A distanza di pochi mesi l’uno dall’altro e tutti nell’arco di un solo anno, grandi movimenti hanno scosso la politica italiana, mostrando la vitalità di quella “società civile” la cui reattività molti davano per persa: da Genova a Roma, dai giovani che rifiutano gli esiti sconvolgenti della globalizzazione capitalistica, ai lavoratori riuniti dalla CGIL nella battaglia per la difesa delle fondamentali conquiste del lavoro; dall’eterogenea coalizione di intellettuali, semplici cittadini che si oppongono alla liquidazione dello stato di diritto, fino agli immigrati che rivendicano per se stessi e per noi tutti giustizia ed uguaglianza.
Colpisce la maturità di questi segmenti in cui si articola la lotta e la protesta sociale. Colpisce la concretezza di analisi e di proposta che fermenta dalla loro mobilitazione. Sorprende anche la consapevolezza che essi mostrano di avere della propria parzialità, l’umiltà di non porsi, ciascuno, come luogo della sintesi politica. Questa assenza di presunzione, l’estraneità a vocazioni o corporative o totalizzanti fanno dei movimenti una strepitosa risorsa per la democrazia italiana in crisi ed un’occasione irripetibile per il rinnovamento della sinistra.
Per questo si resta allibiti di fronte all’imbarazzo, quando non all’ostilità da casta autoreferenziale, con cui parte rilevante del centrosinistra guarda a quella sollevazione di popolo, che dovrebbe invece accogliere come una benedizione.
Anche nel comprendere Genova vi fu ritardo, poi replicato di fronte all’imponente lotta operaia contro la cancellazione dell’articolo diciotto. Ora la cosa si ripete con il cosiddetto movimento dei girotondi. Dunque, come dice il poeta, c’è del metodo in questa follia. Perché l’autocritica è sincera e profonda solo se si corregge la rotta e non vi è replica dell’errore.
Chi a sinistra tradisce un incomprensibile nervosismo e insiste nel dire saccentemente che i movimenti non bastano, racconta una cosa ovvia, oppure malignamente subdola, perché scarica paradossalmente sulla società in fermento i limiti propri, vale a dire l’incapacità ormai cronica di rendersi interprete di un progetto di cambiamento profondo.
Il tema merita un approfondimento. Come mai l’assunzione diretta di responsabilità, la partecipazione disinteressata alla politica, l’ingaggio nella lotta contro la deriva reazionaria dell’Italia da parte di milioni di persone viene temuta, mentre dovrebbe esserlo sommamente il contrario, vale a dire lo stagno paludoso della passività, ignorante o rassegnata o conformista?
Non è sufficiente, a me pare, ridurre tutto all’opposizione di un ceto politico che fa della propria intramontabilità un fine, ad una degenerazione burocratica che impedisce alla energie vitali di irrompere e farsi strada. Tutto ciò, beninteso, esiste, ma rappresenta l’epifenomeno di qualcosa di più grande, che affonda le radici nella sconfitta della sinistra italiana, qualcosa che ha permesso alla destra più protervamente antidemocratica che si conosca in Europa di conquistare il potere e di brandirlo come una clava contro ogni articolazione sociale ed istituzionale della democrazia. Sono oggi più di ieri convinto che i limiti della prima, travagliata esperienza di governo della sinistra traggano la propria origine non tanto, o non prevalentemente, nel carattere eterogeneo della coalizione (Rosy Bindi ha difeso il servizio sanitario nazionale più di quanto non l’abbiano fatto alcuni suoi partners collocati più a sinistra nella nomenclatura).
La crisi della sinistra si è pienamente rivelata nell’assenza di un progetto alternativo di società, nel cedimento alla dominante idolatria del mercato, nella propensione a subire, piuttosto che a contrastare, l’erosione progressiva dei principi costituzionali. La vulgata delle privatizzazioni, l’attacco alla scuola pubblica, il primo viatico al federalismo concorrenziale, le improvvide incursioni contro il mondo del lavoro, le ripetute reticenze o gli ammiccamenti di fronte agli attacchi rivolti all’indipendenza della magistratura, le concessioni alla vergognosa campagna xenofoba contro l’immigrazione e, più di ogni altra cosa, l’adesione all’ipocrisia della guerra umanitaria, hanno delineato una traiettoria politica che ha stravolto i connotati, l’identità di una sinistra riconoscibile, ripiegandola su un generico e vacuo progressismo, privo di radicamento sociale e di slanci ideali.
Insomma, è spesso e recidivamente avvenuto che la posa della prima pietra della costruzione liberista sia stata opera di una sinistra timorosa, talvolta pentita di sé, in perenne inseguimento di una legittimazione a governare fondata sull’omologazione. Poi, su quelle fondamenta, la destra, questa destra, ha costruito un edificio di venti piani, aprendo una voragine nella quale rischia di sprofondare la democrazia di questo paese.
Se si intende sul serio rimontare la corrente, occorre liberarsi dell’idea nefasta che basti impastare un po’ di cinica furbizia tattica con un po’ di pragmatismo politico e di basso profilo programmatico.
Se si vogliono suscitare sentimenti ed adesione profondi, capaci di captare consenso, voglia di militanza ed impegno civile è indispensabile misurarsi con le grandi questioni aperte nel paese e nel mondo e riparlare, concretamente, di diritti universali, di uguaglianza, di democrazia partecipata, di tutela dell’ambiente, di pace. Non come opzioni generiche, utopici orizzonti, ma come valori assoluti, da perseguire con irriducibile determinazione nella concreta azione politica.
Questo profilo che definisce un’identità e delinea un quadro di alleanze dev’essere declinato con precisione.
Sul piano sociale, dove è in corso e deve essere sostenuta senza tentennamenti la lotta sindacale che intreccia – dopo anni di latenza – conflitto redistributivo, difesa ed estensione dei diritti, riforma e ampliamento del welfare, potentemente minacciati da un’offensiva reazionaria che punta dichiaratamente ad annichilire la rappresentanza del mondo del lavoro e a restaurare un modello di relazioni sociali che si ispira al paternalismo industriale ot
tocentesco. Solo con una precisa scelta di campo è possibile sconfiggere Confindustria e Governo e rompere la collaborazione subalterna che ha avvinto CISL e UIL a questo sodalizio perverso.
Sul piano economico, uscendo dalla logica rigidamente monetarista che ispira il patto di stabilità e battendosi per una politica nazionale ed europea che rilanci gli investimenti sociali, le fonti energetiche alternative, lo sviluppo selettivo dell’infrastrutturazione civile, la crescita dell’occupazione.
Sul piano della politica internazionale, rifiutando l’ingaggio nella guerra attraverso la più ampia mobilitazione di popolo e contrastando il reclutamento dell’Italia nel plotone dei paesi gregari all’ordine imperiale statunitense, fondato sull’impiego discrezionale della forza militare e sugli interessi economici delle grandi corporations. Sul piano della politica interna, opponendosi senza incertezze, senza tregua e senza soccombere alla tentazione di impossibili compromessi, alla consorteria che sta usando il potere politico per inibire ogni dialettica democratica, per svilire il ruolo delle istituzioni rappresentative, per annullare l’indipendenza dei poteri su cui è incardinato lo stato repubblicano, per rendere coattivamente intramontabile il proprio potere dispotico.
Sono convinto che la difesa e la piena attuazione della Costituzione nata dalla rivoluzione democratica e antifascista costituisca il terreno più fertile per la ricostruzione di un profilo programmatico della sinistra e, ad un tempo, il punto più al-
to oggi possibile della lotta di classe in Italia.