Sul periodo sovietico, sullo Stato sovietico e sulla sua fine moltissimo è stato ormai scritto. Ed è stata tentata anche, benché da pochi studiosi, una valutazione non viziata da ostilità preconcetta e neppure protesa alla rivalutazione acritica di quell’esperimento. La ricerca seria ha potuto a volte avvalersi di prove documentarie utili, soprattutto, per un confronto tra la situazione economica, sociale, politica di quei paesi in quegli anni e nell’attuale periodo post-sovietico. Mi è forse possibile, perciò, un approccio diverso, fatto di interrogativi che in breve riassumano, particolarmente, le principali critiche rivolte ieri e oggi, da analisti di sinistra, al sistema sovietico.
1. Possiamo chiederci, innanzitutto, se erano maturi i tempi storici e le condizioni geopolitiche per un esperimento di transizione tentato su vasta scala, ma pur sempre “in un solo paese”? È noto che forti obiezioni alla scelta staliniana e, almeno in nuce, già leniniana, sono state avanzate sia da correnti socialdemocratiche riformiste, per le quali sarebbe stato invece necessario attendere un più compiuto sviluppo economico sociale capitalistico, sia da Trotskij e seguaci, i quali ritenevano condizione necessaria per il successo della rivoluzione il suo simultaneo dilagare in altri paesi e, al limite, nel resto del mondo. I due opposti fronti da cui partivano quelle obiezioni potevano, entrambi, richiamarsi a opere o scritti di Marx, fatta eccezione per il vecchio Marx delle lettere a Vera ZasulicŠ, e forse anche al pensiero dell’ultimo Lenin. Io sarei tentato di dare all’interrogativo una risposta ancor più radicale di quelle, benché più problematica e incerta di quelle. Una risposta che, in apparenza, esula dall’argomento.
Prenderò le mosse da un giudizio recente che non condivido. In un ampio saggio, ospitato dalla rivista del Manifesto nei suoi esordi Marcello Cini sosteneva che la repentina accelerazione nel passaggio al controllo delle informazioni biologiche, bio-psichiche ecc. e il brusco ingresso nell’epoca dell’economia e del lavoro immateriali renderebbero obsoleto l’impianto dottrinario del marxismo e quindi la sua prospettiva storico-politica, felicemente modellati, invece, sul modo di produzione otto-novecentesco. Sarebbe possibile replicare rinviando ad alcune pagine classiche di Marx e del Gramsci (che Cini non menziona) teorico della funzione intellettuale. Qui mi limito a dire che, nel discorso sull’attualità o sull’inattualità del progetto comunista, i giudizi di Cini possono forse essere accolti con una semplice inversione o “permutazione”: ovvero se l’attualità del disegno teorico marxiano, nel suo nucleo vitale, e del progetto politico che ne deriva sia constatata proprio nel nostro mondo d’oggi e invece l’inattualità si attribuisca alle condizioni oggettive economiche, sociali, culturali del “secolo breve” trascorso. Le analisi di Cini, che evidenziano i mutamenti “strutturali” nell’oggetto della produzione (quindi della manipolazione, della circolazione o della mercificazione) e nel soggetto del nuovo lavoro mentale, proprio quelle stesse analisi possono rafforzare la nostra convinzione che mai abbia avuto più solide basi prima d’ora e che ora soltanto prenda corpo, oggettivamente, il “bisogno di comunismo”, anche se tarda a venire una diffusa coscienza collettiva capace di esprimere quel bisogno nella sua soggettività e nella sua operatività.
