Chavez conquista Cuba

Hugo Chavez ha proseguito la sua permanenza a Cuba, dopo la IX sessione ispano-americana, accettando l’invito di Fidel per una visita ufficiale di due giorni, che sono stati sufficienti al leader venezuelano per conquistare il cuore e il rispetto del popolo cubano. La conferenza da lui tenuta presso l’aula magna dell’università de l’Avana, che ha fatto tremare le pareti del vecchio edificio coloniale, è stata trasmessa dalla televisione e poi ripetuta integralmente. Coloro che l’hanno ascoltato hanno potuto comprendere cosa significhi l’”effetto Chavez” in tutta l’America Latina. Gli avversari lo definiscono uno straordinario oratore, ma fuori moda. E non mentono. Egli fa pensare ad un Saint Just, per lo stile infiammato e tagliente. Ma per i contenuti Chavez si differenzia da qualsiasi modello. Fonde un idealismo messianico con il materialismo storico. Bolivar è il suo ispiratore eroico, che costantemente viene riassunto nei suoi discorsi, nel suo programma, nella sua azione. In modo così forte, così ossessivo, che la nuova Costituzione voluta da Chavez vuol cambiare il nome del paese, cambiandolo in Repubblica Bolivariana del Venezuela. Che cosa ha detto Chavez, nella sua conferenza all’università, da toccare il cuore del popolo cubano? Ha parlato del suo progetto rivoluzionario, ha trasmesso la convinzione che tale progetto si consoliderà, ha fatto capire il coraggio con il quale è sostenuto. Parlando un linguaggio atipicamente diretto, evitando analisi sofisticate, statistiche, lunghe citazioni. Il leader venezuelano, usando un linguaggio semplice, ma denso di emozioni, ha raccontato la storia del suo paese. Il racconto si è svolto su due piani: da una parte ha gettato un fascio di luce sulla corruzione sfrenata dei vecchi governanti, unita allo sfruttamento dei lavoratori e al servilismo bieco nei confronti delle forze imperialiste,. Parallelamente ha svelato con grande forza i processi di spoliazione dei paesi ricchi nei confronti dei popoli dell’America Latina, processi che spingono in una miseria sempre più vasta l’80% delle popolazioni della terra di Bolivar. Lo scenario che ne è emerso, movimentato da una selva di personaggi, è sembrato appartenere a certe rappresentazioni del teatro dell’assurdo. Ma in Venezuela è stata invece drammaticamente vera, quella democrazia della farsa. Un Venezuela da operetta nel quale l’ex Presidente ha potuto delegare il potere alla sua amante, portandola al Palazzo e facendole guidare il Paese da dietro le quinte; un Venezuela di cinici mistificatori, dove gli uomini del Potere guardavano con disprezzo il popolo, considerandolo un gregge di pecore, usando senza pietà il fucile quando esso – esasperato dalla miseria, dalla disoccupazione e dall’oppressione – scendeva nelle strade a protestare. Chavez, come un moderno cantore di storie autentiche, parlava poi del sentimento di rivolta dei giovani ufficiali dell’esercito venezuelano, ridotti a spettatori passivi del tragico degrado dello stato delle cose. La loro indignazione fu così grande, di fronte alla “matanza” del Potere, che furono spinti ad agire, per porre fine ad una situazione che avviliva la Nazione. Furono toccati dalle antiche parole di Bolivar, che malediceva coloro i quali, indossando un’uniforme, osavano puntare le armi contro il proprio popolo.

Quell’azione si concretizzò nel tentativo di insurrezione militare del 1992 che, come è noto, costò la galera allo stesso Chavez e ad altri ufficiali. Ma fu un’azione che si risolse poi nella stessa vittoria di Chavez, attraverso una parabola senza precedenti: egli si legò subito al sentimento profondo del popolo e fu eletto Presidente dalla stragrande maggioranza degli elettori, attraverso un passaggio elettorale che ratificò la morte dei partiti tradizionali. Anche del presente del Venezuela, carico di incognite, seminato da ostacoli difficili da superare, ha – naturalmente – parlato Chavez. Ma con molta prudenza, cosciente della grande forza del nemico esterno: l’imperialismo nord-americano. L’esempio di Cuba è stato presente a lungo nella conferenza di Chavez. Non perché egli nutra l’illusione di assumere il modello rivoluzionario cubano per il Venezuela. Ciò che di Cuba vorrebbe mutuare è la determinazione alla lotta, la fermezza nel difendere i principi, il valore del popolo cubano, la capacità dei dirigenti cubani nel difendere il progetto rivoluzionario. Da questo punto di vista non è certo casuale, in Chavez, l’evocazione dello spirito e della teoria di Bolivar e Martì, simboli dell’unità latino-americana. A parere degli stessi cubani, raramente uno statista straniero era mai stato salutato con un’ovazione tanto calda e prolungata come quella che è esplosa per il leader venezuelano nell’aula magna dell’università de l’Avana. Fidel, presente, ha detto ciò che ognuno aveva in cuore di dire a Chavez: “Le tue parole rimarranno come un documento tra i più importanti della nostra epoca. Le idee che hai espresso sono quelle che necessitano ai popoli che vogliono liberarsi, sono quelle che dovranno segnare la lotta del nuovo millennio”.

