Centralità della classe operaia nell’era della precarizzazione e della new economy

1. Riconquista della perduta centralità

Ci si propone di sviluppare un ragionamento sul lavoro e sui lavoratori. A partire da un assunto: il lavoro oggi mantiene la propria centralità sociale, ma, particolarmente il lavoro salariato, perde la propria centralità politica. I lavoratori salariati sono di più, ma contano di meno.

Ragionare di lavoro significa capire il perché di questa diaspora e, conseguentemente: studiare le modifiche intervenute nella composizione del capitale; attualizzare i rapporti di produzione; analizzare il nuovo profilo dei soggetti della fabbrica industriale, così come della scuola e dei servizi; considerare che sono nati nuovi salariati nei trasporti, nella sanità, nel commercio. Il Partito dei lavoratori, il Partito comunista, studia a fondo tutto ciò e, particolarmente, guarda ai settori del futuro e alla loro popolazione e, ad essi cerca di collegare il proprio futuro. Partendo dal presente, sempre. Lottare studiando.

Così facendo, così sperimentando, questo partito deve essere in grado di esprimere i tratti di una politica del lavoro che muova al recupero della perduta centralità. È l’assoluta priorità. La riconquista della centralità politica del lavoro si fonde con la riconquista parallela della centralità della questione comunista.

Utilizzando a leva, anticipiamo la chiusura del ragionamento, nuovi elementi di una strategia, quali: il ritorno al sostegno della piena occupazione, con il carattere del lavoro a tempo indeterminato; la rivalorizzazione del lavoro manuale, in rapporto anche alla sua utilità sociale; il salario sociale a protezione dei periodi non coperti dal lavoro; la lotta alle privatizzazioni che, nel mercato liberalizzato, portano oltretutto agli aumenti dei prezzi e delle tariffe (è sul rovesciamento ruolo pubblico/ruolo privato che la destra ha vinto culturalmente); la resistenza ai processi di internazionalizzazione passiva e alle transazioni finanziarie; l’introduzione della Tobin Tax; la riduzione d’orario; l’analisi dei settori economici sui quali un Paese deve investire per essere in condizione di competere sulla qualità e non sul prezzo e quindi sul costo del lavoro; le l’individuazione dei prodotti, una merce o un servizio, sui quali puntare per alto contenuto di qualità e per valore d’uso superiore a quello di scambio; l’individuazione di una formazione organica a questo impianto di idee. È, questo abbozzato, l’impalcato di una nuova economia, tutt’altra cosa rispetto alla new economy e alla sua retorica.

Ma bisogna ragionare di economia partendo dalla materialità dei bisogni primari di massa. E, ragionando di programma e di centralità del lavoro e dei lavoratori, – e quindi di un progetto di trasformazione (anch’esso) tutt’altra cosa rispetto all’equivoco dell’innovazione – dobbiamo essere in condizione di smontare due luoghi comuni che si sono fatti largo nella coscienza anche di certa sinistra. L’uno riguarda la deindustrializzazione, l’altro il mercato.

• La deindustrializzazione e il superamento dell’operaio industriale riguarda, in misura diversa tra loro, i paesi industrializzati, ma le merci che si consumano continuano ad essere prodotte, a costi minori, dai paesi poveri ove si è collocata la grande industria e rinasce l’operaio industriale. Tutto ciò comporta, è vero, un certo sconvolgimento delle forme apparenti della struttura di classe (nei paesi che si sono in modo diverso deindustrializzati), tanto che un certo sociologismo superficiale è portato a dire che, essendo diminuito il lavoro salariato industriale, verrebbero a decadere le premesse della marxiana progettualità per far largo alla pervasività del programma neo liberista. Niente di più infondato, in quanto non si è ridotto il lavoro industriale ma si è compresso quello della grande fabbrica; perché, inoltre, sono nati nuovi salariati extraindustria; perché infine, nel mondo, la classe operaia in senso stretto ha raggiunto oggi la metà dell’intera forza lavoro.