Si rifletta, ad esempio, sul significato più generale della vittoria di Mandela sulle multinazionali dell’industria farmaceutica. Ci accorgiamo soltanto ora in modo nitido come sia eticamente ingiusto e argomentativamente irrazionale che i poveri, vittime dell’Aids, debbano pagare (o morire se non possono pagare), oggi, una ricerca scientifico-tecnologica accentrata nei suoi percorsi e, domani, brevettabile nei suoi risultati da imprese private monopolizzatrici della facoltà di approntare terapie migliori per coloro che nei prossimi anni saranno colpiti da quel flagello. È umanamente ingiusto che bambini sudafricani muoiano perché possano vivere i loro coetanei statunitensi (si vedano le statistiche sul raddoppio del male in Sud Africa e sul suo dimezzarsi negli Stati Uniti). Ed è irrazionale e anacronistico che sia appannaggio “claustrale” di pochi il sapere da Marx denominato “intelletto generale” perché naturalmente patrimonio di tutto il genere umano o perché chiamato, per intrinseco statuto, a dispiegarsi in campo aperto all’indagine e all’apprendimento di tutti; che i costi della ricerca siano riversati soltanto su una parte (su quanti sono colpiti dal male) invece che su tutti, infermi o sani non importa; che, per conseguenza, i benefici siano fruibili soltanto per chi può accettare e sopportare quei costi.
Quel che è accaduto in Sud Africa, ebbene, è emblematico di una grande novità del nostro tempo presente. In passato, infatti, non soltanto la potestà del capitale, ma anche la stessa forza-lavoro era, in fondo, una “proprietà privata” perché, prima d’esser messa in vendita, apparteneva a questo singolo individuo-lavoratore non anche a quell’altro. Il sapere e l’accrescimento del sapere, invece, sono sempre e davvero “affare pubblico” per eccellenza. La forza immateriale del sapere, in quanto forza produttiva che gradualmente sostituisca l’antica materialità della fatica e degli stessi strumenti che valorizzavano la fatica, è infatti tale da poter esser data in uso ad altri senza subire alcuna deprivazione in coloro che ne sono più direttamente gli agenti: in ciò differisce dalla classica forza-lavoro e, più in generale, da ogni dispendio energetico che debba essere risarcito. Ora, se il sapere degli uni può, senza alcuna loro perdita, farsi disponibile agli altri, anche la laboriosa (e, certamente, costosa) conquista di nuovo sapere dovrebbe essere considerata un lavoro generale finalizzato a un bene comune.
Un confronto analogo, anch’esso di grande attualità, è possibile tra la vecchia proprietà delle terre e la nuova usurpazione della Terra: cioè, tra gli spazi fertili che in taluni casi potevano ancora esser considerati frutto di ataviche fatiche o di “amorose cure” profuse con sacrifici da singoli proprietari e, per contro, lo Spazio (il pianeta) che i nuovi Padroni ritengono invece di poter impunemente depredare o devastare, non più rigenerare, a danno della comunità umana, la sola in diritto di esercitare una “padronanza” amica sulla sua inalienabile dimora.
Al bisogno, soltanto ora oggettivamente dato, di comunismo dovrebbe (ma come e quando?) rispondere un soggetto, sia pure plurale, percepibile anche nel “nome” come attento sintonizzatore di iniziative possibili entro un’area ancora minoritaria e imperfetta, ma espressiva del gramsciano “spirito di scissione”. La lunga digressione mi fa propendere dunque per l’ipotesi che la “scalata al cielo” intrapresa dopo l’Ottobre fosse prematura, non soltanto per il divario tra la Russia zarista e i paesi occidentali allora più avanzati, e non soltanto per la mancata propagazione in altri paesi e continenti, ma soprattutto perché soltanto oggi il capitalismo, compiutamente “globalizzato” nell’impadronirsi delle (nuove) scienze e nel saccheggiare la natura (antica), genera le condizioni oggettive di una rivoluzione possibile. La rivoluzione sovietica ha tentato troppo e troppo presto? Si potrebbero forse spiegare anche così il “volontarismo” esasperato, la “fretta” nell’accumulare industria pesante, soprattutto per prepararsi all’inevitabile minaccia della guerra (così Bruno Steri, sulla scorta di A. Nove, nel n. 2, 2001, di l’ernesto), e le efferatezze che hanno incontrato, nella cultura occidentale progressista, dapprima indulgenza e poi esecrazione (sullo stesso numero di l’ernesto, Michele Martelli ricorda i due atteggiamenti sia in Merleau-Ponty, sia in Sartre).
