got To Be Real di Cheryl Lynn. L’innovazione spiazza per qualche tempo la produzione industriale e provoca un’accelerazione che fa saltare le barriere sonore tra le culture. Poi, però, l’aria inizia a cambiare. L’industria discografica, più che alle implicazioni ideologiche pensa agli affari, e si accorge che un campionatore elimina le spese. Basta con le lunghe e virtuose sedute di registrazione. In fondo è sufficiente cercare nei propri archivi il suono che più e meglio s’avvicina a quello che si vuole ed è fatta! La fase successiva è stata, poi, la seguente: perché perdere tempo a cercare qualcosa che magari qualcuno ha già fatto? Ricordava su Musica Alessio Bertallot, dj d’assalto e già frontman degli Aeroplanitaliani, che dal campionamento di Soup for one degli Chic nasce Lady di Modjo. Visto che funziona, poi si campiona quest’ultimo (la ricerca è tutta fatica inutile) e nasce The ladyboy is mine d i Stuntmasterz. Il campionamento, nato per supportare e allargare il campo della ricerca e della contaminazione diventa così il supporto a una sorta di musica di plastica i cui i vari passaggi cancellano le radici originarie. L’innovazione non ha più bisogno delle radici e, in fondo, neanche dell’arte. È l’altra faccia della globalizzazione. Il business prima di tutto. Così la voce degli indiani Navajo fa da supporto a qualche stucchevole brano dance destinato a far da sottofondo a spot a basso costo o a siglette televisive. Il gioco è fatto. La musica di produzione industriale inizia a perdere il contatto con le radici, la storia e la cultura.
Come accaduto negli anni Sessanta però questa idea, forse geniale dal punto di vista del profitto, finisce con l’avere due effetti collaterali: rende insopportabile e monotona a produzione in serie e mette in circolo sonorità inusuali frantumando l’egemonia angloamericana. Ho già avuto modo di scrivere che nella nuova musica globale il concetto di “straniero” non esiste più. Per dirla con i Radiodervish il “centro del mundo” sta dissolvendosi in una nuova internazionalizzazione della musica in cui ciascuno parla con un idioma diverso dall’altro ma tutti si comprendono. È una lingua nuova fatta di suoni, sensazioni, colori e ritmi che dà voce a ogni angolo sperduto della terra. L’idea di poter controllare il processo sta franando. Il meccanismo di comunicazione non funziona più a senso unico perché stiamo assistendo alla nascita di una generazione di musicisti capace essa stessa di determinare nuovi codici creativi e che sente le tradizioni dei vari popoli del mondo non come una curiosità da scoprire, ma come parte del proprio patrimonio culturale. Sono cittadini del mondo, si abbeverano alle mille culture del pianeta. E se, come accaduto, un gruppo mozambicano come i Mabulu riesce a vendere via Internet il suo album Karimbo in ogni parte del mondo, il fatto rilevante non è la possibilità di aggirare il sistema commerciale delle major, ma la naturalezza con la quale un giovane di Washington, una ragazza di Stoccolma o uno studente di Lahore sentono quella musica come se fosse loro, ne capiscono il linguaggio e ne interpretano le sensazioni. Sta saltando, anzi è già saltata, anche la schiavitù della lingua. L’inglese non ha più il fascino universalista che aveva alla fine del secolo scorso. Ciascuno parla nella sua lingua, senza altra mediazione che quella dei suoni, delle armonie e dei ritmi. E anche chi si era lasciato catturare dal meccanismo torna a riscoprire le proprie radici. Accade così che Chérif Mbaw conquisti le classifiche francesi cantando in wolof, l’antica lingua del Senegal, e Wyclef Jean faccia lo stesso negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con il colorito linguaggio del popolo di Haiti. Quando anche una pop star come Christina Aguilera decide di abbandonare il suo inglese artificiale per tornare all’idioma ispanico, sua lingua natale, senza perdere un nanogrammo di popolarità, non è più un fenomeno casuale. Il magazine Time ha dato corpo alle preoccupazioni parlando di un melting pot inarrestabile, un fenomeno fuori dal controllo, una rivoluzione ormai in atto e non ancora conclusa. Sono ormai lontanissimi i tempi in cui le esperienze parigine dei primi gruppi nati dalla cultura multietnica, come i Mano Negra o Les Negresses Vertes, parevano destinati a restare nel ristretto ambito delle curiosità. Anche le riviste musicali meno sofisticate si sono fatte più caute. È rischioso per il sistema stesso e forse impossibile rinchiudere nel ghetto della “word music” musicisti come l’ugandese Geoffrey O ryema, il lappone Mari Boine Persen, il pakistano Nusrat Fateh Ali Khan o i sudafricani Ladysmith Black Mambazo del reverendo sudafricano Joseph Shabalala. La Nigeria, seppellito Fela Kuti, trova un nuovo cantore della sua anima nel figlio Femi Kuti, mentre risuonano oggi profetiche le esperienze di Manu Dibango, Youssou N’Dour, Toure Kunda, Mory Kante, Alì Farka Touré o King Sunny Adé. Alla chiamata delle periferie del mondo l’Occidente risponde senza pregiudizi. Al perennemente instabile e contaminato Manu Chao, si affianca il fascino di Björk, Chemical Brothers, Moby, Asian Dub Foundation, Transglobal Underground, Fatboy Slim e tanti altri. Nessuno è nemico, nessuno è straniero. Il mio suono è il tuo suono e viceversa: insieme diventano il “nostro” suono. Tutto è ancora in movimento, in un tumultuoso e dinamico evolversi di cui non si intravede ancora la fine, ma che potrebbe riservare sorprese a non finire. Nel secolo scorso la musica è stata, quasi sempre, interprete dei sommovimenti sociali e dei grandi cambiamenti.
Spesso la politica e la sociologia, distratte, l’hanno scoperto in ritardo. Il crollo delle barriere e la crisi dell’imperialismo culturale aprono oggi un orizzonte comunicazionale che fino a poco tempo fa era impensabile. È una lezione importante che non parla soltanto di musica.