• Per quanto attiene al mercato si è fatta invece largo l’idea, che in paesi come il nostro, non occorra nessuna politica economica, nessuna programmazione, che bisogna anzi astenersi dal fare (laissez faire), tanto è il mercato che “vede e provvede” a tutto. Ancora niente di più infondato: nessuno dei grandi paesi tuttora industrializzati regge sul solo funzionamento del mercato, questa è la verità. Gli Usa pianificano nel rapporto Governo.complessi privati; così il Giappone, che è un’economia fortemente pianificata soprattutto nella gestione delle tecnologie. Così la Germania, così la Francia. Il mercato insomma è un’apparenza per il consumatore.

2. Realtà e retorica della new economy

Tutto ciò apoditticamente premesso, passiamo ad esaminare la questione lavoro circoscrivendo, per quanto possibile, l’analisi al contesto nazionale ed utilizzando, paradigmaticamente, il riferimento alla cosiddetta “new economy”.

Si mutua, a tal proposito, la chiave di lettura che adotta il Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, che, in efficace sintesi, sostiene: Non siamo più alla tradizionale centralità della classe operaia nell’industria. Occorre sospingere il grande processo innescato dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la cui funzione è la stessa che la fabbrica ha avuto nella rivoluzione industriale.

Partiamo, da questa affermazione che, sinistra di governo e sindacalismo d’appoggio, hanno da tempo introiettato (costoro hanno ormai in dotazione la cassetta degli attrezzi dell’avversario) e che porta a dire in coro: avanti tutta con il commercio elettronico della grande rete; vada pure alla rottamazione la fabbrica industriale con l’operaio annesso; clicchiamo, navigando felici attraverso i portali di Internet alla ricerca dell’ultima generazione dell’ultimo prodotto all’ultima moda. La new economy abbatte la differenze sociali, essa è l’essenza della democrazia. Pertanto, la sinistra oggi si definisce su questo: l’innovazione!. Così il coro che riconduce al cuore del discorso di Veltroni al Lingotto, il controcanto a Antonio Fazio.

Solo che le cose non stanno così, anche se dobbiamo fare i conti con un salto vero intervenuto dentro i processi di automazione flessibile. Qual è la realtà? In primo approccio cominciamo a domandarci quanti siano oggi quelli che possono accedere al mondo virtuale del network, quanti in pratica gli utilizzatori delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. E affidiamo la risposta a Rifkin che, nel suo recente saggio L’era dell’accesso, riporta tutti con i piedi per terra ricordandoci che il 62% della popolazione mondiale non ha mai fatto nemmeno una telefonata ed il 40% non accede nemmeno all’elettricità. Questi sono i parametri concreti per capire se una tecnologia avvicina le classi o ne allarga la separazione, se essa è per tanti o per pochi. Certo, in Italia e nell’Occidente si dovrebbero utilizzare altri parametri. L’occupazione, ad esempio, può essere il parametro più efficace. Ed allora, quando nel Sud del Paese si registra un tasso di disoccupazione giovanile oltre il 50% e, sempre nel Sud, oggi lavora una donna su dieci (dato del recente rapporto Italia Lavoro) ebbene, si può intuire come queste tecnologie non servono a risolvere i problemi strutturali di un’economia, anzi, dentro questi problemi irrisolti, esse definiscono gerarchie sociali ancor di più filtrate sull’accesso (alle tecnologie), in quanto può accostarvisi solo chi può economicamente. È una selezione.

