Competizione globale fra poli imperialisti e keynesismo militare

1. Fordismo e keynesismo

Già dalla metà degli anni ’60 si manifestano forti problemi di accumulazione all’interno dei processi cosiddetti fordisti; con la fine del boom economico post-bellico e di ricostruzione, in Europa e in Giappone, e con i processi di ristrutturazione e razionalizzazione fordista, si cominciano ad evidenziare linee di deindustrializzazione. Nonostante il sostenimento della domanda attraverso politiche keynesiane, anche militari, e la guerra in Vietnam, gli Stati Uniti vedono, già a partire dal 1966-67, un crollo della produttività e della redditività, accompagnato da una crisi monetaria-creditizia che, a causa del crescere dell’inflazione, colpisce il ruolo del dollaro come valuta internazionale di riferimento.
L’intenso processo di industrializzazione fordista si sposta verso nuovi mercati, specialmente del sud-est asiatico, aumentando la competizione internazionale e mettendo in discussione la leadership statunitense. Si passa, così, ai tassi di cambio fluttuanti, a forti instabilità attraverso la fine degli accordi di Bretton Woods e la conseguente svalutazione del dollaro.
Si riconosce tale era come quella della rigidità dei processi di accumulazione, proprio perché tale fase fordista è identificata dalla rigidità degli investimenti e dell’innovazione tecnologica, da una rigidità dei mercati di incetta e dei mercati di consumo; a ciò si aggiunge la rigidità del mercato del lavoro, grazie anche alla forza espressa dal movimento operaio tra la seconda metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70.
A partire dall’inizio degli anni ’70, comincia a venir meno quel connubio fra sistema produttivo fordista e modelli keynesiani attraverso i quali lo Stato realizzava un sistema di mediazione, regolazione e compressione del conflitto sociale.

2. Il paradigma dell’accumulazione flessibile e la competizione globale

Interpretare l’attuale fase dello sviluppo del capitalismo, significa analizzare le modalità di gestione della crisi del modello fordista finalizzate ad evitare una intensa svalutazione del capitale.
Parlare attualmente di era postfordista non significa che non sussistano ancora elementi tipici dei processi fordisti, anzi il cosiddetto modello post-fordista tipico dell’area centrale dei paesi a capitalismo avanzato convive con un tipico modello ancora fordista della periferia e addirittura con modelli schiavistici dei paesi dell’estrema periferia (dove per estrema periferia si intendono anche alcune aree marginali del centro). Tutto ciò perché oggi convivono le diverse facce di uno stesso modo di produzione capitalistico.
Si identifica così il vero volto di quella che a ragione può chiamarsi la New Economy della crescita distruttiva senza alcuna forma di sviluppo sociale e di civiltà. La redistribuzione territoriale del dominio non è determinata da un semplice decentramento del capitale, o prodotta esclusivamente dalla valorizzazione di risorse locali, ma è dovuta soprattutto ad intensi processi di ristrutturazione del capitalismo che, alla ricerca della competitività sul piano internazionale, determina efficienza a partire soprattutto dall’imposizione di forte mobilità spaziale e settoriale della forza-lavoro e dalla diversificazione dei progetti di flessibilità del lavoro e del salario. Questi sono gli aspetti realmente innovativi dell’attuale fase dell’accumulazione flessibile, che significa competizione globale, conflitto aperto fra poli geoeconomici, quindi fine della strategia di globalizzazione di un unico grande impero.

3. Fine della globalizzazione e conflitto interimperialistico

A partire da alcune caratterizzazioni che hanno assunto le modalità delle dinamiche dello sviluppo collegate nell’ambito di un rapporto capitale-lavoro sempre finalizzato al controllo sociale interno ad ogni paese capitalista e allo scontro esterno per la determinazione del dominio globale attraverso l’allargamento delle aree di influenza geoeconomica dei tre grandi blocchi, USA, UE e Giappone, si può sostenere certamente che la globalizzazione è finita. Se globalizzazione, intesa come logica unipolare d’impero c’è stata, questa ha esaurito le sue funzioni fra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Da allora si entra nella fase aperta della competizione globale fra poli imperialisti. Per comprendere la competizione globale è determinante l’analisi dell’organizzazione del ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto produttivo e sociale, del ruolo dello Stato, dei rapporti tra le aree internazionali e della loro struttura economica. Solo così si possono identificare le nuove determinazioni dei processi di accumulazione del capitale, in una nuova fase dello sviluppo capitalistico individuabile intorno alla centralità del dominio internazionale. Un dominio determinato attraverso i ruoli esercitati dai nuovi soggetti economici del capitale, soggetti economici multinazionali e soggetti-paese, o meglio soggetti-polo, con aree di influenza ben delineate, cioè blocchi geoeconomici in conflitto (area del dollaro per il polo USA, area dell’euro per il polo UE, area yen, asiatica, ecc.).
Sembra predominare l’area del cosiddetto “capitalismo anglosassone” (Stati Uniti e Regno Unito), con il modello di capitalismo americano, il blocco economico statunitense che offre ai detentori di ricchezza finanziaria maggiori prospettive di arricchimento rispetto a quello europeo e più larghe possibilità di una veloce globalizzazione dei mercati mantenendo intatto, anzi rafforzando, l’apparato politico-militare. Ma per poter mantenere tale situazione, gli Stati Uniti debbono saper rilanciare non soltanto una rosea situazione economica e finanziaria sul piano interno e come locomotiva sul piano internazionale, ma nel contempo devono saper combinare la dimensione geopolitica e militare con quella geoeconomica.

