La crisi della Fiat, il più importante gruppo industriale esistente nel nostro paese, è di tali dimensioni e rilevanza sociale che inerisce la stessa sopravvivenza o meno del settore dell’auto nel nostro paese e pone grandi interrogativi sull’insieme del sistema industriale.
Va subito chiarito che il settore dell’auto non è un settore maturo appartenente al vecchio industrialismo che sarà inevitabilmente sostituito da nuovo, dalle attività immateriali, con il corredo di sciocchezze che di volta in volta vengono propinate da chi favoleggia sulle Olimpiadi del 2006 a Torino, a chi concepisce il futuro come un pullulare di piccole attività artigianali di cooperative che rispondano ai nuovi bisogni sociali pensando casomai all’espansione di un terzo settore.
Queste teorizzazioni oggi sono oggettivamente di puro accompagnamento alle scelte che la Fiat sta compiendo.
In realtà il settore dell’auto è oggi attraversato da processi di profonda e radicale innovazione tecnologica, perché il prodotto auto del futuro non potrà essere quello attuale, a partire dal cuore stesso del prodotto, il motore a scoppio.
Ciò che sta giungendo a conclusione è l’auto così come l’abbiamo conosciuta, nell’attuale organizzazione nella mobilità degli uomini e delle merci, nel rapporto con l’ambiente.
Per queste banali ragioni siamo alla vigilia di un mutamento sostanziale, verso l’auto ecologica, le cui ricadute tecnologiche riguardano l’insieme del sistema industriale. Pare altresì evidente che la dimensione delle risorse da attivare per affrontare queste nuove frontiere della competizione internazionale determina una ridefinizione nel rapporto e nella geografia tra i grandi complessi internazionali, sia attraverso vere e proprie fusioni che nella costruzione di nuove alleanze. Se tutto ciò corrisponde al vero, la crisi drammatica della Fiat deriva in primo luogo da scelte strategiche sbagliate, che hanno concepito la globalizzazione come una sorta di esportazione del modello di espansione della motorizzazione nel nostro paese.
In sostanza l’idea di ripetere in altri paesi, dall’Argentina, al Brasile, alla Polonia, l’esperienza di ciò che hanno rappresentato la seicento e la cinquecento negli anni ‘50 e ‘60 nel nostro paese, il tutto accompagnato da operazioni finanziarie di diversificazione dell’attività del gruppo Fiat in settori considerati maggiormente redditizi.
Queste scelte si sono rilevate drammaticamente sbagliate non soltanto perché la crisi e non la crescita ha segnato la condizione di molti paesi, ma soprattutto ed in primo luogo perché la scelta compiuta era fondata essenzialmente sui segmenti bassi del mercato e non sul terreno dell’innovazione e della qualità del prodotto.
Per questo oggi non c’è soltanto il gravissimo problema dell’indebitamento, ma il fatto che la Fiat ogni settimana, ogni mese perde quote di mercato in Italia ed in Europa.
Sussiste un gap tecnologico consistente cumulato negli anni.
Le decisioni assunte dall’azienda, al di là dei nuovi assetti del gruppo dirigente (ormai tutto il gruppo Fiat è nella mani di Umberto Agnelli) si configura sostanzialmente come una operazione che da una parte mira con l’accordo delle banche, ad una riduzione dell’indebitamento con la dismissione di attività rilevanti non ancora precisamente definite, dall’altro un piano industriale che è finalizzato a ricostruire un punto di riequilibrio, di redditività attraverso la riduzione degli organici ed una ulteriore compressione e peggioramento delle condizioni lavorative per passare dal 70 al 90% della saturazione nell’utilizzo degli impianti.
Non esiste nulla nelle nuove frontiere dell’innovazione, c’è soltanto un predisposi alla vendita, casomai alla GM nel 2004, che a quel punto avrebbe inevitabilmente il significato dell’acquisizione di qualche stabilimento per l’assemblaggio e la chiusura del resto.
Per queste ragioni abbiamo espresso un giudizio negativo come Fiom ed aperto una vertenza che ha un significato nazionale.
Significato nazionale, non soltanto perché la Fiat è il più importante gruppo industriale, ma per la semplice ragione che tutti i settori strategici del futuro, basti pensare all’informatica, stanno abbandonando gradualmente il nostro paese, che si avvia ad essere un sistema industriale di sub-fornitura rispetto ad altri paesi europei, e quindi concorrenziale nelle fasce medio basse del mercato.
A partire dalla Fiat si evidenzia in questo modo un problema di politiche industriali per l’intero paese.
La Fiat ha scelto strategicamente questa strada fallimentare in assoluta coerenza con la pratica attuata a partire dagli anni ‘80, con una competizione globale giocata essenzialmente sui costi, agendo sulle condizioni lavorative, nei suoi diversi aspetti escludendo qualsiasi ruolo negoziale da parte dei sindacati, qualsiasi possibilità da parte dei lavoratori e delle lavoratrici di intervenire collettivamente sull’esercizio della prestazione lavorativa.
Come non ricordare, dopo la sconfitta sindacale dell’80, la favola dell’automazione integrale, della fabbrica senza operai come soluzione definitiva del conflitto sociale, da cui è derivato lo stabilimento di Cassino e successivamente, a partire dall’autocritica di Romiti, alla favola della fabbrica integrata da cui deriva lo stabilimento Sata di Melfi. Ciò che è rimasto in campo sono condizioni retributive, lavorative e turnazioni peggiorative delle condizioni esistenti negli stabilimenti storici. La crisi attuale non è quella dell’80, per la semplice ragione che allora la Fiat aveva un progetto di ristrutturazione che prima di essere attuato contemplava la distruzione del sindacato e la rete dei delegati per avere mano libera nella gestione unilaterale di quel processo.
A proposito, quando sento dire da importanti esponenti politici della sinistra che allora la Fiat aveva ragione, resto esterrefatto del livello di subordinazione e sudditanza culturale a cui può giungere una parte della cultura della sinistra.
Oggi siamo al dunque, al fallimento di quella idea, perché dietro l’angolo non c’è nessuna idea di sviluppo ma semplicemente di smantellamento, di conclusione di una storia.
Ma se le cose stanno così, se hanno questa rilevanza e dimensione nazionale che inerisce a scelte fondamentali di politica industriale, non può non colpire la evidente difficoltà a far nascere la necessaria consapevolezza nell’insieme della sinistra politica e sociale. È forte la sensazione che quando si ragiona concretamente di lavoro, del conflitto sociale aperto, si assiste ad una sorta di sottovalutazione, come se fosse una delle tante questioni.
È mia convinzione che stiamo vivendo un processo di radicale trasformazione dell’assetto sociale ed istituzionale del paese che apre inquietanti interrogativi sulla stessa tenuta democratica. Come sempre, a fronte di processi che hanno questo significato, ciò che avviene nel lavoro è un aspetto decisivo per capirne il senso, il significato sociale.
La delega sul lavoro, il probabile accordo separato sull’art. 18, l’attacco esplicito al ruolo della contrattazione mirano esplicitamente, nell’arco di alcuni mesi, a modificare sostanzialmente la condizione del lavoro dipendente e il ruolo della rappresentanza sociale del sindacato. In questo c’è un rapporto indivisibile tra ciò che sta succedendo alla Fiat e gli accordi separati che si stanno delineando.
2 luglio 2002