Ciò detto non vanno assolutamente trascurate due questioni.

a) La new economy apre per davvero un fronte occupazionale interessante, ma lo apre a monte, nel suo campo manifatturiero e progettuale. Ma, se non si investe, anche questo campo può esserci sottratto dalle transnazionali e si può perdere il relativo vantaggio, come casi recenti stanno a dimostrare.

b) La new economy resta soprattutto un formidabile strumento per vendere, a valle: ora un’informazione; ora un prodotto, come l’automobile (saltando però il passaggio della concessionaria, e così bruciando a valle, sulla distribuzione, i posti di lavoro che si conquistano a monte nella definizione di programmi e macchine della comunicazione); è anche uno strumento per vendere un giornale, o un libro, e fa notizia il fatto che Stephen King venda oggi nel suo sito, scaricandola pagina dopo pagina, la sua ultima opera, facendo così a meno dell’editore ma liquidando anche il lavoro dei poligrafici (e i poligrafici).

La new economy ha in sé questa contraddizione.

Dovesse per davvero affermarsi, diverrebbe spontaneo, per l’Italia almeno, domandarsi come possa reggere un’economia che punta esclusivamente sulla qualità della distribuzione e circoscrive la produzione a sole merci ad alta composizione di lavoro e a basso valore aggiunto (per reggere a un’esportazione competitiva sul prezzo). Diverrebbe obbligatorio, ancora, domandarsi come possa reggere un’economia che commercializza, con tecnologie talvolta sofisticate ma ad accesso limitato, prodotti o di importazione o pur confezionati in Italia, ma da aziende di cui si è impadronito il capitale straniero, pronto ad abbandonarle, qualora altrove si configurino condizioni di mercato e di costo del lavoro più convenienti. Questa è un’economia a rischio: ad ogni oscillazione dell’euro sul dollaro e del costo del barile rischia appunto l’implosione.

Appare allora con nettezza il punto. Con la nuova economia si possono per davvero distribuire merci, prodotti, informazioni, cultura in modo diverso rispetto al passato. Ma è solo con la old economy che si produce. E se un paese non produce – acciai, auto, trattori, locomotive, brevetti, conoscenze – se questo paese compera solo, perde, l’Italia l’ha già persa, autonomia economica, politica, militare. Questo è il punto.

Pertanto, l’affermazione di Fazio, e la politica conseguente, e la retorica sulla sola innovazione, portano il Paese ad aggravare la sua condizione di sudditanza dai grandi centri che considerano la new economy funzione di un’industria di cui si sono ben guardati dal liberarsene. In Italia, insomma, pare ritornare il miraggio fatto apparire negli anni 80, sul futuro mirabolante di un terziario tanto avanzato da soppiantare l’industria – dalla siderurgia all’elettromeccanica pesante – legittimando lo smantellamento e la creazione di milioni di operai monete fuori corso Spossessati di saperi e identità. “Ma come si fa – dicevamo inascoltati, quando non irrisi dall’avanguardia del “nuovo che avanza” – ma come si fa a considerare avanzato un terziario se esso non ha radici nell’industria avanzata?” Ecco, oggi, con una new economy senza radici industriali si sta riproponendo l’equivoco. Ma, equivoco o scelta?

3. L’equivoco dell’innovazione, la scelta della trasformazione

Uno studio recente della European Foundation for Enterprise Research ci dice che negli Usa, le imprese investono nella formazione delle business school 20 volte più che in Italia.

È da riscontri come questo (e non è dei più felici), e, in Italia, dai tagli sulla ricerca – dove non viene nemmeno rispettato l’accordo 23/7/93 che prevedeva lo stanziamento del Pil -, dalle privatizzazioni delle aziende pubbliche a cliente garantito, autentici regali all’impresa privata che si ritrae dalla competizione a rischio nel mercato liberalizzato, è da tutto ciò che appare con nitore la scelta di abbandonare la produzione industriale e quindi appare la scelta di disinvestire da ricerca, infrastrutture e formazione conseguenti.

C’è una specularità tra la politica dell’impresa che si ritrae e la scelta dello Stato di vendere, con un’incidenza superiore a quella inglese. Con una doppia conseguenza.

• La prima, è lo stesso Fazio a riconoscerlo quando rileva che negli anni 90 l’Italia ha accumulato un ritardo di crescita di 7 punti di Pil rispetto alle altre economie dell’area dell’euro e, da allora, i posti di lavoro sono calati di 1 milione e 400 mila unità.

