Da tempo Marco Revelli va conducendo una riflessione di raro rigore sulla crisi e le prospettive del movimento operaio. Al fondo del discorso di Revelli vi sono preoccupazioni che condivido. Innanzitutto, si registra l’esaurirsi della fase fordista, caratterizzata dalla organizzazione scientifica del lavoro, della tecnologia rigida della catena di montaggio, da uno Stato interventista garante, a un tempo, della sicurezza sociale per i lavoratori e della pace sociale per il capitale; e si tenta di definire i caratteri del nuovo regime produttivo. In secondo luogo, si segnala che questa transizione impone alla sinistra un mutamento di paradigma, che lasci alle spalle quel primato della produzione che traduce la centralità sociale del lavoro eterodiretto in una superiore dignità dei lavoratori e in una preminenza organizzativa del partito e del sindacato; partito e sindacato che, a somiglianza del capitale dell’era keynesiana, sono preda di quel feticismo dello Stato che, pur nelle mutate condizioni, affligge ancora la sinistra. Infine non ci si accontenta di arroccarsi sulla mera resistenza, ma si prende la responsabilità di proporre una via d’uscita nel presente. Su queste posizioni, la sintonia con le tesi di Alain Bihr è forte, e mi sento di farla mia: urgenza di una analisi dei salti nella dinamica capitalistica, riconoscimento della crisi del modello socialdemocratico, appello a una pratica comunista come strategia di contropoteri che qui e ora contendono al capitale la sfera della socialità.
L’interpretazione della fase attuale e le prospettive di azione suggerite da Revelli, in cui quelle preoccupazioni si incarnano, mi trovano però in radicale disaccordo. Un disaccordo che tutto è meno che accademico: l’analisi di Revelli, divenuta ormai quasi il senso comune della sinistra radicale italiana, nasconde i caratteri salienti del conflitto di classe in corso e fornisce risposte illusorie: rischia, perciò, di indirizzare l’indagine e l’intervento politico verso vicoli ciechi.
La transizione del toyotismo
L’argomentazione di Revelli può essere sintetizzata in pochi passaggi. La crisi del fordismo è dovuta alla saturazione del consumo durevole di massa, indica la fine della illimitatezza dei mercati, rivela una barriera naturale alla crescita per l’insostenibilità ecologica di una estensione all’intero pianeta dei livelli di consumo del “centro”. Alla conseguente esigenza di flessibilità il capitale risponde con la mondializzazione sul terreno del mercato, della produzione e dei capitali, da cui discende la crisi dello Stato-nazione.
Organizzativamente, la flessibilità richiede la transizione del toyotismo: l’inclusione subalterna dei lavoratori e la loro pressoché compiuta alienazione sul terreno dei processi di lavoro. La combinazione di aumento vorticoso della produttività del lavoro, da un lato, e di limiti alla produzione, dall’altro lato, ha come esito la “fine del lavoro”: una distruzione sistematica di occupazione che segnala l’ormai ineluttabile riduzione della quantità di lavoro vivo nell’universo capitalistico. È un merito di Revelli la chiarezza con cui, sulle orme di Bihr che su questo è ancor più esplicito, trae le conseguenze politiche della diagnosi appena ricordata. L’unica prospettiva percorribile è quella di cavalcare la liberazione dal lavoro di cui il capitale si fa strumento, “traghettando fuori dal sistema sempre più asociale delle relazioni di mercato, strati crescenti di popolazione per riaggregarli sulla base di un nuovo legame sociale”. Nel libro di Bihr si chiarisce ciò che in Revelli è solo accennato, che un terzo settore fuori dallo Stato e fuori dal capitale non esclude, ma anzi presuppone, le altre opzioni tese a por termine alla disoccupazione di massa: la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, i lavori socialmente utili, il reddito di cittadinanza. Si può ragionare così: affinché la riduzione d’orario non dia luogo a doppio lavoro, e affinché il reddito sociale garantito non si riduca a salario di disoccupazione, sancendo la tendenza a una società duale, le due misure vanno perseguite insieme. Il reddito minimo deve essere retribuzione piena di un lavoro utile, prestato per un certo periodo di tempo in una rete di imprese di tipo cooperativo, secondo piani di riorientamento sociale della produzione; il suo livello dovrebbe essere tale da rendere concreta l’opzione di “uscita” dal mercato del lavoro, e dunque consistente.