4. Gestione della crisi e keynesismo militare

Come abbiamo già evidenziato nell’editoriale dell’ultimo numero di PROTEO (n.2, 20 settembre 2001, pag. 2), quello precedentemente delineato è anche il contesto dei mesi immediatamente precedenti l’attentato dell’11 settembre, che vedeva gli USA in forte difficoltà sul piano politico-militare; la loro egemonia era messa in discussione dalle mire di affermazione e di espansione geoeconomica del polo dell’UE (vedi situazione nei Balcani, espansione economica dell’UE nell’Europa centro-orientale, costituzione di un esercito del tutto autonomo all’interno dell’UE e le contraddizioni operative e strategiche fra paesi UE e USA nella NATO).
Anche sul piano politico-economico gli USA erano entrati in una vera e propria recessione dopo circa 10 anni di crescita economica forzata e drogata, sorretta da un fortissimo indebitamento interno, da un grande passivo della bilancia dei pagamenti con forte indebitamento esterno (solo a titolo di esempio si ricordano gli oltre 1.200.000 licenziamenti degli ultimi mesi e il fortissimo crollo della domanda interna e degli investimenti).
Oggi si assiste a ciò che si è sempre visto durante la storia del capitalismo e dell’imperialismo, cioè la scelta della guerra e dell’economia di guerra per uscire dalla recessione, per uscire dalla crisi di leadership dei paesi imperialisti guida.
La soluzione dell’economia di guerra sarà quella accettata e portata avanti anche dall’UE, e quindi dal nostro Paese, perché la situazione statunitense ha avuto e avrà ripercussioni recessive in Europa. La via di uscita per la gestione della crisi sarà quella di marciare secondo i parametri del sostenimento della domanda e del dominio capitalistico attraverso una sorta di “maccartismo globalizzato” e di keynesismo militare che dovrà avere carattere strutturale, cioè ampio respiro e lunga durata (con i tagli al sistema pensionistico, alla sanità e allo Stato sociale). Se comunque il rilancio della domanda attraverso il keynesismo di guerra dovesse portare ad impennate dei prezzi, e quindi ad un contesto inflattivo, l’unica soluzione per contenere i prezzi sarà quella di sviluppare la capacità produttiva inutilizzata, pertanto aumenti della produttività del lavoro, aumentare la flessibilità e precarizzazione dell’occupazione e dei salari e ridurre i costi, in primis il costo del lavoro.
Ancora la guerra, dunque, come strumento fondamentale nella lotta tra poli per il dominio geopolitico e geoeconomico, la guerra per il controllo delle risorse energetiche e delle forze produttive, per il dominio sui corpi sociali e sull’intero vivere sociale. Un’economia di guerra che cercherà, pertanto, di sostenere la domanda attraverso le spese militari, facendo crescere la produzione delle imprese belliche e di tutto il supporto produttivo legato alla difesa, all’Intelligence, alla Security, ecc. Un keynesismo per la guerra globale che ovviamente porterà ad incrementi di spesa pubblica militare, a forti riduzioni di quella parte di spesa pubblica che invece ha carattere sociale (pensioni, sanità, salario diretto, indiretto e differito).

5. Competizione globale e guerra globale permanente

Il contesto dei giorni immediatamente successivi all’attentato dell’11 settembre vede gli USA assumere nuovamente un ruolo prioritario sul piano politico-militare, sia in senso autonomo sia all’interno della NATO (vedi il richiamo dell’articolo 5 del regolamento NATO, vedi il via libera ottenuto dalla comunità internazionale occidentale ai bombardamenti e a una “guerra globale permanente”, quindi diffusa e di lunga durata). Ciò significa, almeno momentaneamente, cercare di ridurre le mire egemoniche ed espansionistiche da parte dell’UE per tentare di rilanciare le strategie di globalizzaizone di un unico grande Impero a guida USA. Ma il processo in atto non può riportare verso la globalizzazione. Si tratta di una vera e propria dura e spietata competizione globale fra i principali blocchi economici; una competizione globale fra poli imperialisti e quindi a carattere politico-strategico. Chiarificanti al riguardo sono le palesi difficoltà degli USA in questi ultimi giorni, sia a carattere militare sia in senso diplomatico e di dominio geopolitica e geoeconomico. A fronte di un ipotizzato “fronte unico internazionale contro il terrorismo”, sempre più emergono i dissapori, le diversità, i conflitti tra poli imperialisti (USA e UE in particolare) e anche con quei grandi paesi cosiddetti emergenti (vedi Iran, Cina, Russia, Pakistan, India) che, al di là delle iniziali e strumentali posizioni di appoggio, non possono certo accettare una presenza USA in Eurasia e Centro-Asia a lungo termine con finalità di controllo geoeconomico: le aree di espansione non si cedono!!!
È con tale ipotesi, con tali scenari di mutamento di fase, di conflittualità accesa fra area del dollaro e area dell’euro, con attenzione sempre alla variabile asiatica (Cina, Russia, Iran, India) con forti mire espansionistiche sull’Eurasia e in Asia centrale, che nell’immediato futuro saremo chiamati a fare i conti, in un contesto in cui la competizione globale assumerà sempre più forti connotati politico-strategici di conflitto interimperialistico.