La conferenza di Chavez, tutto ciò che egli ha espresso, hanno lasciato un segno profondo a Cuba, hanno impressionato, hanno costretto a riconoscere il valore particolare di un uomo, di un soldato, di un politico. È difficile prevedere il futuro prossimo del Venezuela Bolivariano. Gli Stati Uniti faranno il possibile e l’impossibile per ostacolare e distruggere il progetto del Presidente. Washington non esiterà a ricorrere ai mezzi più criminali. Ma Clinton e i suoi uomini sanno sin da ora che Hugo Chavez sarà un osso duro, difficile da abbattere. Non è un Presidente recuperabile ai disegni imperialisti. Anche se il suo progetto di trasformazione gode ora di un enorme radicamento popolare, il suo partito, benché di ispirazione rivoluzionaraia, benché anch’esso radicato tra le masse, ha carenza di quadri, sia dal punto di vista numerico che dal punto di vista della qualità teorica. Ma Chavez ha la tempra del combattente, e appartiene ai “liberadori” leggendari – da Bolivar ad Artigas – per ciò che riguarda il livello etico. Come statista sembra un nuovo Allende, che preferì la morte alla capitolazione.

Ciò che vogliamo ora raccontare sembra inverosimile. Più di 50 mila persone erano allo Stadio Latino per assistere ad una partita di baseball tra le squadre dei veterani di Cuba e del Venezuela. Sin qui tutto normale. Ma l’entusiasmo nato durante l’incontro poteva prodursi solo a Cuba. Il Presidente venezuelano, in visita ufficiale, faceva parte della squadra del suo paese. Nella squadra cubana l’allenatore era Fidel Castro, che aveva come suoi vice Carlos Lage, il Primo ministro, e Felipe Perez, Ministro degli esteri. Il gioco accendeva il pubblico. Chavez faceva il lanciatore, il battitore, correva alle basi, aveva un gioco brillante. Fidel, compenetratosi nel ruolo del tecnico, si muoveva da un lato all’altro, dando istruzioni ai suoi atleti. A metà dell’incontro Fidel procedeva a delle sostituzioni. Entravano in campo degli atleti barbuti e, in apparenza, alquanto decrepiti. Ma questi nuovi atleti, tra lo stupore generale, iniziavano a correre come gazzelle. Il mistero era svelato più tardi dallo stesso Fidel: le barbe dei nuovi entrati erano finte, e dietro quelle barbe giocavano elementi della squadra nazionale cubana, campione olimpica e mondiale di baseball. Alla fine dell’incontro Fidel dirà a Chavez: “Volevamo vedere se eri in forma…” Chavez, uscito dal campo, era salutato da un’ovazione colossale e da un grande abbraccio di Fidel. I giornalisti stranieri presenti facevano fatica a capire quell’atmosfera, il significato reale della partita, la compenetrazione di Fidel nel suo ruolo, l’impegno sul campo di Chavez e soprattutto l’allegria esplosiva del grande pubblico presente. Era difficile spiegare loro che l’allegria del vivere è inseparabile dall’idea della rivoluzione. In un mondo disumanizzato dalla sacralità del mercato e dal pensiero unico, dove la piccola politica invade e deforma la vita, i rivoluzionari autentici tendono a introdurre la vita nella politica. Se l’obiettivo degli uomini è la ricerca della felicità possibile, perché non aprire le porte all’allegria, permettendo che essa illumini il grande fiume della vita? In quella notte bellissima, nel grande stadio del l’Avana, è stato chiaro che a Cuba, dopo quarant’anni dal “blocco” e dopo tanti sacrifici, la vita, l’allegria e la politica continuano a camminare unite, in una simbiosi umanistica.

(traduzione di Fosco Giannini)