Solo che la ricetta adottata dalla Banca d’Italia (e da Visco) concertata con il Sindacato, è mutuata dal peggioramento del modello americano: flessibilità esasperata, fino al fallito Patto per il Lavoro di Milano, fino all’accordo di job on call respinto alla Zanussi. Solo che gli Usa, pur flessibilizzando, investono in ricerca e mantengono lo zoccolo industriale. In Italia siamo al fondamentalismo della flessibilità.

• Il secondo effetto lo rappresentiamo attraverso i dati Istat, che ci parlano di retribuzioni che aumentano del 2,3% su base annua e, quindi, aumentano meno dei prezzi, più 2,5%. E sono, queste, le retribuzioni degli occupati a tempo indeterminato, destinati a diventare minoranza assoluta. I lavoratori a tempo determinato su salario, orario, diritti, sono già calpestati. E a Milano capitale insieme, della new economy come del lavoro precario, ben 8 su 10 delle nuove assunzioni avvengono per lavori a tempo determinato. Il futuro è già impostato sul Cad del capitale. Assai chiaro è che viene chiamato robustamente in causa il Sindacato della concertazione che non ha difeso né il lavoro, né il salario. Siamo tornati alla fine degli anni ’50, dopo la sconfitta alla Fiat. Poi ci fu la riscossa degli elettromeccanici. Ma, oggi, chi sono gli elettromeccanici del 2000?

Opportuno è, a questo punto del ragionamento, fare sintesi sull’obbiettivo postoci: come recuperare centralità politica al lavoro e ai suoi soggetti, come accompagnare il recupero con le idee e l’iniziativa del Partito.

In buona sostanza, se il corso politico ed economico dell’ultimo ventennio ha portato ai risultati cui abbiamo fatto breve menzione, si tratta di avere idee e forza per rovesciare radicalmente questo corso, e avere già un programma in cui, rapportato al lavoro, sia valorizzato, recuperato il momento della produzione di un bene come di un servizio. Valorizzare la produzione sorretta dalla ricerca, dall’ingegneria di progettazione, dalla formazione, da un’industria manifatturiera di qualità. Questo è il cuore del rovesciamento radicale dell’economia (e della politica). Con un elemento sul quale misurarci: se nelle economie dell’Occidente la grande industria tradizionale – meccanica, chimica, tessile – è stata rispalmata per il mondo e ricollocata laddove il lavoro costa meno – anche se resta una media e piccola industria che in Italia opera in nicchia o in committenza di indotto di industrie europee che hanno mantenuto la massa critica di qualità – ebbene, avanza nelle stesse economie e nella società una domanda di servizi -–sanità, casa, trasporti, energia da produrre e vettoriare – che richiede la fortissima qualificazione di una nuova industria non collocabile in offerta, a differenza della tradizionale, lontano dai luoghi della domanda. È la novità. È la nuova frontiera del lavoro alla quale collegare gli elementi rivendicativi citati in premessa (la piena occupazione e il salario sociale; la Tobin Tax e le 35 ore; il sostegno ai salari e alle pensioni ecc.). E, su questa frontiera, far crescere, in contiguità al nuovo lavoro, il progetto comunista e riscoprire l’elettromeccanico del 2000.

