Forse fra alcune ore conosceremo la proposta di Prodi sulle pensioni. Per il momento si può solo esprimere una sensazione, suffragata però da molti indizi. La sensazione è che alla fine il risultato sarà comunque deludente. Non si tratta di fare del disfattismo ma di prendere atto di alcuni elementi emergenti nel dibattito. Veniamo dunque ai fatti.
Il programma dell’Unione prevedeva il superamento dello “scalone” di Maroni, anche se lo faceva in maniera ambigua, prevedendo una gradualità nell’allungamento dell’età pensionabile, il che – fra l’altro – ci conferma una volta di più dell’errore a suo tempo commesso dalle forze della sinistra di alternativa nell’impostare la trattativa sul programma. I compromessi fatti in quell’occasione non hanno retto la prova della sfida di governo, lasciando la sinistra in una condizione di evidente difficoltà, senza peraltro consentirle di far leva su alcuni – anche se pochi – punti qualificanti.
Ma torniamo al merito. La questione che è stata posta, e cioè quella dell’eliminazione dello scalone, nasceva da tanti buoni motivi. I risultati finanziari della gestione INPS erano positivi, l’allargamento del mercato del lavoro a quote consistenti di immigrati aveva contribuito a mantenere sostenuto il flusso contributivo, la rottura generazionale determinata dalla riforma Dini ne sollecitava una rimessa in discussione. La parola d’ordine sostenuta dalla sinistra di alternativa, ma anche da alcune importanti categorie sindacali, come la FIOM, era molto chiara: no all’allungamento dell’età pensionabile, eliminazione dello scalone
A che punto siamo ora? Pare ormai consolidata la convinzione che si debba acconsentire al passaggio da 57 a 58 anni con l’inizio del prossimo anno. Su questo punto non vi è molto da dire, si tratta di un primo consistente cedimento. Il problema è che tale concessione al governo doveva servire per reggere su altri fronti. In particolare, l’ipotesi era che si sarebbe dovuta aprire una sperimentazione sulla base di incentivi per la permanenza al lavoro. A conclusione di tale sperimentazione si sarebbe deciso se allungare ulteriormente, o meno, l’età pensionabile. Quello che, tuttavia, era già emerso dalla trattativa era il carattere poco più che simbolico di tali incentivi. Il che rendeva abbastanza plausibile un effetto pressoché nullo sull’allungamento volontario dell’età pensionabile. Su questa base era facile prevedere il possibile fallimento della sperimentazione in questione, né vi sono stati fino ad ora segnali chiari della volontà di incrementare significativamente tali incentivi.
Negli ultimi giorni la trattativa ha preso un’altra piega: al posto della sperimentazione con gli incentivi, si è ipotizzata l’introduzione di un sistema misto a gradini e quote. L’ipotesi che continua ad aleggiare è quella, dopo lo scalino dei 58 anni, di un nuovo scalino a 59, per poi passare a regime con un sistema a quote che determini l’anno in cui un lavoratore può andare in pensione bilanciando il numero di anni di contributi versati con l’età anagrafica. Mi pare evidente che, se una simile proposta passasse, il superamento dello scalone verrebbe definitivamente meno. Ci troveremmo, cioè, di fronte ad un allungamento dell’età pensionabile, anche maggiore di quello imposto a suo tempo da Maroni, seppur dilazionato nel tempo. Senza contare l’incertezza che grava sulla possibile riduzione dei coefficienti, fino ad ora non esplicitamente esclusa.
