La crisi, ormai latente da tempo, tra Stati Uniti e Corea del Nord ha subito nel dicembre scorso un’improvvisa accelerazione. Ligia alle direttive di Washington, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA) ha redatto, il 6 gennaio 2003, una risoluzione ultimativa, intimando alla Repubblica Popolare Democratica di Corea (RPDC) di arrestare il suo programma nucleare. In caso contrario, essa avrebbe chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di adottare sanzioni sul modello iracheno.
Poco importa se il cosiddetto programma nucleare nord-coreano sia quello di produrre, non bombe, ma energia elettrica in un Paese devastato dalle calamità naturali e da una disastrosa crisi energetica. Incaricati dall’ONU di controllare l’applicazione delle norme imposte dal Trattato di Non-Proliferazione Nucleare (TNPN), i funzionari dell’AIEA, ricalcano parola per parola le richieste di Washington e accusano Pyongyang di comportamenti criminali.
La risposta nord-coreana è arrivata puntuale ed in netta controtendenza con l’atteggiamento forzosamente sottomesso e conciliante di Baghdad verso gli ispettori ONU e AIEA: essa denuncia vigorosamente la violazione, da parte degli Stati Uniti, dell’accordo bilaterale del 1994, e annuncia la ripresa dei lavori di costruzione di una centrale nucleare, interrotti, a suo tempo, in cambio dell’impegno poi disatteso di forniture di petrolio.
Il dottor Stranamore Rumsfeld, capo del Pentagono, notoriamente insofferente alle lungaggini dell’ ONU, ha incalzato l’AIEA ed annunciato che gli Stati Uniti, con o senza l’ONU, sono pronti alla guerra n° 2. Ma la Corea del Nord, che con gli Stati Uniti è in guerra dal 26 giugno 1950, non è sembrata molto impressionata. Il 10 gennaio la Korean Central News Agency ha risposto con molta fermezza:
“Considerate le gravi minacce rivolte contro il nostro Paese, il governo della RPDC decide il suo ritiro immediato dal TNPN, allo scopo di proteggere la sovranità della nazione (…) Annun-ciando questo ritiro, ribadiamo di non avere la minima intenzione di produrre armi nucleari (…).Se gli Stati Uniti rinunceranno alla loro politica ostile nei nostri confronti e porranno fine alle loro minacce nucleari contro il nostro Paese, la RDPC è pronta ad aprirsi a verifiche da parte degli stessi Stati Uniti, dimostrando che essa non produce in effetti alcun tipo di arma nucleare”.
Subito dopo, il governo di Pyong-yang ha convocato gli ispettori AI
EA chiedendo loro cortesemente di fare le valigie e di saltare sul primo aereo in partenza per Vienna. Nel giro di poche ore, la crisi tra USA e Corea del Nord ha fatto salire notevolmente la temperatura politica in tutta l’Asia nord-orientale.
Questo insolito atteggiamento di sfida di un paese piccolo, detestato, considerato prossimo al crollo, ha risvegliato ciechi rancori ideologici.
Rispuntano i fautori dei diritti umani esportabili con la persuasione militare. Renata Pisu sulla Repubblica ricalca lo stile inquisitorio di Oriana Fallaci contro il mon-do arabo e quello di Adriano Sofri contro Saddam Hussein. La Corea del Nord viene ripresentata con furia iconoclasta: “ è l’ultima roccaforte di Stalin, è un mondo tenebroso, un immenso Lager con venti milioni di schiavi affamati e disperati, soggiogati da un despota faraonico peggiore del padre, idolatrato, corrotto, ubriacone e maniaco sessuale”. Dopo di che è difficile distinguere la vittima dall’aggressore, e si rischia di non fare apparire così scandalosa l’idea del Pentagono di chiudere la partita con qualche megatone sganciato sul Nord.
Proliferazione nucleare: chi minaccia chi?
Se gli Stati Uniti e l’ONU fossero davvero intenzionati a fermare il diffondersi delle armi nucleari e la capacità di produrle, dispongono di una lista di almeno una dozzina di Stati, estranei al club delle grandi potenze “autorizzatre”, dotati di risorse ben più consistenti di quelle della disastrata Corea del Nord. In tema di pericolosità, Israele si trova in cima alla lista: possiede centinaia di testate nucleari e di vettori per lanciarle: ha dichiarato che non esiterebbe ad usarle contro il mondo arabo, non ha mai aderito al TNPN, e mantiene, a scanso di dubbi, un costante allenamento allo sterminio contro il popolo palestinese.