Diverrebbe così praticabile una riduzione dell’orario durante l’intera vita lavorativa, tale da andare incontro alle esigenze di flessibilità nell’uso del tempo che non sono appannaggio esclusivo delle imprese. Il punto è che la rappresentazione della crisi del fordismo e dell’emergente nuovo ordine economico non è affatto convincente.
L’interpretazione di Revelli e di Bihr sottovaluta che se vi fu una economia mondiale unificata essa fu proprio l’era del keynesismo trionfante, caratterizzata dall’egemonia statunitense e dal dollaro come moneta mondiale, da bilanci quasi ovunque in pareggio e dal traino della domanda privata di investimenti; e dove il salario reale cresceva perché la produttività e il prodotto crescevano a ritmi ancora superiori (vale la pena di ricordare l’abc della teoria marxiana, che la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento del salario reale sono compatibili con un aumento del profitto). Un regime instabile che alla fine segò, per la riduzione permanente della disoccupazione, il ramo della pace sociale su cui era seduto, e che si incagliò in una contestazione della “disciplina” nella fabbrica e nella società di inedita virulenza ed estensione.
La “riformazione” della classe operaia
Quell’interpretazione, inoltre, immagina di avere a che fare con una mondializzazione univoca, quando invece assistiamo a una segmentazione del capitalismo nelle tre aree americana, europea e asiatica; con una mondializzazione ineluttabile, quando invece la libertà di movimento dei capitali non è fatalità ma scelta politica; con una mondializzazione disincarnante dalla materialità dei processi di lavoro, quando invece mai come oggi contano la qualità dei fattori di produzione, del credito, dell’indirizzo statale “locali”. Dove però il mio dissenso è più marcato è sulla presunzione universale secondo cui assisteremmo a un ineluttabile calo delle ore lavorate. È certo che il lavoro vivo si restringe nel manifatturiero, ancora di più nella grande fabbrica. Ma che questo configuri una eutanasia del lavoro planetaria è tutto da dimostrare. Vi si oppongono l’espansione nei capitalismi asiatici, il caso statunitense (dove la creazione di posti di lavoro non è soltanto a bassa qualificazione), il Nord-Est italiano (un caso, se mai ve n’è uno, di pieno impiego: sino a che la svalutazione lo sostiene), la realtà del lavoro dipendente e autonomo attorno alla grande fabbrica. Credo che le cose stiano esattamente al contrario di quel che si dice: che stiamo vivendo una fase di allungamento e intensificazione della giornata lavorativa sull’arco vitale con la quale il capitale sta percorrendo, dopo la sconfitta del movimento operaio, la via più facile dell’aumento dello sfruttamento; e con la quale i lavoratori che mantengono una occupazione tamponano come possono la compressione del salario reale, altra forma canonica dell’aumento del saggio di pluslavoro. Il tempo di lavoro totale si estende, e con esso, insieme, cresce il tempo di non lavoro. Si attua così un lungo processo di “riformazione” della classe operaia dopo la grande paura degli anni Sessanta-Settanta. La forza delle cose non costringe, quindi a disertare la sfera del lavoro. D’altra parte, la proposta di traghettare “altrove” i naufraghi dello sviluppo incontra due altre difficoltà dirimenti. La prima è che quella proposta sembra ritenere possibile emanciparsi, quasi in un punto del tempo e stabilmente (appunto uscendo “fuori”), dal dominio del capitale, la cui natura è invece totalitaria e non consente “esternità”. La seconda è che basta dare un’occhiata all’economia “terza” di Bihr per rendersi conto che essa richiede più Stato, più mercato, più conflitto: una fiscalità altamente progressiva, una politica industriale attiva, un piano generale del lavoro; lo stimolo a mantenere elevata la crescita della produttività; un vincolo sociale che inibisca al capitale la via di minimo sforzo nella caccia al profitto. Se le cose stanno così, l’uscita di emergenza proposta da Bihr e da Revelli presuppone che siano già stati rimossi proprio gli ostacoli all’azione della sinistra costituiti dall’impotenza dello Stato e dalla subalternità del lavoro. Lo spazio concesso è alla fine. Chiuderò allora citando don Milani: “Il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne tutti insieme è la politica. Uscirne da soli è l’avarizia”. Se, come credo, la condizione del lavoro sfruttato segna ancora la nostra modernità, sarà bene ricominciare a unire dove il capitale separa, a contrastare la precarizzazione del lavoro e la distruzione dello Stato sociale. Ripartendo dal lavoro e dal capitale per come materialmente sono.
(da Vis-à-vïs)