Come la Germania ha lavorato dietro le quinte

Racconta il settimanale Der Spiegel che, alla notizia della vittoria di Vojislav Kostunica a Belgrado, il ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer si sia battuto una pacca sulla gamba esclamando americanamente: “That’s it! That’s it!” Il gustoso aneddoto, poco importa se autentico o forse un poco ricamato dal prestigioso settimanale di Amburgo, è perfetto per descrivere il sollievo dei tedeschi e soprattutto la loro grandissima soddisfazione per la fine del regime di Slobodan Milosevic. Una soddisfazione ampiamente condivisa anzitutto dagli Stati Uniti e dagli alleati europei. Ma tra questi ultimi è innegabile che la Germania abbia avuto un ruolo di primissimo piano soprattutto nell’ultimo anno di eventi a Belgrado. Senza nulla togliere, ovviamente a quanto fatto dagli altri europei, a cominciare dall’Italia.
I tedeschi hanno saputo reagire prontamente alla lezione della guerra. Poco prima della fine della loro presidenza di turno dell’Ue (gennaio-giugno 1999), e immediatamente a ridosso della cessazione dei bombardamenti Nato, il ministro Fischer ha lanciato l’idea del Patto di stabilità per l’Europa sudorientale, un progetto dell’Unione il cui coordinatore è il tedesco Bodo Hombach, già ministro della cancelleria a Berlino. La lezione più importante della guerra in Kosovo – ha detto Fischer – è che non si può reagire solo quando è già troppo tardi, piuttosto bisogna agire in modo preventivo con sforzi complessivi, massicci e duraturi in grado di spezzare il circolo vizioso di violenza, oppressione e instabilità.
Il punto però era che, con Slobodam Milosevic saldamente in sella, difficilmente si sarebbe ottenuta una stabilizzazione. Questo ovviamente era chiaro alle cancellerie di tutta Europa e di Washington, ma è alla Germania che si deve l’iniziativa del Patto e soprattutto il maggiore sforzo economico e impegno politico tra gli europei: insieme a Washington, Berlino è stata in primo piano nel sostegno all’opposizione, un sostegno indispensabile senza il quale, forse, avremmo nuovamente assistito al dilagare delle discordie interne che negli anni hanno sempre favorito Milosevic. Proprio Fischer, insieme alla collega americana Madeleine Albright, si è fatto promotore di incontri con importanti esponenti dell’opposizione. Il più noto si è tenuto il 17 dicembre 1999 all’Hotel Intercontinental di Berlino a margine di un incontro del G8. Un incontro nel quale i due ministri hanno strigliato a dovere i litigiosi democratici serbi, mostrando inoltre sfiducia per l’imprevedibile Vuk Draskovic.
Fu nel corso di quelle riunioni che si venne confermando il ruolo cruciale di Zoran Djindjic, oggi capo del Partito democratico e già uno dei leader di Zejedno, la coalizione di opposizione del 1996 e infine ex sindaco di Belgrado. Djindjic, che conosce personalmente Joschka Fischer, si è recato molto spesso in Germania, raramente tornando a mani vuote. Così, tanto per fare un esempio, è stato in grado di “strappare” due milioni di marchi di aiuti dal primo ministro bavarese Edmunci Stoiber. Anche lo scorso ottobre era a Berlino per vari giorni. Il suo rapporto con i tedeschi ha ragioni lontane, biografiche: il sociologo, che parla un buon tedesco colto, è stato allievo del filosofo Jürgen Habermas; negli anni Settanta ha vissuto in Germania. Soprattutto per il mondo germanico, trovare un esponente politico dei “selvaggi” Balcani in grado di spiegare la situazione in un tedesco fluente quanto elegante era come trovare un faro nella notte.
Non a caso, sia pure con un pizzico di bonaria ironia, in un recente ritratto la Süddeutsche Zeitung chiama Djindjic “il nostro uomo a Belgrado”. Per noi definirlo, in tutta serietà, “il manager del cambiamento”, esprimendo quello che in Germania tutti pensano, a cominciare dagli ambienti di governo: “Djindjic”, scrive il quotidiano, “è la testa dietro la vittoria dell’opposizione. (…) Che sia persona intelligente lo ha dimostrato subito prima delle elezioni. Invece di assumere egli stesso il ruolo-guida nella coalizione di opposizione Dos, come gli sarebbe spettato come capo del dominante Partito democratico, ha lasciato il passo al fresco candidato Vojislav Kostunica”. Il quale sembra ai tedeschi quasi una pallida figura in confronto all’ex sociologo, che “in ogni caso resterà uno dei protagonisti della vicenda”. A proposito di Kostunica: i tedeschi non sono proprio entusiasti, è chiaro che avrebbero di gran lunga preferito Djindjic al suo posto: “Il neopresidente”, sostiene ad esempio il corrispondente per i Balcani della Frankfurter Allgemeine Zeitung, Matthias Rüb, “è piuttosto francofilo che germanofilo”. Non solo: i tedeschi – come del resto gli americani – non sono felici dei tratti nazionalistici di Kostunica che “potrebbero”, scrive Der Spiegel, “ostacolare un rapido riavvicinamento con l’Occidente. (…) Questo però non disturba più di tanto i tedeschi: quel che conta è che Milosevic sia stato messo fuori gioco”.