Il punto sul quale ci si vuole attestare pare essere l’allargamento della platea dei lavori usuranti, comprendendovi i lavoratori che lavorano su più turni e quelli che sono impegnati in attività vincolate (come catene di montaggio, isole, ecc.). Il minimo che si possa dire è che se è positivo tentare di allargare la platea degli esonerati dall’allungamento dell’età pensionabile, è del tutto evidente che una discussione condotta sotto la spada di Damocle della riduzione della spesa
difficilmente condurrà ad una scelta ineccepibile, ammesso che sia accettabile allungare l’età pensionabile in un contesto in cui non ve ne sono ragioni plausibili. Avremo quindi – nel migliore dei casi – una fascia (non si sa bene come composta) di lavoratori tutelati, in presenza di una quota assai ampia che subirà l’allungamento dell’età pensionabile. A meno che non si tornasse all’ipotesi degli incentivi, ma che a questo punto, per essere minimamente credibile e non costituire semplicemente l’alibi per il futuro allungamento dell’età pensionabile, dovrebbe prevedere incrementi consistenti.
Se allora si profilasse lo scenario anzidetto (scalini, quote e platea di lavori usuranti più ampia), di cui peraltro tutti parlano, potremmo considerarlo un buon esito? No, e il fatto che sarebbe l’unica mediazione possibile, per tenere in piedi il governo, non potrebbe far modificare il giudizio. L’affondo di Tremonti che invita il centro-sinistra ad essere conseguente e a rispettare l’impegno ad abolire lo scalone integralmente è ovviamente una provocazione, ma coglie il nodo intorno al quale ruota la questione.
Se si sta ai fatti, quello che emerge è l’esistenza nel governo di un’opzione liberista assai corposa che sarebbe ingeneroso attribuire al solo Padoa Schioppa, al quale peraltro va riconosciuta una sostanziale coerenza di comportamenti rispetto alle tesi che ha sempre sostenuto. Ci sarebbe, piuttosto, da chiedersi come mai a suo tempo questi fu prescelto per svolgere l’incarico di Ministro dell’Economia e delle Finanze, ma questa è un’altra storia. Il punto è che questo orientamento liberista così pervasivo nella maggioranza di governo costituisce, ormai, un vincolo non più eludibile.
Per le ragioni prima illustrate dovrebbe essere chiaro che l’offensiva che muove dal PD e dai settori moderati della maggioranza ha motivazioni di natura prevalentemente politica. Lo dimostrano i comportamenti e gli argomenti usati. Dall’allusione allo scontro generazionale da comporre in un nuovo patto, fatta da Veltroni, alle fiaccolate sotto le sedi dei sindacati promosse (peraltro con scarso successo) da parlamentari del nascente PD, all’ out out posto esplicitamente all’estrema sinistra da Rutelli e anticipato da Scalfari.
Ma se questo è, occorre allora dire con chiarezza che i margini per la convivenza nello stesso governo della sinistra di alternativa e dei moderati si stanno riducendo al minimo.
Ma la sinistra di alternativa ne è conscia? Non si direbbe. O meglio, in alcuni settori si esclude a priori ogni possibilità di disimpegno: è il caso di Sinistra Democratica. In altri ( è il caso di Rifondazione Comunista) lo si mette in conto, ma – alla fin fine – se ne è terrorizzati. Il problema non sta più semplicemente nella sindrome del ’98. Questa c’è, beninteso, ma il punto è che la presenza al governo di Rifondazione comunista costituisce la condizione per perseguire due obiettivi. L’uno è quello conservare un ruolo di governo che si considera funzionale a quel progetto di alternanza/alternativa che si è deciso di perseguire nel congresso di Venezia (e che se abbandonato sancirebbe la fine di una linea politica). L’altro – ed è il fatto nuovo- è quello di non intralciare in alcun modo l’aggregazione con la Sinistra democratica e gli altri partiti. La rottura con il governo farebbe deflagrare la “cosa rossa”, con buona pace del progetto da tanti anni accarezzato da Bertinotti.
Il tormentone delle pensioni, alla fin fine, ruota intorno a questi nodi. Lo si può superare solo rimettendo al centro i contenuti e facendo derivare da questi le conseguenze politiche, sul piano delle scelte di governo e delle relazioni a sinistra. Ma se non si procede così che credibilità può conservare la sinistra e, a maggior ragione, un partito di ispirazione comunista?