4. Il semilavorato della trasformazione: dall’accesso alla partecipazione

Il Prof. Bianchi, già direttore di Sviluppo Italia, ci spiegava sul Corriere della Sera che: … oggi ci vogliono prodotti innovativi e bisogna indirizzare gli investimenti, non verso operazioni finanziarie, non solo verso l’innovazione dell’esistente, dal tessile alla meccanica, ma verso la ricerca, verso prodotti innovativi. Tenendo in grande considerazione il mercato dei bisogni delle persone. Ben detto (poi Sviluppo Italia fa altre cose) ma questa può essere una bozza sulla quale attestare una nuova politica economica e del lavoro. Può essere anche una base per progettare un programma minimo comunista. Si potrebbe dire così in grande sintesi – e sempre a partire, (ma ci stiamo ripetendo), dalla difesa dell’industria residua, dalla programmazione economica, dall’opposizione alle privatizzazioni come ai processi non contrastati di internazionalizzazione passiva, e, sempre difendendo i più deboli ai quali però far capire che c’è una luce aldilà del masso che ostruisce l’antro del Ciclope in cui ci hanno cacciati – si potrebbe dire: che deve essere sostenuta la ricerca, che l’innovazione di prodotto ne sia intimamente collegata e che l’innovazione di sistema – dall’automazione flessibile alle nuove tecnologie dell’informazione della comunicazione – sia funzionale a quella di prodotto, dal manufatto al servizio. Investendo, come Partito, sui lavoratori che operano, a monte, dentro l’innovazione di sistema e, a valle, dentro l’innovazione di prodotto, che sono, saranno, questi, i lavoratori di una nuova industria di qualità e lavoratori di servizi di qualità: dal ricercatore all’ingegnere di progetto, dall’operatore ideatore dei sistemi comunicativi, all’operaio e al tecnico manifatturiero, dal turnista di una centrale elettrica al ferroviere, dal medico di un ospedale all’intellettualità diffusa nelle scuole. Investendo su questi soggetti, con un progetto, è possibile rovesciare il connotato annunciato di questa era, l’accesso, in un nuovo connotato, la partecipazione. La centralità politica del lavoro avanza con la partecipazione del lavoratore. Ma la partecipazione non può che essere sostenuta dal conflitto e da un nuovo controllo operaio del 2000.

È anche possibile, quando si parla di innovazione di prodotto, che la chiave di volta sia provare ad allineare progetti esecutivi parziali: di nuove forme di produzione di energia; di pianificazione di forme di mobilità urbana ed extraurbana; di tutela ambientale; di cura delle persone; di economia del recupero, del riciclo e del risparmio; di risanamento delle periferie urbane. Progetti quindi di beni fruibili collettivamente e che accompagnino la ricerca, la formazione, la produzione di merci. E fare leva sui saperi dei lavoratori per intaccare i poteri e i progetti dei padroni. È lotta di classe.

È solo su questa base, da conquistare, che si dischiudono nuovi orizzonti per lavoro e per i lavoratori e possono perdere vigore idee sbagliate, come la concezione di residualità del lavoro che può portare a richieste di mera sussistenza (il reddito di cittadinanza), o idee pericolose, come quella che attiene all’uso del terzo settore in chiave sostitutiva dei servizi di cui lo Stato, per la gioia della Compagnia delle Opere, intende fare a meno.

L’ultimo passaggio di questo capitolo chiude il cerchio del ragionamento con un’affermazione e la sua dimostrazione. L’affermazione: la new economy è l’essenza del taylorismo, nel nuovo batte il cuore del vecchio. La dimostrazione è relativa all’organizzazione del lavoro dentro un luogo privilegiato della new economy.

Lo stralciamo da un Editoriale di Saverio Salvemini, che dice: Se vogliamo entrare un po’ di più nell’analisi scientifica, andiamo a verificare i call center, dove si gestiscono le relazioni con i clienti per le fasi di vendita e di assistenza pre e post vendita. Si stima che oggi in Italia lavorino più di 60 mila persone su queste mansioni, la tendenza è verso una crescita robusta di quest’attività. Recenti ricerche sui call center italiani illuminano in proposito: il ritmo di lavoro è definito dalle telefonate in arrivo; l’operatore non può verificare chi sono le persone in attesa, prima che la chiamata arrivi effettivamente alla propria stazione di lavoro; il telefonista è totalmente dipendente dal sistema di smistamento telefonico; i compiti sono definiti a priori con orari, flussi, regole prescritte e non modificabili. Il call center ha la missione di soddisfare i clienti, ma rispettando rigidi vincoli di efficienza. Da un lato, infatti, è necessario massimizzare il volume delle telefonate gestite, ma contemporaneamente esiste il problema di raggiungere questo risultato con un impiego di risorse limitate, in particolare contenendo il numero degli operatori.