Nel loro sostegno all’opposizione, i tedeschi hanno usato la tipica “arma” che li caratterizza dal dopoguerra in poi: i soldi. Così, ad esempio, per quelli che Joschka Fischer ha definito “progetti faro” – anzitutto il sostegno ai media indipendenti – il ministero degli Esteri di Berlino, ha stanziato 1 miliardo e 200 milioni di marchi in quattro anni a partire già dall’inizio del 2000. Soprattutto, però, l’aiuto all’opposizione è arrivato attraverso la “porta di servizio”, per evitare il rigido divieto di ricevere aiuti da Stati occidentali imposto dal regime de Belgrado: il sostegno finanziario alle città guidate da sindaci dell’opposizione, attraverso la formula del gemellaggio (un’idea seguita poi anche da altri paesi europei): in questo modo 45 milioni di marchi sono arrivati ai 40 Comuni serbi “ribelli” (vedi carta). Si trattava di far capire alla gente che la democrazia “rende”. È stato lo stesso ministro a esortare le città tedesche a partecipare all’iniziativa – coordinata dall’ex sindaco di Düren Jupp Vosen – garantendo i finanziamenti federali, anche se poi si sono aggiunti contributi volontari dei sindaci. Alla fine, 16 Comuni tedeschi (tra cui importanti città come Monaco, Colonia, Hannover) hanno aderito ai gemellaggi, ai quali si aggiunge quello di vecchia data tra Dortmund e Novi Sad. L’effetto è stato quello sperato: le città governate dall’opposizione in Serbia si riconoscono solo mettendoci piede, niente più buche nelle strade, impianti elettrici funzionanti, fognature in ordine, scuole e ospedali finalmente riscaldati.
Un’operazione efficiente realizzata attraverso il coordinatore del Patto di stabilità Bodo Hombach, che ha tenuto incontri con i sindaci interessati nella cittadina ungherese di Szeged, al confine con la Serbia: ogni borgomastro si è presentato con una lunga lista di beni e infrastrutture particolarmente urgenti. La Germania avrebbe voluto fare ancora un passo in più: insieme a Francia e Austria, aveva fatto pressione sugli alleati occidentali -–già nei mesi precedenti al voto del 24 settembre – affinché fossero revocate le sanzioni che colpivano soprattutto la popolazione (embargo petrolifero e blocco dei voli sulla Jugoslavia). La proposta – caldamente appoggiata dalla stessa opposizione serba – è fallita anzitutto per il rifiuto della Gran Bretagna, ma è stata in parte compensata dal programma Energy for democracy, con l’invio di combustibile nelle aree controllate dall’opposizione. Adesso l’afflusso di aiuti economici dalla Germania – inquadrati nel contesto europeo – proseguirà. Così il ministro per la Cooperazione allo sviluppo ha stanziato altri 30 milioni di marchi, una delegazione ministeriale si è recata sul posto a metà ottobre. Tra le prime preoccupazioni dei tedeschi, sul fronte della ricostruzione, è il ripristino della navigabilità del Danubio: un corso d’acqua importante per l’economia tedesca soprattutto per l’import-export di merci da o per l’Est Europa. Già nel gennaio scorso, il ministro degli Esteri tedesco si era impegnato per ottenere un finanziamento dell’Unione Europea per affrontare la questione. E il 7 ottobre scorso il governo federale ha annunciato lo stanziamento di un primo milione di marchi per un fondo internazionale per la navigabilità del Danubio.
Si arriva così al terzo grande motivo che ha spinto la Germania a sostenere la stabilizzazione dei Balcani e il ricambio democratico in Serbia, che è di carattere schiettamente economico. La Germania era il primo partner commerciale della vecchia Jugoslavia titina. Nel 1990 gli scambi commerciali con Serbia e Montenegro (che costituiscono l’attuale Jugoslavia in forma ridotta) erano dell’ordine di 5 miliardi e 200 milioni di marchi; anche per queste due specifiche repubbliche i tedeschi erano i primi partner. Da allora, per via dell’embargo e della guerra, lo scambio si è drasticamente ridotto, ma gli imprenditori tedeschi sperano adesso di poter rapidamente recuperare. Del resto, la fitta rete di contatti economici non è mai del tutto scomparsa, le imprese impegnate da decenni nel territorio non se la sono sentita di rinunciare a quanto era stato faticosamente costruito. Così nell’ombra dell’embargo, almeno sul piano personale i contatti sono rimasti. Non ci siamo mai ritirati del tutto. Si è discusso anche di progetti concreti da realizzare dopo la fine delle sanzioni, dice Torsten Klette, esperto di Europa orientale del Diht, la Camera dell’industria e del commercio. E adesso, con la fine del regime di Milosevic, gli imprenditori si stropicciano letteralmente le mani. Siamo pronti, – dice ancora Klette – abbiamo già una serie di progetti molto, molto concreti. In primo piano, ovviamente, la ricostruzione : il Diht valuta in 6 miliardi di marchi gli investimenti complessivamente necessari per ripristinare le infrastrutture essenziali e le vie di comunicazione distrutte dalla guerra. Insomma le occasioni non mancano, tanto più che l’Unione Europea ha stanziato due miliardi di euro per finanziare la ricostruzione.
Naturalmente, si dovrà vigilare. Berlino ancora non è del tutto tranquilla sulla situazione. Così, il governo federale ha fatto capire che gli aiuti finanziari tedeschi hanno una chiara condizione politica: Milosevic deve essere definitivamente allontanato dalla politica interna jugoslava. Quanto alla sua estradizione, dovrà essere la nuova dirigenza serba a decidere. Non solo: anche il Montenegro – al contrario della Serbia già da mesi beneficiario di aiuti internazionali – farà bene a non alzare troppo la testa: per la stabilità dei Balcani e gli interessi europei un ulteriore divorzio sarebbe negativo. Non vi è alcun motivo – dicono fonti governative – perché il Montenegro si distacchi dalla Jugoslavia. L’Occidente non sosterrà forze secessionistiche. Qualcuno vorrebbe ricordare il frettoloso riconoscimento da parte tedesca di Croazia e Slovenia nel 1991. Ma questa è un’altra storia.