Il pretesto scelto dagli Stati Uniti per colpire la Corea del Nord appare dunque così banalmente bugiardo che nemmeno Il Foglio di Giuliano Ferrara lo ha preso molto sul serio. Ed è con una certa sorpresa che su quel giornale abbiamo letto alcune delle vere motivazioni che hanno indotto Bush a giocare d’anticipo e ad entrare in rotta di collisione militare con Pyongyang, senza peraltro distogliere lo sguar-do preoccupato da quello che succede a Seul. Il titolo dell’editoriale del Foglio del 24 dicembre scorso è molto indicativo: I missili di Pyong-yang fanno paura, uniti ai dollari di Seul ancor di più. Dunque, non una, ma entrambe le Coree provocano incubi in quel di Washington e le ragioni di tali incubi sono tante e grosse. Anche il politico più sprovveduto non può non vedere quanto sia importante, dal punto di vista geopolitico, il controllo militare della penisola coreana. È una gigantesca portaerei collocata in un crocevia strategico tra i più importanti del pianeta. Il migliaio di testate nucleari stivate dal Pentagono nelle basi militati del Sud, sorvegliate da 37.000 marines, tengono sotto tiro i paesi concorrenti che più di altri minacciano l’egemonia economica, politica e militare del gigante imperialista dominante: Cina, Russia e Giappone. Ma ora, ultima amara sorpresa per Washin-gton, anche la Corea del Sud, con il suo enorme potenziale economico, ha deciso di affrancarsi dallo status di satellite americano e di partecipare a pieno titolo alla ridefinizione degli assetti geopolitici della regione, a partire dal processo di riunificazione già avviato col Nord, e guardato con molta preoccupazione dall’imperialismo americano. Da obbediente vassallo, Seul è diventata una nervosa tigre al guinzaglio.
Cresce la volontà di riunificare il Paese
L’evolversi della situazione politica interna in Corea del Sud ha influito, ben più di quanto appaia, sullo scoppio della crisi. L’anno 2002 è stato un susseguirsi di grandi manifestazioni antiamericane in tutto il Paese. La prospettiva della riunificazione ha provocato un poderoso risveglio del nazionalismo, inteso come ansia popolare collettiva di riportare ad una dimensione unitaria la penisola coreana, ponendo fine alle tragedie che hanno sconvolto il Paese spaccato in due dopo la fine della II Guerra mondiale. Le due Coree sono soprattutto impazienti di togliersi dai piedi al più presto possibile la santabarbara nucleare dell’Asia, che sta sospesa da decenni sulla testa degli arcistufi abitanti della penisola.
La crescita di questa coscienza collettiva antiamericana nel Sud, alimentata da gravi incidenti con i soldati USA, simili a quello della funivia del Cermis 1,è sfociata lo scorso dicembre nella vittoria elettorale del candidato Roh Moo Hyun contro Lee Hoy Chang, considerato il pupillo di G.Bush. E’ Il Foglio di Giuliano Ferrara a spiegarci come il vincitore di queste elezioni sia un “democratico riformista, difensore dei diritti umani, ma anche impegnato a proseguire il dialogo con il Nord secondo la linea tracciata dal presidente uscente, Kim Dae Gung. La vittoria di Roh è stata determinata anche dalle manifestazioni studentesche antiamericane e da un nazionalismo che, se facilita il dialogo con il Nord, può essere una minaccia per la presenza militare americana nel Paese. Si profila quindi un dialogo tra Nord e Sud, ma in una prospettiva di allontanamento della futura Corea unificata dall’area di influenza americana”.
È facile comprendere come la prospettiva della nascita di uno Stato coreano unificato, con 80 milioni di abitanti, con un potenziale economico enorme, pienamente libero e sovrano,e con i cittadini americani obbligati, come tutti, a bussare prima di entrare nel Paese, sia divenuta il vero problema di Bush. Osservando invece gli atteggiamenti politici e le iniziative diplomatiche di Cina, Russia e Giappone, è facile immaginare il loro sollievo il giorno che gli USA cominciassero a ripiegare le bandiere a stelle e strisce, ed a reimbarcare, con destinazione California, le mille testate nucleari ed i 37.000 marines di supporto.
La crisi coreana, lungi dal precipitare nel senso auspicato dai falchi di Washington, ha assunto nel giro di qualche settimana un’evoluzione curiosa, perfino paradossale, causando non pochi problemi all’immagine di onnipotenza militare dell’imperialismo americano che, mentre continua a tener puntata la pistola alla nuca dell’ Iraq, si è visto costretto dal fermo atteggiamento della Corea del Nord a togliere il dito dal grilletto ed accettare il reintegro della prassi diplomatica-negoziale sepolta dopo l’inizio della “guerra infinita”, nonché a depennare le Corea del Nord dalla lista dell’ asse del male.
Come questo ribaltone sia potuto accadere, lo si può meglio comprendere dal susseguirsi di alcuni eventi significativi di politica internazionale che in questi due ultimi mesi, benché negletti dai mass-media, hanno concorso a smorzare i toni più oltranzisti dei falchi americani. L’episodio più rilevante che, oltre alla sua complessiva valenza planetaria, ha sicuramente interferito con la crisi coreana, è stato l’incontro di Pechino tra i capi di Stato di Russia e Cina, conclusosi il 2 dicembre 2002 con una lunga dichiarazione che rafforza l’intesa strategica tra le due grandi potenze e le relazioni già esistenti nel campo politico, economico e militare. Questa dichiarazione contiene anche una chiara presa di posizione e l’avvertimento che nessuno dei problemi mondiali, tanto meno quelli concernenti la sicurezza delle aree contigue e confinanti, potrà esser risolto senza, o contro, gli interessi delle due potenze (euro)-asiatiche.Un apposito paragrafo riguar-da la delicata e pericolosa situazio-ne esistente nella penisola coreana: richiama, con diplomatica equidistanza, Stati Uniti e Corea del Nord al rispetto degli accordi in precedenza sottoscritti, compreso quello del 1994, ed invita ad avviare un dialogo costruttivo su basi paritarie. Con l’auspicio che la prospettiva aperta dal processo di riunificazione prosegua e porti in tempi brevi alla totale denuclearizzazione della penisola coreana.