2. Secondo interrogativo, che riprende in parte il primo: il sistema sovietico è crollato perché non abbastanza o neppur lontanamente socialista? Una delle risposte è venuta da coloro che, come Bettelheim, attraverso l’analisi del sistema economico e dei rapporti sociali nell’Unione sovietica, hanno creduto di ravvisare la natura capitalistica, pur se diversamente connotata, di quel sistema. Mi sembra che una variante meno drastica si ritrovi nella risposta, più recente, di Fausto Bertinotti, in specie nel volume Le idee che non muoiono nel quale egli dialoga con Alfonso Gianni: l’esperimento sovietico è fallito, non per troppo, ma per troppo poco socialismo. È vero: da quella via al socialismo (una via impervia, non proprio un “socialismo realizzato”) si dipartivano pervicaci deviazioni che si allontanavano dalla meta anziché avvicinarvisi. Potremmo forse dire: un’idea inadeguata o irrigidita o errata di socialismo produceva una pratica, per i suoi esiti, senza uscita. E tuttavia si potremmo aggiungere: quel sistema soffriva anche per troppo poco capitalismo.
In che senso? È implicito nello stesso concetto di transizione che il vecchio e il nuovo si confrontino anche quando il nuovo tenti di guadagnare il sopravvento. Marx aveva dato indicazioni piuttosto vaghe su una cosiddetta “prima fase”. Lenin aveva compreso meglio che si dovevano “fare i conti” in modo ravvicinato con la persistente vitalità del modo capitalistico, anche se egli si era limitato, da un lato, a un tentativo di reinventare praticamente l’americanismo (Gramsci ne sarebbe stato il critico-interprete teorico) e, dall’altro, a ripristinare in Urss una più tradizionale proprietà contadina, che poi sarebbe stata sradicata senza distinzione alcuna da Stalin, dissuaso invano dal perdente Bucharin. Ma il confronto ravvicinato, se dev’esserci, deve impegnare, da un lato, tentativi validi di socializzazione e, dall’altro, una presenza (sia pure per “spezzoni” tenuti sotto controllo) dell’impresa capitalistica nei suoi modi più avanzati. Si corre, è vero, il rischio di farsi travolgere: perciò molti, a sinistra, guardano oggi con preoccupazione a quel che accade in Cina. Ma, se si ricorre ai metodi di Stalin, che voleva estirpare con il terrore giacobino ogni radice o traccia di capitalismo persino nei comunisti più devoti, mandati a morte in gran numero (si vedano le cifre ricordate da Steri, sempre nell’articolo citato), allora il rischio di capitolare, prima o poi, di fronte al vero avversario storico è di gran lunga maggiore.
3. Terzo interrogativo: il regime politico di una dittatura di partito in assenza di una, formale o reale, democrazia ha prolungato la vita dello Stato sovietico come Stato sociale sui generis o ne ha affrettato la fine? Anticipo una mia opinione: considerati i caratteri e le fasi di quella vicenda, dall’accumulazione forzata (e crudele) avviata, conseguendo alcuni successi economici, da Stalin fino alla “stagnazione” involutiva (molto meno crudele) del periodo brezneviano, e considerata l’inesistenza, nel paese, di uno Stato moderno – don de l’identificazione di fatto dello Stato nel Partito –, il togliere di mezzo da un giorno all’altro la dittatura di partito, come volle Gorbaciov, doveva fatalmente portare al collasso l’intero sistema, oltre che nei suoi risultati cattivi, nelle sue realizzazioni sociali più “buone”. La Cina, anche per cercar di risolvere analoghi dilemmi, da un lato che ha scelto di aprirsi agli investimenti di capitale privato, dall’altro ha mantenuto una dittatura di partito pur se attenuata gradualmente.