Tutto ciò richiama le immagini del lavoro in fabbrica di inizio ‘900, dove il ritmo dell’attività era imposto dalla tecnologia e la discrezionalità esercitata dagli operatori era pressoché nulla. Tra il fordismo d’allora e il neo-fordismo di adesso c’è proprio tutta la rivoluzione che stiamo santificando sui giornali? Per equilibrare un po’ il clima modernista che ci circonda bisognerebbe forse ricordare che sotto il mito del nuovo mondo continua a resistere l’antico taylorismo di un tempo.

5. Il sindacato dell’autonomia perduta

La questione lavoro è il nocciolo della questione Sindacato e ne declina impietosamente la crisi. La Cisl oggi adotta una linea di grande duttilità che la porta a scioperare per la scuola ma a sottoscrivere il Patto per Milano e, ancora, la porta, prendendo atto degli attuali rapporti di forza in fabbrica, a spostare la sua azione all’esterno dei luoghi di produzione (e quindi verso assicurazioni, fondi sanitari privati e patti d’area) configurandosi quale moderno sindacato ma, nei fatti, istituzione corporativo/assistenziale funzionale al Governo che sarà. La Cgil, che ha piegato la sua autonomia al servizio di un Governo senza futuro, prepara il Congresso.

Dice bene Rossanda Il congresso del più grande sindacato italiano è un grande appuntamento per tutta la sinistra e il mondo del lavoro. Ma l’appuntamento può diventare veramente fondamentale solo se questo Sindacato è capace di affrontare il nodo della sua crisi di credibilità, di rappresentanza, di risultati.

È il nodo dell’autonomia perduta. Senza autonomia non c’è Sindacato. Dice bene Zipponi, è necessaria una verifica e verifica sta nel bilancio di questi anni in cui la Cgil ha fatto l’opposto di quanto detto all’ultimo Congresso. Pertanto, sarà allora congresso vero, quello della Cgil (se si farà il Congresso che si apre in un quadro politico e si chiude in un altro), solo se questo sindacato sarà capace di prendere atto del fallimento strategico di quell’impianto di relazioni sindacali lanciato nel ‘93 e che, non solo si è dimostrato incapace di reggere all’onda d’urto liberista, ma ha contribuito a peggiorare le condizioni di vita, di lavoro, di salario, di libertà dei lavoratori italiani, accompagnando quell’onda (spesso anticipandola) con effetti devastanti.

E sarà un congresso vero e utile solo se, prendendo atto degli anni nefasti per i ceti meno abbienti, agli stessi ceti il Sindacato sarà capace di offrire una scelta: la scelta tra il considerare chiusa la fase della concertazione (da cui discende la caduta d’autonomia ed il peggioramento delle condizioni di vita, di lavoro ecc.) e, su questa base, operare la scelta conseguente di ritornare centralità a occupazione, salario e diritti, sostenendola con la negoziazione, le rappresentanze e il conflitto, sottraendola (la centralità) al sindacalismo delle relazioni istituzionali e degli strumenti concertativi; oppure, scelta alternativa, riconfermare la praticabilità della strada attuale, quella di una concertazione, quella che il Governatore della Banca d’Italia auspica, per imprimere, lui dice, un ulteriore colpo alle garanzie sociali. È la scelta tra due concezioni opposte: concertazione o negoziazione; autonomia o istituzionalizzazione. Importanti allora due cose. Importante, se si sostengono la negoziazione e l’autonomia, che siano i problemi dei lavoratori a prendere il centro del Congresso, ma attraverso la viva voce dei lavoratori stessi, gli unici che sanno leggere i processi – di composizione e scomposizione di conoscenze, di vecchie e di nuove alienazioni, di lettura della nuova definizione del ciclo di vita del prodotto, dalla sua ideazione alla sua distribuzione – gli unici che possono fornire elementi per un progetto. Ecco quel che manca del tutto alla Cgil, il progetto. Si vive di tattiche, si naviga a vista nell’alveo altrui.