Per giunta, e a scanso di equivoci, il 18 gennaio scorso il ministro della Difesa, Sergej Ivanov, ha annunciato che la Russia replicherà allo scudo spaziale americano ed all’uscita degli USA dal trattato BM potenziando il proprio arsenale missilistico e mantenendo un livello di efficienza nucleare tale da impedire “qualsiasi aggressione contro di essa e i suoi alleati”.
Mosca e Pechino, per la trattative e la denuclearizzazione
Non sappiamo se e fino a qual punto la Corea del Nord sia stata incoraggiata da Cina e Russia a puntare i piedi nel suo duro confronto con Washington, ma possiamo dire che la cronologia degli eventi e l’oggettiva sintonia delle mosse politiche di Pyongyang con l’esplicita presa di posizione di Mosca e Pechino sulla querelle coreana, fanno supporre che non si tratti di semplici e casuali coincidenze. In ogni caso, il Nord-Est asiatico presenta ora un quadro assai diverso rispetto a quello medio-orientale. La debordante prepotenza militare degli USA è stata costretta ad accettare il ritorno all’iniziativa diplomatica, al negoziato, alla trattativa diretta con un Paese piccolo e odiato, e con un regime politico che fino a poche settimane prima pensava di poter incenerire coi propri bombardieri.
La marcia indietro di Bush
In questa difficile partita, il governo di Pyongyang e il suo leader Kim Jong Il hanno recitato la loro parte con consumata abilità diplomatica, e gli va dato atto di aver assunto, con il loro atteggiamento responsabile, un ruolo non marginale nel fronteggiare e respingere la prospettiva di una nuova Apocalypse Now.
Wahington è stata costretta a cambiare copione. Casa Bianca e Dipartimento di Stato sguinzagliano ovunque emissari diplomatici: Pechino, Mosca, Seul e Tokyo vengono reiteratamente e febbrilmente consultate e rassicurate circa le intenzioni di Washington per l’apertura di un nuovo negoziato. In una remota località del Nuovo Messico, lungi dalle telecamere, viene avviata una prima trattativa diretta coi nord-coreani.
Arrivano le prime dichiarazioni di questa clamorosa retromarcia: Donald Rumsfeld, prima pericoloso incendiario ora ineffabile pompiere, ha dichiarato in un’intervista alla Fox che “l’opzione da seguire è quella del dialogo, e la via per risolvere la crisi resta quella diplomatica” (La Repubblica, 20/1/2003). Il giorno prima la Casa Bianca aveva detto molto chiaramente che non intendeva ricorrere alle armi per risolvere la crisi con Pyongyang.
Bush ha fatto anzi sapere che gli USA sono pronti ad offrire aiuti energetici, sanitari ed umanitari in cambio della cessazione di ogni programma nucleare. Pyongyang ha affidato la risposta ad un messaggero di sua fiducia, l’inviato russo Lossiukov: “La questione va regolata in modo bilaterale tra il nostro Paese e gli USA, sedendosi quanto prima ad un tavolo di trattative”.
Altrettanto soddisfatto il neoeletto presidente della Corea del Sud, Roh Moo Yun, che ha affermato di sentirsi molto tranquillizzato dal fatto che gli USA stiano adottando la strategia diplomatica anziché quella militare: “ Quando sono stato eletto – ha detto Roh – vi era negli Stati Uniti, sia nella pubblica opinione che nell’Ammi-nistrazione federale, una corrente che spingeva ad un conflitto contro la Corea del Nord. Credo che tali intenti vadano frenati in tutti i modi. Perciò ogni sforzo della mia amministrazione sarà dedicato alla prosecuzione del dialogo con i nostri fratelli del Nord” (La Repubblica, 20/1/2003).
Sarebbe tuttavia ingenuo pensare che un Paese piccolo come la Corea del Nord sia riuscito da solo, contro tutti, a compiere il miracolo di convincere la Casa Bianca che la sola via di uscita fosse la trattativa e non la guerra.
Forse, la paventata nuova Yalta, cupola mondiale del potere unico imperiale, torna a scomporsi nelle sue conflittuali dimensioni statuali ed inter-imperialiste. E non solo in Asia…
Note
1 Il più grave è quello che ha visto, nel giugno 2002, due ragazzine tredicenni schiacciate da un blindato USA guidato da due marines ubriachi, prontamente sottratti alla giustizia coreana, rimpatriati, processati ed assolti senza nemmeno un’ammenda per guida in stato d’ebbrezza. In seguito a ciò, nelle maggiori città sud-coreane è dilagata un’ondata di violente manifestazioni antiamericane.