La critica di sinistra, anche su questo punto, è venuta sia dalle socialdemocrazie o dai riformisti moderati, sia dai più radicali movimenti di contestazione. Dall’uno e dall’altro versante si è levata la protesta nella convinzione secondo la quale il socialismo si dimostrerebbe di fatto impossibile senza una qualche partecipazione democratica e/o senza una tutela dei diritti personali (del resto, anche il Croce del 1932, nella sua Storia d’Europa, aveva giudicato il socialismo inscindibile dalla libertà). Ne è derivata, dall’uno e dall’altro versante, l’unanime soddisfazione per il crollo dei regimi dell’Est, associata alla speranza in un movimento socialista che, liberato da quelle catene, potesse aprirsi un miglior varco su queste macerie. Le cose sono andate diversamente, come sappiamo, anche se non rimpiangiamo certo i metodi staliniani, che portavano in germe la sconfitta, per chi sa quanto tempo, di una prospettiva socialista in quei paesi, e non soltanto in quelli. Resta il fatto, non messo in dubbio da nessuna persona seria, che la presenza nel mondo di una “minaccia” sovietica ha per quasi mezzo secolo offerto le condizioni oggettivamente favorevoli per un vasto riscatto di popoli periferici già asserviti al colonialismo e per alcune conquiste strappate dalle classi subalterne in paesi avanzati. Non v’è nessun “disegno provvidenziale” che faccia nascere il bene dal male. Convien domandare invece: se un paese poco e male incamminatosi verso il socialismo ha potuto indirettamente suscitare in altri paesi tanti e tali mutamenti positivi, quali e quanti ne avrebbe suscitato un esperimento migliore?
Non tenterò qui un altro inventario di motivazioni fornite, in sede storiografica e politologica, per dimostrare la quasi inevitabilità dei caratteri, e quindi anche delle degenerazioni, imputabili al regime politico sovietico: una rivoluzione nata dalla prima guerra mondiale e prolungatasi come “continuazione della guerra con altri mezzi”; un prolungato “accerchiamento” economico e militare; un tentativo condizionato, sottolinea Bobbio (come già nel 1937 il Croce che si dissociava dal liberismo di Einaudi), dall’assenza di tradizioni liberali locali e, possiamo aggiungere, dalla presenza, nei paesi occidentali, di istituzioni degeneri, specialmente durante e dopo la prima guerra mondiale; un secondo conflitto mondiale seguito da una guerra fredda in cui la parte che non poteva intensificare oltre un certo limite la corsa al riarmo doveva per forza di cose soccombere; una versione del marxismo che rifiutava come incondizionatamente “borghese” qualsivoglia democrazia rappresentativa, ancorché basata sul suffragio universale e aperta a talune risposte combattive delle classi subalterne.
Ometterò ovviamente di approfondire tutti quegli aspetti. Osserverò, invece, che la “dittatura del proletariato” era stata concepita, da Marx e da Engels, come una democrazia che dovesse, non abolire, ma ereditare alcuni caratteri propri della rappresentanza moderno-borghese, mutandoli di segno e allargando la cerchia degli effettivi beneficiari; come una democrazia che rovesciasse – contro una minoranza, o contro gli stessi borghesi – le discriminazioni sostanziali che la democrazia “borghese” aveva praticato fino allora contro la maggioranza dei cittadini, anche mediante le regole di un elettorato esclusivamente maschile e selezionato in base al censo o all’alfabetizzazione. La concezione leniniana dei soviet si era mossa, per l’essenziale, lungo quella linea: restrizione del diritto di deliberare, ma di segno sociale rovesciato, ossia in favore della massa di lavoratori e soldati. Si può criticare la democrazia consiliare, e io condivido molte critiche, ma si deve riconoscere che da quella avrebbe potuto originarsi, sia pure in paesi economicamente, politicamente – e anche nei livelli di istruzione delle masse – sottosviluppati e/o dipendenti, un progressivo allargamento della democrazia. E invece è stata percorsa un’altra strada: quella del cesarismo o dell’oligarchia (di partito) che, a lungo andare, si è rivelata rovinosa – non sembri un paradosso – pro prio per aver conseguito alcuni successi.