Parlino invece i lavoratori e sappiano fare un passo indietro quanti, in Cgil, sono portati a compiere o non compiere scelte, ma solo in funzione del proprio tornaconto in termini di inquadramento. Perché è l’assenza di progetto che ha portato in emersione opportunismi e mediocrità culturali che si sono fatte oligarchie.

Il permanere di queste oligarchie porta ad abbattere la qualità di una ricerca, perché prevale la fedeltà a un capo, la cui progressione di carriera rappresenta l’unica garanzia di avanzamento per la cordata dei sottoposti. Il caso Cgil Lombardia è eloquente. E non ci sarebbe allora il Congresso vero, ma solo schieramenti di gruppi di potere interno. Del resto quando non individui più il nemico esterno, puoi essere portato a ricercarlo all’interno.

Altresì importante che le aree organizzate, programmatiche o meno, facciano anch’esse un passo indietro se deve, in Cgil, fare un passo avanti il progetto di Sindacato soggetto autonomo di trasformazione che sia sospinto da una sinistra sindacale ampia che, questa volta, sappia conquistare, al progetto, intere Camere del Lavoro, intere categorie, dall’industria a quelle categorie dei servizi – dalla scuola, ai trasporti, alla sanità – con i lavoratori delle quali la Cgil ha rotto il rapporto di fiducia. Questo rapporto va ripristinato su una base opposta rispetto a quella che ne ha determinato la rottura.

La battaglia nel Sindacato a sostegno della scelta strategica per l’autonomia, la negoziazione, la partecipazione e il conflitto – che esige una piattaforma progettuale e non solo resistenziale conseguente (la negazione del Patto di Milano e dell’accordo Zanussi sono necessari ma insufficienti) – può, se ha questo carattere, rendere esplicita la contiguità del progetto di trasformazione del Sindacato, con quello di alternativa che il Partito comunista ha il dovere, sul lavoro, di mettere a punto in una propria Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori Comunisti. Percorsi paralleli quello sociale e quello politico.

E se alla spinta, di una nuova analisi e di movimento della sinistra sindacale ampia in Cgil e oltre la Cgil, si sa accompagnare parallelamente la spinta – in idee, iniziative, lotta politica – di Rifondazione e oltre Rifondazione ebbene, sia l’obbiettivo sociale che quello politico possono essere avvicinati, e questa è l’oggettiva contiguità, da una sinistra sindacale ampia (l’obbiettivo sociale) e da una sinistra di alternativa (l’obbiettivo politico) di cui il Partito sia il perno insostituibile.

Ma su che comporre la piattaforma progettuale di un Sindacato soggetto autonomo di trasformazione, di un sindacato di massa e di classe? In frettolosa elencazione:

• difesa della residua sanità e previdenza pubblica, anche per impedire che la loro privatizzazione alimenti l’abbandono della residua industria privata e pubblica;

• dare centralità a una grande idea pubblica fondata su opere compatibili con il territorio e sui servizi, finanziata dalla tassazione delle transazioni finanziarie;

• rovesciare i patti d’area in accordi sul lavoro di qualità conseguente e sul salario di qualità;

• inventare casi di successo di controllo operaio incentivando i saperi diffusi e le conoscenze dei processi nell’industria e nei servizi;

• legare al controllo la contrattazione collettiva nazionale e aziendale;

• recuperare percorsi di piena occupazione a tempo indeterminato e offrire questa certezza ai giovani;

• ritornare assoluta centralità al salario che non è stato difeso a fronte di una produttività andata in profitti;

• rivendicare il diritto alla formazione contrattata.