Cara Betta, ti ricordi?

Cara Betta, ti ricordi?

È successo tante volte, per tanti anni: si stava a casa tua, a Bologna, compagne e compagni, si discuteva, si mangiava qualcosa assieme e poi, quasi sempre, tutti se ne andavano, compreso Fausto, e io e te rimanevamo soli, nella tua cucina, a parlare. In un angolo della cucina, per terra, vi era la ciotola con le crocchette del tuo gatto.“Si è fatto un ciccione – mi dicevi – devo stare attenta, in eguale misura a lui e a Fausto, sono uno più goloso dell’altro…”. E come sempre, per quella particolare dolcezza piena di forza che emanavi, sembrava di vederti davvero dare uno stop al gatto che esagerava con le crocchette e consigliare Fausto – con un avvertimento allegro ma che comunque non prevedeva troppe repliche – di non proseguire con le fettuccine. Soli, io di quà e tu di là del tavolo, tra la frutta e le tazzine del caffè, parlavamo di Andrea, delle mie figlie, della nostra vita, di Jesi, di Ancona, del mare, di cui avevi una nostalgia profonda, una nostalgia che era qualcosa di più della nostalgia del mare: era forse nostalgia della tua infanzia spensierata e libera (si dice così, non sempre è così, nel tuo caso sembrava lo fosse); nostalgia dei tuoi odori, dei tuoi colori, o di qualcosa di più grande che io non so, che non potevo sapere, che si riassumeva in modo elementare ma non bastante nella nostalgia del mare; un qualcosa di più della nostalgia del mare che riappariva in forma più oscura, ma col tempo breve di un baleno, in certi tuoi sguardi improvvisamente assenti, lontani, dai quali tornavi immediatamente, rassicurando e – forse ancor più – rassicurandoti. In effetti, la sensazione che si aveva, parlandoti, era che tu nascondessi un mondo molto più grande di quello che mostravi, un mondo a cui avranno avuto accesso Fausto e forse poche altre fortunate persone. Ma questo mondo che ti si apriva alle spalle , che ti galleggiava attorno e nel quale non si poteva entrare era anche ciò che attirava di te.

Un giorno, nella tua cucina, con uno scarto enorme tra la pila di piatti e di tegami che salivano sul lavabo e gli argomenti filosofici che affrontavamo, parlammo dei biscotti di Proust, e cioè delle cose che per i loro nomi, i loro odori, i loro colori improvvisamente ti portano lontano, ti fanno rivivere il passato come se esso fosse lì, pronto a farsi toccare con le mani. Tu mi dicesti che oltre la risacca del mare ( che sempre ti portava lontano) quell’effetto te lo facevano le campane di una chiesa di un piccolo paese e il rombo di una motocicletta. Vai un po’ a capire cosa significasse : le campane di un piccolo paese potrebbero essere l’infanzia, il desiderio di ritrovare se stessi, il proprio nocciolo iniziale; il rombo della moto – non c’è dubbio – è la partenza e la fuga verso la linea dell’orizzonte e della libertà. Mi pare di vederti, Betta, a sconsigliare anche me di non eccedere nell’enfasi. Nel contempo, però, mi pare di vederti anche un po’ presa da questa mia versione. D’altra parte la saggezza era una parte di te, una sorta di terzo occhio, di secondo cuore; ma la pulsione alla libertà tu non ce la facevi a nasconderla sotto nessuno dei tuoi capi sobri ed eleganti.

Piuttosto, ora che ci penso, sei tu, per me, esattamente, un biscotto di Proust. Nel senso che se penso a te mi torna in mente, vivida, una parte importante della mia gioventù. La gioventù investita subito nell’impegno politico, nella battaglia – tante volte e forse ancora disperata – di ricostruire un senso rivoluzionario. Sin dai primi incontri tra i compagni, tanti e tanti anni fa, tu c’eri sempre e per questo che sei la mia madeleine, il dolce da cui riaffiora il ricordo. Ed eri lì – a volte protagonista, a volte tra la scena e le quinte – ma sempre a vivere con noi, con la nostra stessa passione il tutto e il nulla, aggiungendo in più, sulle nostre cose, sui nostri discorsi a volte(o forse spesso) un po’ seriosi e convulsi, uno sguardo denso, ammonitore. Come dire : non dite troppe stupidaggini, non esagerate, non dividetevi come i bambini, non mangiate troppe crocchette e troppe fettuccine rivoluzionarie.

Mi pare di vederti adesso, alle nostre riunioni, con i nostri leader del momento che ti seguivano nei corridoi – poiché eri un pezzo di figlia che non finiva più – per onorarsi di un tuo salutino, per dirti una stupidaggine che tu sgretolavi con un sorrisetto e con un pensierino feroce che ti appariva sulla fronte; e tu che partecipavi alle riunioni, che intervenivi, ma che ogni tanto ci facevi colare addosso un tuo sguardo, un tuo segnale ( uno qualsiasi: bastava che ti alzassi dalla sedia, o che sbirciassi da un angolo della sala) che dicevano inequivocabilmente: “ più calmi, più sobri, più seri, meno intransigenti, un po’ più adulti, per favore…”.

Sei stata una gran bella persona, Betta. La fortuna di un uomo e di un figlio. Ora che non ci sei più, quella tua stranezza di fondo che ho sempre avvertito mi pare più chiara. Ed è come se capissi improvvisamente che dentro quel confine esistenziale che ti eri tracciata ( fatto di stile, di compostezza, di classe, di amore) una motocicletta per la libertà abbia sempre ruggito, pronta alla partenza. D’altra parte, nessuna come te mi ricorda le donne di Ibsen, le donne libere, quelle che amavi, “ quelle donne che vivono in una città portuale, che nel vento del porto, di fronte alla nave in partenza, sono sempre indecise se tornare indietro, verso la città, verso casa, o andare libere per mare”.

Cara Betta, oggi che sei partita, io ti immagino così: col vento nei capelli, sulla nave che solca le onde, con lo sguardo libero, ma con le mani sui capelli bianchi di Fausto e su quelli neri di Andrea. Perché tu sei stata e sei ancora Elisabetta la saggia, Elisabetta la libera.

Ciao Betta, anch’io, nel mio piccolo, ti ho voluto bene e ti ho tanto ammirata e stimata.