Nell’assicurare, infatti, non soltanto tutela sociale, diritto al lavoro e all’assistenza sanitaria, ma soprattutto crescita culturale di massa a popolazioni che, almeno in quei campi, hanno potuto allora raggiungere, e forse sopravanzare, la “civiltà” occidentale, il regime sovietico ha allevato, e fatto maturare, i suoi “seppellitori”. Le lusinghe della pubblicità consumistica occidentale forse avrebbero avuto un minore impatto, nei paesi dell’Est, se in essi un’intellettualità diffusa e la stessa accresciuta alfabetizzazione di massa, frutto di scelte politiche compiute da quei dirigenti, non avessero inevitabilmente ritorto contro quegli stessi dirigenti i risultati raggiunti: ossia non avessero avvertito come matura, e irresistibile, l’urgenza di istituzioni libere e democratiche. Che oggi in quei paesi non vi siano o non possano esserci istituzioni veramente libere e democratiche, è un altro discorso. Ed è un’accusa certamente meritata, anche e soprattutto dai vincitori della guerra fredda.
Vale anche per la democrazia quel che è stato detto per le conquiste anticoloniali e per quelle del Welfare occidentale. La democrazia negata in Oriente ha, per un’altra ironia della storia, contribuito all’affermarsi di democrazie più avanzate in altri paesi europei. Ripenso al caso italiano. Il Pci è stato, per oltre quarant’anni, un potente fattore di democrazia non illusoria. Sarebbe ingenuo ritenere che un processo analogo si potesse avviare nel nostro paese se il Pci avesse rotto molto prima e molto più clamorosamente i suoi rapporti con il partito sovietico e oscurato il suo richiamo ideale alla Rivoluzione di ottobre. Quel richiamo, anche se evocante un “falso idolo”, ha svolto in Italia la sua parte nella mobilitazione di masse e individui, evoluti o ancora primitivi, per una democrazia reale e “progressiva”. Del resto, i miti internazionalisti non animarono soltanto i contadini semplici e incolti dell’Italia meridionale. Il ’68 colto (con le sue pratiche di democrazia diretta) non crebbe anche sui miti ideologizzati del Vietnam, di Mao e del Che? Non è provato anche oggi che il legame idealizzante con ribellioni lontane (Chia pas, Seattle ecc.) è un nutrimento internazionalista non rinunciabile per infondere fiducia nelle lotte contro il dominio unico e per la democrazia? E colpisce un altro “paradosso” che convalida il primo a contrario. La scomparsa dell’”impero del Male”, invece che far brillare ancor più la democrazia occidentale, ha contribuito alla sua allarmante involuzione, al suo svuotamento ad opera di nuovi e più oscuri poteri sovrani, alla sua conversione in nuovi “culti della personalità”, meno tragici di quello staliniano, più farseschi nella loro loquacità e nella loro spettacolarità mediatica.
E in Italia i Democratici di sinistra al governo sono stati incapaci di fare, per il lavoro e per la democrazia, quel che aveva fatto il Pci dall’opposizione. Hanno fatto la loro brava abiura in guisa che, prima di perdere il governo nazionale, hanno perso la guida amministrativa di una città-simbolo come Bologna e (si parva licet componere magnis) appena ieri hanno visto gli elettori preferire, all’uomo-simbolo della Bolognina, nel suo collegio “sicuro”, il suo rivale. Perduta Bologna, perduta anche la Bolognina.